Ci sono dei momenti nella vita che si ricordano perfettamente. Al di là della notizia, l'istantanea scolpita nella propria mente è talmente presente che, come nel montaggio di una pellicola, ci riporta, frame dopo frame, al luogo, alle persone, e, di conseguenza, all'accaduto.
Quel pomeriggio ero con mio padre a Vallombrosa, una amena località a un'oretta da Firenze, a circa mille metri di altezza. È conosciuta in quanto i fiorentini ci vanno essenzialmente per due motivi: le persone anziane a "svernare", i più giovani a "frescheggiare", durante la calura estiva, nel famoso pratone per il pic-nic domenicale.
Aveva scelto quel luogo silenzioso per lavorare in santa pace. Si era rifugiato qualche giorno, vicino all'Abbazia, perché gli ricordava quando da ragazzo "me la facevo a piedi per la festa della Madonna" e per l'interesse che suscitava in lui la Sagrestia rinascimentale costruita per volere di Francesco Altoviti, nella quale si vedono alcune parti della chiesa romanica in cui sono esposte una tavola di Raffaellino del Garbo con San Giovanni Gualberto, ma soprattutto una grande pala di terracotta invetriata della bottega di Andrea della Robbia con la Madonna col Bambino.
In realtà quel giorno, proprio quel giorno, mi chiese di prendere ferie dal lavoro poiché stava "concependo" il suo secondo libro, il più intimista, per raccontare oltre cinquant'anni di attività politica.

"Staremo insieme; al babbo non puoi dire di no!" - ridacchiando. "Mi darai alcuni spunti, daremo un'occhiata alle bozze e, se farai il bravo (che bello quando me lo sottolineava...), potrai scrivere non la presentazione, bensì l'ultima pagina. La postfazione, la più importante". Sapeva come stuzzicarmi; ovviamente accettai. "A una condizione: che durante il pranzo ci sia un bicchiere di vino". Volevo vedere quanto era veramente interessato in considerazione che, non solo era astemio, ma a mala pena accettava una bottiglia di rosso in tavola. Del fiasco nemmeno a parlarne. "Parola di scout" - asserì strizzando l'occhio.
È incredibile ricordarlo dopo trent'anni. Proprio oggi.
Ancora più strano è pensare che dedicammo un giorno intero al ricordo dell'amico di partito Roberto Ruffilli. La pagina 136 che ho sottomano la riporto quasi integralmente poiché, proprio quel giorno, il 23 maggio 1992, stavamo scrivendo di un barbaro assassinio, non sapendo ancora che dopo poche ore una telefonata, giunta da Roma, avrebbe atterrito mio padre.

"Chi sperava che il terrorismo appartenesse ormai definitivamente al passato del nostro paese era stato bruscamente disilluso dall'assassinio del senatore democristiano Roberto Ruffilli. I colpi di pistola esplosi in un tranquillo pomeriggio di sabato nella quieta città di Forlì ci avevano richiamato a una tragica realtà. Gli "anni di piombo" non erano finiti. I telegiornali di quel sabato ci avevano ridisegnato un tragico rituale che tutti noi, amanti della civile convivenza, avremmo sinceramente voluto non conoscere mai più. E invece l'assassino di Ruffilli fu in questo senso emblematico: non si trattava di colpi di coda di un mostro colpito a morte né era l'azione di schegge impazzite. Questo ritorno dei seminatori di morte sotto il simbolo della stella a cinque punte seguiva un progetto tragicamente lucido nella sua aberrante follia. Certamente il nome di Ruffilli non era conosciuto da coloro che non vivevano con attenzione le fasi della vita politica italiana, non era insomma un nome di primissimo piano come quello di Moro. [...] Ma chi aveva inserito il mite senatore di Forlì nel mirino delle Brigate Rosse non aveva cercato solo, come sbrigativamente fatto apparire da qualcuno, un bersaglio facile. Ruffilli non era un uomo cresciuto dalla gavetta della militanza di partito, ma uno studioso "prestato" alla politica. Da qualche anno lavorava con slancio e passione ad approfondire i contorni di un intervento riformatore in campo istituzionale, in un settore che costituiva uno degli obiettivi qualificanti dello sforzo governativo della Democrazia Cristiana. [...] E allora occorreva non abbassare la guardia: l'emergenza terrorismo continuava a vedere lo Stato impegnato con tutte le sue forze per spezzarne la trama delittuosa. C'era sempre più sangue sulle nostre bandiere bianche, ma sotto quelle insegne il cammino doveva continuare sulla strada che chi è caduto indicava".

"Quando? Dimmi che non è vero, non può essere. È la fine". 
Abbassò la cornetta, impallidì. "Hanno assassinato il Giudice Falcone" - mi disse con le lacrime agli occhi. La sua stilografica a stantuffo cadde sull'immensa agenda colma di appunti.

Giovanni Falcone è (rigorosamente al presente) un magistrato italiano, di origine siciliana, nato a Palermo il 18 maggio 1939 e ucciso il 23 maggio 1992 da Cosa Nostra in quella che tutto il mondo conosce come la "Strage di Capaci". Durante quel tragico evento, persero la vita anche la moglie Francesca Morvillo e tre uomini della scorta: Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo. Fu una delle figure più influenti e importanti, insieme a Paolo Borsellino, nel combattere la mafia italiana.
Dopo la morte, le sue spoglie sono state riposte nel sepolcro monumentale presso il cimitero di Sant'Orsola, per poi essere trasferite, nel 2015, nella Chiesa di San Domenico sempre a Palermo. 

