Il calcio è, ormai da moltissimo anni, uno degli sport, se non lo sport più amato, almeno per quello che riguarda il contesto europeo. Ognuno di noi ha almeno un idolo, anche che magari non giochi nella squadra per cui fa il tifo, ne ha acquistato la maglia, e la custodisce gelosamente, come fosse un cimelio dal valore indicibile. Troppi calciatori però, anche se di livello assoluto, vengono spesso poco considerati, meno magari rispetto a compagni più appariscenti, pur fornendo alla propria squadra un apporto fondamentale.

Proviamo a ripercorrere alcuni dei calciatori più sottovalutati dell’epoca moderna, alcuni ancora in attività, altri che da poco hanno deciso di appendere gli scarpini al chiodo.

Josè Callejon
“Cross di Insigne sul secondo, sbuca Callejon, gol del Napoli!”. Non mi sto riferendo ad una partita in particolare, ma ad uno schema reiterato fino allo sfinimento a partire dall’approdo al Napoli di Maurizio Sarri. Fu il tecnico toscano ad intuire la bontà di questo schema, che sfruttava la tecnica e la visione di gioco di Lorenzo Insigne sulla sinistra, unendovi il senso della posizione e la capacità di tagliare alle spalle della difesa di Josè Maria Callejon: un mix letale, che a Napoli abbiamo continuare a vedere anche dopo l’addio di Sarri, perché ormai scolpito nella mente dei due calciatori. Ma Callejon non è solo il taglio sul secondo palo, è molto altro: a partire dal suo approdo al San Paolo, nel 2013, dopo due stagioni da comprimario al Real Madrid, si dimostra subito un calciatore fondamentale per tutti i suoi allenatori. Nei suoi sette anni all’ombra del Vesuvio gioca 349 partite, non venendo lasciato fuori quasi mai. I motivi sono tanti, a partire dalla sua estrema intelligenza tattica, che gli permette di compiere quasi sempre la scelta giusta in fase offensiva, al suo enorme spirito di sacrificio, che lo porta ad essere, fra i calciatori offensivi, quello che maggiormente ripiega per aiutare la squadra, finendo con la sua grande abilità nel servire assist ai compagni. Troppo spesso in ombra, probabilmente perché non ha mostrato l’estro di gente come Gonzalo Higuain, Dries Mertens o Lorenzo Insigne, siamo sicuri che a Napoli sentiranno la sua mancanza. Fra l’altro ha giocato gli ultimi due mesi in azzurro gratis, essendo scaduto il suo contratto, pur di terminare la stagione con la squadra che ha amato per anni: uomo prima che calciatore. Da quest’anno avremo l’opportunità di apprezzarlo ancora in Serie A, con la casacca della Fiorentina.

Andrea Barzagli
Qui per me entrano in gioco i sentimenti, perché per un tifoso juventino, che ha cominciato a seguire concretamente la sua squadra durante il primo anno di Conte, Andrea Barzagli diventa un simbolo, una guida, un calciatore che non ha potuto fare altro che diventare, appunto, un idolo. Campione del mondo nel 2006 con la nazionale italiana, fino al 2011 la sua carriera è quella di un modesto difensore, senza nulla di particolare da poter dare a questo sport. L’approdo a Torino è la svolta: l’incontro con Bonucci e Chiellini formerà uno dei comparti difensivi più solidi ed importanti nella storia del calcio, italiano ed europeo. Leonardo Bonucci è il libero, il difensore maggiormente dotato sotto il punto di vista tecnico, che spesso si distingue per le sue doti in fase d’impostazione, oltre che per il vizio del gol. Giorgio Chiellini è invece lo stopper, abilissimo in marcatura, perentorio, talvolta irruento, ma infallibile nel fermare il diretto avversario. E poi c’è lui, Andrea Barzagli è sempre stato, a mio avviso, e per quanto io possa apprezzare gli altri due, il migliore della “BBC”, elegantissimo, gran marcatore e quasi insuperabile nell’1vs1, pochissimi falli commessi, un’intelligenza tattica ed un senso della posizione degni dei migliori interpreti del ruolo; all’occorrenza capace anche di giocare terzino. Semplicemente Andrea Barzagli, un fuoriclasse, troppe volte passato in secondo piano.

