Coincidenze, casualità, circostanze fortuite. Per qualcuno sono cardini tutt’altro che accidentali della propria filosofia di vita, per altri non si tratta niente più che di banalità, altri ancora invece preferiscono stare fuori da queste discussioni e si limitano ad osservare il prodotto degli intrecci del fato con un sorriso. Nel nostro caso, quello di appassionati della palla a spicchi rattristati per il ritiro di due giocatori che hanno segnato un’epoca (e forse anche qualcosa di più), al sorriso si possono tranquillamente sostituire lacrime e riconoscenza.

Lungi dal fare pubblicità come anche dal voler commemorare la scomparsa di una compagnia aerea, il destino però ha voluto che le carriere delle leggende in questione terminassero lo stesso giorno e che la loro ultima gara casalinga, quella in cui salutare definitivamente i tifosi che per tanti anni li hanno celebrati, si svolgesse nella stessa data, sotto il tetto di un palazzo dello sport recante il nome dello stesso sponsor, American Airlines appunto.

Che poi la dicitura indichi “Center” o “Arena” poco cambia: nella sostanza il penultimo giorno di stagione regolare 2018/19, in quella che per le franchigie di entrambi era l’ottantunesima gara delle ottantadue previste dal calendario, Dwyane Wade e Dirk Nowitzki hanno giocato e speso gli ultimi minuti sui rispettivi parquet di casa targati American Airlines, quello dei Miami Heat in Florida e quello dei Dallas Mavericks in Texas.

Se il nativo di Chicago aveva già annunciato da tempo che questa sarebbe stata la sua ultima stagione sui palcoscenici NBA, il tedesco da Wurzburg nei mesi precedenti si era mostrato più titubante riguardo a questa ipotesi e aveva lasciato un piccolo spiraglio aperto al proseguimento dell’attività agonistica anche nel 2020. Nell’ultimo mese però “WunderDirk” si è definitivamente chiarito le idee e così il fato lo ha portato ad annunciare la decisione davanti agli sgomenti spettatori locali in occasione dell’ultima gara contro i Phoenix Suns, nella stessa serata in cui già da tempo erano state annunciate le celebrazioni per l’addio al basket giocato di Wade, suo rivale in numerose battaglie.

Su tutti e due i campi non sono mancati video celebrativi (particolarmente sentiti per Wade quello realizzato con tutte le figure chiave della sua vita e quello coi saluti inviatigli dall’ex presidente Barack Obama), l’affetto della gente (al suo arrivo a palazzo Nowitzki è stato salutato da tutti i lavoratori in forze all’arena), occhi umidi e celebrità accorse per rendere omaggio ai due campioni (il numero 41 dei Mavs ha ricevuto il tributo di altri giocatori simbolo come Larry Bird, Scottie Pippen, Shawn Kemp e Charles Barkley), oltre ovviamente ai discorsi (piuttosto sentiti) fatti col microfono in mano dai due protagonisti.

In questo modo i due match sono quasi passati in secondo piano nonostante, specialmente in casa Heat, le motivazioni agonistiche non mancassero affatto: ancora in corsa per un posto ai playoff, la squadra di Spoelstra è riuscita nella missione di non macchiare il saluto al proprio numero 3 conquistando una vittoria (la numero 39) che purtroppo, a causa del contemporaneo successo in rimonta dei Pistons sui Grizzlies, si è alla fine rivelata inutile in quanto non ha consentito agli amaranto di accedere alla tanto agognata postseason, ovvero quella che sarebbe stata la più degna conclusione non solo per il percorso fatto da “Flash” ma pure per quello compiuto dallo stesso Dirk.

Anche quest’ultimo ha salutato i propri tifosi con una vittoria, battendo i derelitti Suns in un incontro dove tuttavia (come sottolineato scherzosamente dallo stesso numero 41) a rubargli il palcoscenico è stato Jamal Crawford, autore di 51 punti che ne hanno fatto il giocatore più vecchio di sempre a segnarne così tanti e il primo nella storia a realizzarne una simile quantità con quattro team differenti. Nowitzki dal canto suo ha chiuso con 30 punti messi a referto, lo stesso score fatto registrare proprio da Wade contro una Philadelphia rimaneggiata.

Pur non qualificandosi per i playoff quindi, si può dire che i due non abbiano sfigurato davanti al pubblico amico ma che anzi, nella loro ultima uscita casalinga, abbiano chiuso in bellezza dando sfoggio per l’ennesima volta del talento e della tecnica che ne hanno contraddistinto la carriera professionistica fin dagli esordi e grazie a cui sono riusciti ad arrivare al top nella lega, cioè al titolo NBA.

