Mia nonna mi diceva sempre: “Male non fa”. Un messaggio di pace male non fa di certo. 
Il messaggio di pace prima della finale sì (male non fa). Ma Zelensky no. Lo sappiamo, la Russia è l’invasore, il popolo ucraino la vittima e sfruttare un evento globale, come la finale dei campionati del mondo, per un messaggio di pace è, in linea di principio, cosa buona e giusta.
Ma dare le telecamere a Zelensky, che a una telecamera non dice mai di no, sarebbe sbagliato; non sarebbe utilizzare l’immensa portata comunicativa del calcio per uno scopo nobile, bensì piegarlo alle ragioni, ancorché condivisibili, di una parte anziché di un’altra. 

Il calcio non può fare politica, non può schierarsi. Lo stesso Macron, prima dell’inizio della Coppa del Mondo, sottolineava come non si dovesse politicizzare lo sport (in realtà, molti han dato un significato politico al suo silenzio sul Qatar).
In Qatar, appunto.
In Qatar ci sono andati tutti, sebbene vi sia una concezione dei diritti umani abbastanza discutibile. 
Pertanto, un messaggio di pace, con o senza leader ucraino, suonerebbe quantomeno ipocrita. Del resto, anche Videla, in occasione dei mondiali argentini del ‘78, dichiarò urbi et orbi: «Chiedo a Dio, nostro Signore, che questo evento sia davvero un contributo per affermare la pace, quella pace che tutti desideriamo per il mondo intero e per tutti gli uomini del mondo». Videla! tenente generale, eccellentissimo presidente della nazione, Videla! 

Ma torniamo al Qatar. 
Perché, ditemi: la fascia arcobaleno (a sostegno dei diritti LGBTQ+ largamente violati dal governo qatariota, come illustrato da un report di Human Rights Watch), cos’era? Fascia che a Neuer è stato impedito d’indossare.
Stessa sorte capitata a una banalissima maglia d’allenamento con sopra scritto “Diritti umani per tutti”, che ai giocatori della Danimarca è stato impedito d’indossare. Quella fascia e quelle maglie, erano forse un messaggio meno importante? Perché la guerra in Ucraina sarebbe sbagliata e la guerra alle libertà no? Da un lato si sanzionano i sovietici, escludendoli dal mondiale, dall’altro lato si celebrano i mondiali sotto il regime di Doha.  
È la tela di Penelope. È ipocrisia. È lo show business, bellezza! 

Ma la FIFA, per fortuna, non sono i singoli calciatori e nulla essa può contro le sensibilità, le idee, i principi degli uomini che stanno dentro quei completini; e che al silenzio scelgono la politica, quella “bella” però. 
Per fortuna, la fascia arcobaleno l’abbiamo comunque vista tutti; anzi, l’averla vietata ne ha semmai aumentato la portata di dissenso, con buona pace di Lloris e dei compiacenti transalpini.
Per fortuna, gli Stati Uniti hanno deciso di utilizzare in Qatar il proprio logo arcobaleno e, durante un allenamento pre-Mondiale, hanno giocato contro una squadra di lavoratori migranti, per protestare verso la kafala, sostanzialmente un moderno sistema di schiavitù in cui versano i lavoratori stranieri.
Per fortuna, i calciatori tedeschi, nel match contro il Giappone, hanno posato per la foto di rito con le mani sulla bocca, a simboleggiare l’atteggiamento silenziatore della governo mondiale del pallone. 
Per fortuna, i calciatori inglesi (e non solo) s’inginocchiano per dire no al razzismo, piaccia o no a Infantino piuttosto che a qualche entità vestita di thawb bianco. 
Insomma, evviva le azioni, e le reazioni, spontanee; abbasso l’ipocrisia di talune manifestazioni politically correct - style. Tipo l’eventuale messaggio di pace, va … che, però, male non fa. 

E per fortuna, il calcio e lo sport sono spesso stati palcoscenici di azioni, e reazioni, spontanee. Di messaggi forti. Di ribellione. 
È ribellione di questi tempi quella, coraggiosissima, degli iraniani, che proprio al mondiale qatarino si sono rifiutati d’intonare l’inno, salvo poi biascicarlo appena, perché da quelle parti si rischia la vita; la vita strappata a Masha Amini, 22 anni, uccisa perché non portava correttamente il velo.
Fu tentativo di ribellione quella del COBRA, il Comité pour l’Organisation par le Boycott de l’Argentine de la Coupe du Monde, che cercò di bloccare il Mondiale del ‘78 nell’Argentina di Videla (di cui sopra). “Chi non sa è un imbecille, ma chi sa e non dice niente è un criminale”: era la citazione di Bertold Brecht su dei manifesti utilizzati dagli attivisti dissidenti. Pare ci fossero diversi calciatori di diverse nazioni a sostegno del comitato, ma poi l’allenatore della Svezia, Åby Ericson, disse che l’Argentina gli sembrava un paese a posto, il calciatore olandese Wim van Hanegem, dichiarò che se qualche attivista l’avesse contattato per parlare di politica avrebbe passato la telefonata al suo cane e la protesta fallì. Il mondiale si giocò, ai desaparecidos pensò Dio; ma quel mondiale e le proteste servirono ad accendere un ulteriore, enorme faro sul dramma sudamericano. 
Fu ribellione quanto avvenne nell’agosto del 1936, quando per la prima volta nella storia un atleta nero occupò la ribalta internazionale, vincendo 4 medaglie d’oro nell’atletica alle Olimpiadi di Berlino, sotto gli occhi di Hitler. Le imprese sportive di Jesse Owens furono uno schiaffo per il regime nazista, impegnato nella propaganda della superiorità della razza ariana. Stranamente, in America Owens non ricevette gli onori meritati, evidentemente le ragioni della politica si piegarono alla cautela o forse l’atleta pagava il fatto d’esser nero.
Ad ogni modo, un po’ come sta succedendo in Qatar: politica e cancellerie abbozzano; taluni atleti, a loro modo e con l’enorme portata dei loro messaggi, dicono no. Messaggi che arrivano al cuore di tutti, permeano le coscienze, cambiano, quelli sì, il mondo e la storia. 