Thomas Muller
Lo odiamo, diciamoci la verità: Thomas Muller è tedesco, ma è il tedesco, caratterizzato dalla classica spavalderia ed austerità che contraddistingue i teutonici, è stato per anni nemico dichiarato della nostra nazionale, sempre sul pezzo nello sminuire i rivali, soprattutto dopo bocconi amari come l’eliminazione subita ad Euro 2012, e nel rappresentare quel senso di superiorità proprio della sua nazionale. Ma è impossibile non definire quest’uomo uno dei migliori della storia del calcio: trequartista, seconda punta, centravanti, esterno, qualunque ruolo abbia rivestito Muller ha fatto la differenza, sempre con due maglie, sempre con due numeri: il 25 sul rosso bavarese, il 13 sul bianco teutonico della nazionale. Campione del mondo nel 2014, fondamentale per il trionfo, così come per le due triplette conseguite con la maglia del suo Bayern Monaco, nel 2013, e l’ultima recente, dove solo in Bundesliga ha siglato il record assoluto di assist: 20. Tuttavia non è mai figurato nelle prime posizioni delle classifiche del pallone d’oro, è sempre rimasto nell’ombra, ma sarebbe il caso di rendergli il merito dell’enorme calciatore che è stato e continua ad essere, a prescindere dalla simpatia che si possa provare nei suoi confronti .

Jordan Henderson
L’erede di Steven Gerrard, una fascia da un peso indefinibile, ma Jordan Henderson, dal 2015-16, si è preso questo fardello, e con esso la pioggia di critiche arrivatagli anche da numerosi addetti ai lavori. Eppure Jordan è sempre lì, anche con l’arrivo di Jurgen Klopp il suo posto davanti alla difesa è rimasto fisso. Caposaldo dello spogliatoio, capace di assumersi la responsabilità per le sconfitte, prima che il merito per le vittorie, davanti alle telecamere. Le maggiori perplessità sorgono sulla sua tenuta tecnica, che non sarebbe all’altezza del livello raggiunto negli ultimi anni dai “Reds”, in quanto Jordan si limiterebbe a fare il compitino, senza mai osare una giocata di maggior valore: ma una squadra non può essere composta soltanto da fuoriclasse, servono anche questo tipo di calciatori, magari inferiori sul piano della qualità, ma capaci di compensare con la mentalità e l’intelligenza. Forse non sarà il nuovo Steven Gerrard, ma ha dimostrato di saper rivestire questo ruolo, e non è facile, in un ambiente dove il calcio è religione, in uno stadio che sembra quasi un mondo che trascende la realtà, diventare il capro espiatorio, sostituendosi a quello che, per quasi 20 anni, è stata la divinità principale nel santuario di Anfield.

Dries Mertens
Torniamo a Napoli, e andiamo a scoprire uno dei calciatori in assoluto più sottovalutati del decennio appena trascorso. Dries Mertens lo conosciamo tutti, e anche parecchio bene: ormai da sette anni un protagonista assoluto del nostro campionato, un simbolo partenopeo (tanto da essere soprannominato affettuosamente “Ciro”), miglior marcatore della storia degli azzurri con 127 reti, davanti alla divinità più importante della città, San Gennaro…no, scusate, volevo dire Diego Armando Maradona. Tuttavia, io non penso che “Ciro” sia sottovalutato nel senso che goda di poca credibilità, piuttosto nel senso che non abbia, soprattutto a livello internazionale, la considerazione di altri fuoriclasse del ruolo. Ruolo, che, con il tempo è diventato sempre più quello di centravanti, seppur atipico, rispetto al ruolo di esterno offensivo. Anche Dries, come e maggiormente di Callejon, deve molto del suo successo a Maurizio Sarri che, nella stagione 2016-17, quella del “dopo Higuain”, per sopperire all’infortunio del nuovo arrivato Arek Milik, decise di adattare Mertens come “falso nueve”, come ormai si ama definire questa posizione quando non rivestita da un centravanti puro, assolvendolo dal ruolo di “vice Insigne” che aveva rivestito fino ad allora. Quella stagione fu devastante, con 28 reti in 35 presenze in Serie A. Ma Mertens non è solo quello straordinario exploit, Dries è molto di più, un calciatore capace di giocare esterno, trequartista, prima punta, mantenendo sempre una eccezionale costanza di rendimento, con colpi e giocate senza nulla da invidiare ai migliori fuoriclasse del calcio moderno.