Dirk è partito da Wurzburg (Germania) praticando addirittura calcio e tennis prima di darsi alla pallacanestro dove, contemporaneamente a una stupefacente crescita fisica, ha bruciato le tappe mettendo a segno numeri incredibili con la squadra della sua città (portata dalla B alla massima serie) e facendo girare la testa a molti al Nike Hoop Summit del 1998 che poi gli ha spalancato le porte del draft NBA; Dwyane invece è passato attraverso la vita non facile e piuttosto cruenta della periferia di Chicago, ha alternato football e basket all’high school ed è infine sbocciato a Marquette, università da cui poi al terzo anno (il primo non lo vide protagonista a causa dei voti bassi che lo tennero fermo) ha preso la via della lottery.

Entrati a 20 e 21 anni rispettivamente in NBA grazie alla voglia dei Dallas Mavericks (che chiamarono il teutonico attraverso la scelta dei Milwaukee Bucks) e dei Miami Heat di puntare su di loro, con quelle maglie piano ma costantemente i due sono diventati sempre più i perni delle loro squadre, migliorando le proprie cifre e raggiungendo il culmine del proprio sviluppo a cavallo dei trent’anni, età in cui entrambi sono arrivati a centrare anelli e Finals.

Se si eccettua infatti la prima fulminante (e vincente) partecipazione alle finali di D-Wade a 24 anni nel 2006, ambedue sono stati protagonisti della serie conclusiva fra i 28 e i 32 anni, a partire proprio dal primo titolo conseguito dal fratello di Demetris che quella stagione inflisse un’amarissima sconfitta a un ventottenne Nowitzki e ai suoi Mavs. Questi poi si sarebbero presi la rivincita nel 2011 (anno dell’unico titolo del figlio di Helen e Joerg) non lasciando scampo in cinque gare a una Miami che poi, nelle tre stagioni successive, sarebbe tornata alle Finals vincendo due Larry O’Brien Trophy e perdendone uno (contro San Antonio nel 2014) grazie al fondamentale apporto di Lebron James e Chris Bosh affianco a un Wade già trentenne.

Complessivamente i due quindi hanno dominato i primi anni del secondo decennio del XXI secolo, periodo dopo il quale, rimescolati i roster, entrambi hanno più lottato per guadagnare la postseason in cui erano stati protagonisti che per arrivare fino in fondo, riuscendo in questa missione con risultati alterni (dopo il 2013-14 sia Miami che Dallas hanno fatto i playoff altre due sole volte). In questa maniera, superando ben più di qualche semplice acciacco fisico, sono arrivati fino a questa stagione vestendo praticamente sempre (Wade è tornato a casa, a Chicago, nel 2016-17 e ha fatto compagnia a Lebron in quel di Cleveland all’inizio della stagione 2017-18) la maglia della stessa franchigia con cui hanno iniziato il loro viaggio NBA, quella (alla stregua della città in cui hanno giocato) di cui sono diventati dei simboli e quella che si sono scambiati lo scorso giorno di San Valentino quando gli Heat hanno fatto visita all’American Airlines Center.

In quell’occasione Dwyane ha speso parole al miele e piuttosto importanti circa il suo rapporto col veterano dei texani (uno con cui in passato, considerate posta in palio e competitività dei soggetti, c’è stata anche qualche frizione in campo) affermando che “ciascuno ha spinto la carriera dell’altro ed […] è stato una parte importante per la storia di entrambi”.

Asserzioni vere come è vero che entrambi hanno occupato una parte fondamentale nella storia del gioco. Una delle più recenti (ma solo parziale) testimonianze di ciò è stata la convocazione ad honoris causa all’ultimo All-Star Game di Charlotte dove, seguendo il nuovo format, Wade e Nowitzki sono stati scelti ciascuno dai capitani delle due formazioni e hanno contribuito a modo loro al 178-164 finale. Sebbene non gli sia stato riservato un grande spazio, la loro presenza allo Spectrum Center rappresentava il riconoscimento da parte della lega e di tutto l’ambiente NBA alla loro straordinaria carriera e certificava ancor di più il consolidato status di leggenda, o meglio di hall of famer, conseguito da entrambi.