Al fuhrer disse no Matthias Sindelar, il miglior calciatore austriaco della storia. L’ultima partita disputata in nazionale da Sindelar, seppure non riconosciuta come partita ufficiale tra le due nazionali, è stata la famosa "Partita della riunificazione", organizzata allo stadio Prater di Vienna il 3 aprile del 1938, tra Ostmark (o Austria) e Germania; un incontro che doveva sancire l’unione, anche calcistica, tra i due Paesi in seguito all’Anschluss del mese precedente, con il passaggio dei giocatori austriaci nelle file della nazionale del Terzo Reich. I vertici della Gestapo consentirono alla nazionale austriaca di scendere in campo per un’ultima volta con la maglia rossa e i calzoncini bianchi, imponendo però che la selezione perdesse la partita. Ma l’Austria vinse e Sindelar e Sesta, autori dei gol, rifiutarono di fare il saluto nazista alle autorità (Sindelar rifiuterà anche di far parte della nazionale del Reich). 
La mattina del 23 gennaio del 1939 Sindelar venne trovato morto nel suo appartamento insieme a una ragazza italiana, l’insegnante milanese di religione ebraica, Camilla Castagnola. L’autopsia attribuirà la morte di entrambi all’avvelenamento da monossido di carbonio, tuttavia sulla causa di morte permarranno molti dubbi.

E allora... 
Siamo sicuri che lo sport non faccia politica? O la fa, ma quella con la P maiuscola, la politica che Tornatore definì “bella”. La politica delle idee, dei diritti, dei principi.  
Ben venga un messaggio di pace: male non fa, diceva mia nonna.
Ma se gestito dalla FIFA e soggiacente a tutte le logiche del caso, è uno degli innumerevoli e vuoti e sempre uguali messagggi della politica di Penelope. Quella in giacca e cravatta, che sloganeggia davanti a una telecamera o sugli scranni damascati, quella della diplomazia, dei filtri, dei pesi e delle misure, dei rapporti internazionali, degli schieramenti. Quella (demagogia a parte) che accumula denaro qatarino in sacchi di plastica. E sì, quell’eventuale messaggio di pace prima del fischio d’inizio della partita tra Francia e Argentina male non farebbe (ragione hai, nonna!), ma non saprebbe di autenticità e sarebbe perciò totalmente svilito nella sua capacità persuasiva (semmai fosse veramente questo l’intendimento), col risultato che dopo tre giorni, forse quattro, nessuno più se ne ricorderebbe. 
Meglio, molto meglio Gianmarco Tamberi, che a Belgrado salì in pedana con una piccola bandiera dell'Ucraina sul braccio e due nomi: Bodhan Bondarenko e Andriy Protsenko, due saltatori ucraini che non sono riusciti ad arrivare ai Mondiali di Belgrado. Quello sì che è stato un messaggio di pace. Genuino, spontaneo. 
Come genuino e spontaneo, e perciò efficacissimo (tant’è che ce ne ricordiamo ancora), è stato il famoso pugno chiuso di Tommie Smith e John Carlos alle Olimpiadi di Città del Messico del 1968. I due velocisti statunitensi, vincitori rispettivamente della medaglia d’oro e di bronzo nei 200 metri, durante l’esecuzione dell’inno nazionale abbassarono la testa e alzarono al cielo un pugno chiuso con guanto nero, appunto in segno di protesta e di vicinanza al movimento dei diritti civili degli afroamericani.
Genuina e spontanea fu Elisa Di Francisca: nel 2016, durante le Olimpiadi di Rio, la schermitrice italiana, vincitrice della medaglia d’argento nel fioretto, festeggiò sul podio esponendo la bandiera europea (e non, come da protocollo, quella nazionale): “Con questa bandiera voglio mandare il messaggio che l’Europa è unita e lotta contro il terrorismo”.

Questi sono i messaggi di cui il mondo ha bisogno e che forse solo lo sport, anzi gli sportivi, riescono a veicolare. 
L’establishment del calcio mondiale vuole davvero lanciare un messaggio di pace e solidarietà al martoriato popolo ucraino?
Vuole davvero contribuire a cambiare il corso della storia? Assegni i mondiali del 2030 all’Ucraina e, assieme ai Paesi che oggi armano Zelensky, ricostruisca. Perché la guerra prima o poi cesserà, ma rimarranno le macerie. 
E sono macerie d’ogni tipo. 
Utopia, lo so.
Ma sognare male non fa… vero, nonna?