Sarebbe ingiusto fare bilanci sulla quarta Juve di Allegri soltanto a fine anno, sia in un senso che nell'altro: troppo facile ergersi a "profeti del giorno dopo" quando la situazione è irreversibile. Ad avviso di chi scrive, indipendentemente dal risultato dei soli due obiettivi (su quattro) ancora a disposizione, non cambia affatto la sostanza di questa riflessione sul presente e sul futuro bianconero.

Su questo bel blog il 26 febbraio scorso ho pubblicato un articolo dal titolo "Perché vincerà il Napoli", basandomi - ahimé - più su dati di fatto che sulla improbabilità statistica di ripetere una stagione trionfale. Non credo di essere molto lontano dal vero portando alla luce qualcosa che in molti sanno, ma pochi dicono: questa Juve 2017-2018 è il risultato di un all-in da parte della proprietà e del suo allenatore, con l'avvallo del direttore generale.
Non è certo la Juve del Presidente Agnelli, che avrebbe preferito anteporre la "juventinità" e "il senso di appartenenza" ad un ricambio basato solo sulla teoria dei piedi buoni e della qualità.
Abbiamo bisogno di più qualità, soprattutto in panchina, si diceva invece nello staff tecnico, come se il Real avesse vinto per colpa di Lemina. 
A metà strada tra le due posizioni il Vice Presidente Nedved, che, seppur infastidito dal protagonismo di Bonucci e dalle sue parole una volta passato al Milan, non ha mai digerito la scarsa motivazione e lo scarso impegno dimostrato dai figlioli prediletti di Allegri. Al punto, ad esempio, di rompere l'assordante silenzio calato intorno al caso Dybala, che, dopo aver ottenuto un paio di ritocchi economici da top player e scatenato le ire di alcuni vecchi, aveva sostanzialmente smesso di giocare a buon livello e aumentato la sua presenza sui social. Non è però un mistero che i nomi di Nedved e Del Piero circolino per il dopo Agnelli e in questa ottica vanno verosimilmente lette alcune dichiarazioni di Buffon (che non a caso disse di voler parlare del suo futuro solo col Presidente) o di Del Piero stesso contro il suo ex compagno.

In questa turbolenza si inserisce il tentativo del vanitoso Allegri, reduce da 3 stagioni straordinarie, di imprimere il suo marchio sulla nuova squadra: come da sua filosofia, già sperimentata al Milan, nessuno è imprescindibile salvo un centrocampista e 2 o 3 funamboli in attacco dai piedi buoni. A ciò devono supplire una maniacale organizzazione della fase difensiva, che privilegi giocatori veloci e buoni coi piedi (es. Zapata o Benatia) al difensore puro, oltre ad una condizione fisica studiata per entrare in forma nella fase centrale del campionato. Non a caso Allegri ha più volte detto che preferisce forzare la preparazione e quindi rischiare l'infortunio. Gli infortuni: altro tratto caratteristico della sua gestione.
In questo contesto, pochi giocatori sono imprescindibili e tutti sono monetizzabili: per Allegri e per la proprietà i giocatori sono "asset". Inoltre, ad Allegri non interessa lanciare i giovani: per i suoi meccanismi meglio giocatori fatti.

I quattro anni di Allegri si avviano dunque a finire nel peggiore dei modi: la squadra ha un'età media alta; è oggettivamente meno forte di quella che trovò e valorizzò al suo arrivo; i giovani non sono stato affatto inseriti nel progetto, anzi; le punte di diamante della squadra sono tutte offuscate; il valore di mercato dei giocatori più appetiti si è pressoché dimezzato.
Tutto ciò nonostante circa 300 milioni di euro di investimenti, che solo in bilancio possono essere giustificati con le cessioni a peso d'oro e invece sono investimenti non redditizi.

Ora si può dire: l'all-in di Elkann, Marotta e Allegri è stata una catastrofe. Sarebbe stato opportuno ascoltare Bonucci (e non solo): a Cardiff si era chiuso un ciclo e bisognava avere il coraggio di ripartire con facce nuove.

Un po' come in politica: troppa toscanità favorisce il delirio narcisistico ed espone a bruttissime figure.