I (tantissimi) numeri infatti parlano chiaro per entrambi: un titolo (con MVP delle finali), 14 partecipazioni alla gara delle stelle, un premio di MVP del campionato, quattro nomination nel primo quintetto NBA, un bronzo mondiale e un argento europeo con la Germania, sesto marcatore di sempre nella NBA, uno dei soli tre giocatori ad aver messo insieme più di 30000 punti, 10000 rimbalzi, 3000 assist, 1000 recuperi e 1000 stoppate, un titolo nella gara del tiro da tre punti per il tedesco; tre titoli, un premio di MVP delle finali (2006), otto nomination nel primo quintetto NBA, un oro e un bronzo olimpico, un bronzo mondiale, unico di sempre in NBA ad accumulare 2000 punti, 500 assist, 100 recuperi e 100 stoppate in una singola stagione, 13 partecipazioni all’All Star Game e un titolo di miglior marcatore (2009) per lo statunitense.

Oltre e più di questo tuttavia c’è quello che i due hanno lasciato presso le franchigie che li hanno consacrati, il loro lascito o, come piace molto agli americani, la loro legacy. Da un punto di vista prettamente cestistico, ambedue hanno riscritto più di qualche pagina e qualche record con le rispettive formazioni: se Dirk è primo nella storia dei Mavs per gare giocate, punti, canestri, rimbalzi (offensivi e difensivi), stoppate, tiri liberi segnati e tiri da tre segnati, Wade non va molto lontano dal lungo di Dallas visto che guida la franchigia in match disputati, punti, recuperi, canestri, tiri liberi segnati e tiri da due punti realizzati. Considerando invece il lato più strettamente d’immagine ed ereditario, il vuoto che lasceranno i due giocatori in questione in Texas e in Florida sarà difficilmente colmabile sia nel corto che nel lungo periodo.

In un’epoca e soprattutto in un mondo come quello NBA, dominato dal business, dal senso degli affari e dove i giocatori sono di frequente scambiati come semplici pedine indipendentemente dalla loro volontà, Nowitzki (21 stagioni consecutive con la stessa maglia, primo di sempre a riuscirci) e Wade (14 stagione e mezzo a Miami) hanno rappresentato assolutamente degli unicos assimilabili molto al concetto di bandiera, di uomini-franchigia e volti (dentro e fuori dal campo) non solo della squadra ma, più in generale, della città di affiliazione del team. Sono stati esempi di lealtà, di affidabilità, di attaccamento ai valori e alla filosofia della squadra e concreta rappresentazione di essi. Sono stati modelli comportamentali e professionali da seguire non solo per figli, compagni e colleghi ma pure per gli stessi tifosi e appassionati, influenzati dalle loro imprese come dai loro atteggiamenti e dichiarazioni. Sono stati insomma un salvagente, un appiglio sicuro a cui aggrapparsi in qualunque momento, una figura onnipresente di riferimento e autorità la cui assenza, guardando al futuro delle due compagini, certamente si farà sentire. In questo senso, durante l’ultima stagione, Nowitzki a Dallas ha certamente istruito e passato il testimone a Luka Doncic, un ragazzo che, per tecnica, talento e personalità, può raccogliere decisamente la sua eredità ed ergersi negli anni avvenire a nuovo monumento della metropoli e della franchigia texana. Il tempo ci dirà se lo sloveno sarà stato in grado di sostenere il peso di quest’aspettativa ma nell’immediato sarà necessario farlo crescere ancora ed aiutarlo a costruirsi una reputazione e una credibilità forte, fattori che si guadagnano col tempo e (meglio ancora) coi successi. Per questo motivo a Dallas dovranno, sperando che il giovane prodigio mantenga le attese, attendere un po’ di tempo, molto meno tuttavia (ad ora) di quanto pare dovranno fare in quel di Miami. Qui infatti, l’assenza di un qualcuno che possa prendere subito o nell’immediato futuro la torcia dal numero 3 costringerà molto probabilmente i fan amaranto a guardare speranzosi alle prossime free agency (verosimilmente da quella del 2020-21 vista la situazione salariale degli Heat) per far sì che in città arrivi un nome in grado di riportare in auge la franchigia e colmare il vuoto lasciato dalla guardia di Chicago.

Il vuoto nei cuori degli appassionati invece, nostalgici e meno nostalgici, di chi è cresciuto con le loro gesta e si è innamorato di questo sport grazie alle loro vicende, rimarrà a lungo e difficilmente potrà essere colmato in tempi brevi. Per questo idealmente sugli spalti delle due American Airlines il 9 aprile erano molti di più dei 41194 spettatori paganti, tutti vogliosi di rendere omaggio e lustrarsi gli occhi per un’ultima volta con le azioni dal vivo compiute da queste due leggende che, più di ogni altra a Miami e Dallas, hanno reso forte, dato un’identità e messo definitivamente sulla mappa il basket giocato a quelle latitudini, segnando un’era e facendo sognare tifosi in ogni continente.