Nato da una famiglia benestante, visse nel quartiere della Kalsa comune a molti altri ragazzi, tra cui futuri mafiosi, come Tommaso Buscetta. Amante della cultura, a diciotto anni si diplomò con il massimo dei voti. Nel 1958 si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Palermo e si laureò, nel 1961, con 110 e lode. Dopo poco tempo entrò in Magistratura. Nel 1967 ci fu il suo primo importante processo, legato alla banda mafiosa del Boss Mariano Licari. La morte del padre segnò l'inizio di profondi cambiamenti nella sua vita: iniziò a avvicinarsi ai princìpi del comunismo e si candidò alle elezioni politiche italiane del 1976. Nel 1979 passò all'Ufficio Istruzione della parte penale e proprio lì venne affiancato da Paolo Borsellino.
L'esperienza del Pool Antimafia nasce, all'inizio, dalla cooperazione tra Falcone, Rocco Chinnici, Giuseppe Di Lello e Paolo Borsellino. 

Dal 1979 al 1982 sono falciati dalla lupara e dai kalashnikov il commissario Boris Giuliano; Cesare Terranova illustre magistrato; Michele Reina, segretario della Democrazia Cristiana siciliana, contraria alla corrente di Ciancimino; Pio La Torre, ideatore della famosa legge che consentirà a Falcone di applicare il 416 bis nel seno delle imputazioni processuali; Piersanti Mattarella, presidente democristiano della Regione siciliana, uomo del rinnovamento di Palermo; Rocco Chinnici, giudice istruttore che avrebbe voluto toccare i Salvo; Carlo Alberto Dalla Chiesa, il generale che aveva denunciato in una famosa intervista a Giorgio Bocca la debolezza dello Stato al cospetto della micidiale organizzazione mafiosa; Ninni Cassarà che con il capitano Pellegrini scrisse il rapporto di polizia che rappresentò l’architrave del processo a Cosa Nostra.

L'11 novembre 1987 dopo 349 udienze,1314 interrogatori, due lunghissime requisitorie dei pubblici ministeri Giuseppe Ayala e Domenico Signorino e 635 arringhe difensive di una folla di oltre duecento avvocati, quel processo, forse il più grande della storia, con 475 imputati, cominciato il 10 febbraio 1986, arriva alla conclusione.
La mafia siciliana è stata messa all’angolo, schiacciata da prove, documenti, testimonianze, confessioni di pentiti, a cominciare da quella di Tommaso Buscetta, don Masino, uomo di potere e di grande carisma. Verrà ricordato, inoltre, per le parole sorprendenti, inquietanti e minacciose di Michele Greco, detto "il papa". "Io vi auguro la pace signor Presidente, perché la pace è la serenità dello spirito e della coscienza". Indossava un vestito grigio di buon taglio, camicia bianca, cravatta blu, capelli ravviati con cura, l’aspetto signorile di chi aveva la consuetudine a gestire il potere e frequentare i potenti. Qualunque sia stato il motivo di quell’augurio di "pace" di certo la sceneggiata di don Michele non ebbe alcun effetto, perché la Corte di Assise, dopo 35 giorni di camera di consiglio, la più lunga che la storia giudiziaria italiana ricordi, entrò in aula alle 18 del pomeriggio del 16 dicembre, con il Presidente Giordano, per rendere una sentenza implacabile, durissima, esemplare.
Nonostante un lavoro impressionante effettuato per la prima volta con il celebre "metodo Falcone", prima di Capaci, però, il giudice morì per l’invidia dei colleghi di Palermo, per l’arretratezza culturale del Consiglio Superiore della Magistratura e di una classe politica che non volle capire il suo inestimabile valore. Non fu nominato per l’Alto Commissario Antimafia: gli fu preferito Domenico Sica.
"​Ho tollerato in silenzio in questi ultimi anni in cui mi sono occupato di istruttorie sulla criminalità mafiosa, le inevitabili accuse di protagonismo o di scorrettezze nel mio lavoro. Ritenendo di compiere un servizio utile alla società ero pago del dovere compiuto. [...] Ero inoltre sicuro che le istruttorie alle quali ho collaborato erano state condotte nel più assoluto rispetto della legalità. [...]. Ciò non mi ferisce particolarmente, a parte il disgusto per chi è capace di tanta bassezza morale ed allora dopo lunga riflessione mi sono reso conto che l’unica via praticabile è quella di cambiare ufficio dimettendomi".

Quando nacque Giovanni Falcone, racconta la sorella Maria, "entrò in casa una colomba bianca. Arrivò dalla finestra di uno stanzino e non volle mai più uscire. Non era ferita. È rimasta in quella camera e noi l’abbiamo nutrita: non è mai fuggita, anche se la finestra rimaneva aperta".
Ho voluto ricordare, in una veste diversa, chi era lo Stato. Non chi fosse stato. Lo Stato!
Ci sono nelle bancarelle, in pieno centro storico delle nostre città, le maglie con le frasi, cosiddette storiche, di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Che pena. Piuttosto che fare business bisognerebbe che venisse insegnato, fin dalle elementari, cosa è giusto e doveroso e cosa non lo è. Così facendo, le nostre fondamenta sarebbero sicuramente più solide e le nuove generazioni avrebbero spalle più forti per sopportare e supportare un paese troppo spesso formato da itagliani e italiette.

Voglio riportare un concetto meno conosciuto a cui teneva particolarmente il giudice palermitano. "Dove comanda la mafia i posti nelle istituzioni vengono tendenzialmente affidati a dei cretini".
Del resto, tutti coloro che sono incapaci di imparare si sono messi a insegnare. La violenza, in fondo, è l'ultimo rifugio di costoro.