Negli studi di Sky Sport, a margine del sorteggio del tabellone degi quarti di Champions League, Paolo Condò aveva speso alcune didascaliche definizioni per etichettare Erling Braut Haaland, attaccante di un Borussia Dortmund che aveva da poco eliminato il Siviglia negli ottavi di finale grazie alle sue 4 reti in due partite, e si preparava a incrociare quella macchina perfetta chiamata Manchester City nel turno successivo. A condimento delle ormai diffuse predizioni di un imminente Pallone d’Oro, il giornalista triestino ha paragonato Haaland a “un personaggio di Fortnite”. L’etichetta è presa a prestito da un articolo di Daniele Manusia, fondatore de L’Ultimo Uomo, e sottende la volontà, quasi il bisogno, di spiegare con parametri superomistici la novità del mai visto, di raffigurare plasticamente la debordanza, lo strapotere fisico e l’efficacia realizzativa del norvegese (associato nel testo del pezzo al compagno d’attacco Jadon Sancho), insomma di dar voce all’ineffabile. Una definizione-lampo, immaginifica, immediata perché visualmente metaforica. Ma Condò ha poi aggiunto una seconda definizione, senza approfondirla nemmeno in questa occasione (ah, i tempi televisivi …) quella di “giocatore postmoderno”. Ebbene, questa seconda etichetta è tutt’altro che limpida, immediata, è anzi decisamente intellettualistica, e in quanto tale merita un superiore grado di approfondimento.

La postmodernità è uno di quei concetti che, per quanto decisivi (o forse proprio perché tali), la cultura, intesa nelle sue declinazioni filosofiche, antropologiche, storiche, letterarie, fatica maggiormente a definire. C’è stato anzitutto chi la ha intesa in una chiave storica o storicizzata: dopo l’Antichità, il Medio Evo, il Rinascimento, l’età moderna e quella contemporanea, da una sessantina d’anni a questa parte staremmo sperimentando la temperie, anzi l’età postmoderna. Al polo opposto, chi si azzarda a osservare nel concetto una dimensione trans-storica: postmodernismo come stato di crisi dei saperi successivo alla fine del pensiero moderno.

Più utili alla causa paiono essere tuttavia alcune formulazioni illustri e autorevoli, quali quelle di Zygmunt Bauman e di Jean-Francois Lyotard. Al primo si deve il conio della celeberrima espressione “modernità liquida”, in riferimento a una stagione in cui “l’unica certezza sembra essere l’incertezza”, in cui dominano dinamismo e multiformità. Ebbene, Haaland sembra un ottimo interprete del concetto di “liquidità”: sfuggente con la sua corsa inarrestabile, costante nei miglioramenti, rapido a evolversi e modificare la percezione che gli altri hanno di lui (vedi il giudizio inizialmente scettico di Fabio Capello, che ne criticò la rigidità motoria, il portamento dinoccolato e la scarsa tecnica) almeno quanto lo è nello sverniciare l’avversario diretto. Ma è soprattutto l’intuizione di Lyotard a calzare a pennello. Egli sostiene che la postmodernità sia la stagione che ha segnato la fine dei grand récits, delle “grandi narrazioni”, in primis quelle che hanno dato forma al contrasto ideologico tra capitalismo e socio-comunismo. Poiché le grandi ideologie sono morte, o comunque risultano ora inattuali, inefficaci nel tentativo di spiegare il mondo, questo stesso mondo, secondo Lyotard, non rivela più se stesso, si chiude, si opacizza, sfuggendo a ogni spiegazione universale, univoca e totalizzante; spiegazioni che un tempo erano come occhiali che, una volta indossati, consentivano di vedere il globo in una veste nuova, e soprattutto coerente nelle sue parti. Ora, visto a occhio nudo, il mondo non è per nulla coerente, anzi tutto è contraddizione. Anche Haaland sfugge a interpretazioni univoche, è irrimediabilmente contraddittorio. Come fa un essere umano alto 1 metro e 94 e pesante 88 kilogrammi a essere così agile e a possedere una tale tecnica di base con la palla fra i piedi? Come può un calciatore a mettere a segno una tripletta nei primi 45 minuti del suo esordio in Champions League? Come fa a risultare “forte come un orso” e contemporaneamente “veloce come un cavallo” (definizione di Øyvind Godø)? Insomma, di fronte a Haaland qualsiasi potenziale spiegazione circa le sue doti si infrange sulle barriere del jamais-vu, le categorie valide fino all’altro giorno sono da cestinare, una definizione omnicomprensiva, totalizzante, definitiva è insoddisfacente. Inoltre, se diamo credito a R. Rorty, secondo cui è il pragmatismo la cifra filosofica più rappresentativa del postmoderno, allora Haaland del postmoderno è l’epitome: dalla corsa bruciante all’essenzialità dello stile, dalla dieta ferrea e bizzarra ai bagni cryoterapici, tutto in lui converge verso un unico fine, il gol (anzi: lo sfondamento della rete); l’astinenza provoca in lui un dolore fisico. Si può immaginare che, di converso, il soddisfacimento di questo “bisogno” quasi corporeo gli regali una qualche perversa forma di godimento. Valgano come prove definitive a sostegno della tesi di un’attrazione simil-sessuale tra Haaland e questo sport il celebre post su Instagram in cui definì la palla “la mia fidanzata”; o ancora il racconto di suo padre in merito ad un concepimento avvenuto sulle panche di uno spogliatoio.

Ma Haaland è postmoderno, o se vogliamo inconfondibilmente attuale, anche per una ragione ulteriore. Come ha felicemente intuito Jvan Sica, spiegandolo su 4-3-3, Haaland fa parte della ristretta cerchia di atleti (Zion Williamson nel basket, Mathieu Van der Poel nel ciclismo, Johannes Klaebo nello sci di fondo) accomunati da una straripante e versatile fisicità che li rende adatti, in potenza, a qualsiasi disciplina (Haaland detiene tutt’oggi il record di distanza coperta nel salto in lungo da fermo, categoria 5 anni), e da un’altra caratteristica, solo in parte spiegabile come effetto, conseguenza della precedente: l’avere negli highlights, la cui fruizione presso la generazione Z ha ormai quasi del tutto soppiantato la visione degli eventi nella loro interezza (a testimonianza del ruolo della frammentarietà come tratto egemone della cultura del nostro secolo), e nel video in generale, il proprio habitat naturale.

Haaland insomma spacca lo schermo, qualunque esso sia. Ma non lo fa solo quando gioca a calcio. Virali sul web sono da tempo le sue interviste post-match, nelle quali offre risposte immancabilmente monosillabiche e/o tautologiche (quasi non avesse, a sua volta, risposte definitive e convincenti su se stesso) a un interlocutore la cui reazione si colloca a metà strada fra il seccato e l’imbarazzato; e cosa c’è di più postmoderno della surrealtà? Insomma, Haaland sembra voler sfuggire a ogni tentativo di definizione, vive per il gol e questo ne fa l’elogio del pragmatismo, le sue risposte sfiorano il limite del surreale. Ma come interpretarlo? Come un fenomeno passeggero, un monstrum destinato a rimanere un caso isolato, eccezionale, e per questo ancor più straordinario? O come un messianico archetipo del calciatore del futuro? Di certo, se ha ragione Thomas Kuhn, se cioè quanto più si è giovani, tanto più si può essere rivoluzionari, il vichingo nato a Leeds il 21 luglio del 2000 ha solo iniziato a scompaginare i nostri abituali schemi di percezione e interpretazione del football.