Machiavelli docet
La vulgata vuole che Machiavelli, nel suo trattato Il Principe, abbia sostenuto la dizione per cui “Il fine giustifica i mezzi” che nella tradizione popolare viene letta in maniera alquanto rigida. Ogni strumento è utile se teso a raggiungere un obiettivo. Affermerei che, in un certo senso, concordo pienamente con questa massima, ma occorre operare dei distinguo. Anzi, è sufficiente una sola specifica. E’ necessario adottare una strategia legale per un target che abbia le medesime caratteristiche. Aggiungerei, inoltre, che la mia indole mi conduce a non calpestare il prossimo in nome della gloriosa ambizione. Al netto di tali situazioni, credo non esista un unico percorso o una sola via vincente per raggiungere un risultato. Pongo un esempio banale: sussistono infiniti metodi per preparare un esame. C’è chi divide i vari argomenti lungo i giorni, altri non seguono nessun calendario prestabilito. Terzi, invece, studiano tutto all’ultimo momento. Anche la recente emergenza denota vari criteri per affrontare la situazione. Ci sono Stati che viaggiano forte su particolari vaccini, diversi puntano su differenti nomi. Nel primo caso, ciò che conta è giungere al momento del test con una preparazione sufficiente. Nel secondo è importante cacciare il covid. Non si guarda, però, alla maniera di pervenirvi.

Risultatisti vs giochiesti, chi ha ragione?
Questo vale anche nel mondo del calcio. Negli ultimi anni si è discusso parecchio della diatriba tra risultatisti e giochisti. Qual è meglio? Chi ha ragione? Qual è il metodo più efficace? Tante domande a cui proverò a rispondere in questo pezzo. E’ chiaramente un’opinione personale che non vuole avere la pretesa di indicare la retta via. Da che lato mi schiero? Preferirei non farlo. Sono assolutamente convinto che vi siano infinità di variabili che propendono per un sistema o per l’altro. E’ una questione di DNA, di momenti, di dettagli e di stagioni. Prendo, per modello, l’infinito duello tra Barcellona e Real Madrid. Saranno costantemente su pianeti opposti, ma ciò non vuol dire che vi sia un globo superiore e uno inferiore. I blaugrana trionfano tramite l’estetica. I Blancos lo fanno in maniera pragmatica. I catalani contano 26 Liga contro le 34 dei Galacticos. La differenza esiste anche nel novero della Champions: 13 a 4, ma lo squilibrio non si può certo affidare all’attuale mentalità o allo stile. E’ una questione di storia. I trofei vinti ultimamente, infatti, ne sono la dimostrazione. Lo stesso vale per la differenza tra Leo Messi e Cristiano Ronaldo. L’argentino fa della “bellezza” uno stile di vita che lo conduce anche al successo. Il portoghese, invece, raggiunge il suo target con la concretezza delle giocate. Risultato: la Pulga ha conquistato 6 Palloni d’Oro e 4 Coppe con le orecchie. CR7 conta 5 trofei individuali e altrettante massime competizioni per club. I migliori di tutti i tempi e così fantastici anche perché tanto diversi. E’ stato magnifico vederli sfidarsi. Oggi si dice che il loro regno sia giunto al termine con i vari Mbappé e Haaland pronti a rubare la scena. Non credo che sia così. Finché il sudamericano e lo juventino calcheranno campi da calcio non penso si possa immaginare che il loro principato sia concluso.

L’essenza
Non c’è, quindi, un approccio che superi l’altro. Semplicemente esiste prima di tutto una questione di essenza. Il vocabolario Treccani ne indica il significato filosofico come “realtà propria e immutabile delle cose”. Tutto sta in questa definizione. Dal seme del pero non nascerà mai un melo perché la struttura è diversa e invariabile. Ci sono aspetti della natura dell’ente talmente intrinsechi e confacenti a esso che non possono essere nemmeno sfiorati. L’esempio del Real Madrid e Barcellona calza ancora a pennello. La Casa Blanca è quella. Rappresenta la Capitale ispanica. E’ il simbolo della grandeur concreta che si misura tramite il successo. Conta vincere e per farlo è necessaria la praticità. Il singolo conduce al trionfo grazie all’organizzazione senza spazio per altri gingilli estetici che a nulla risultano utili. Così, a lungo, l’emblema di questa società è stato proprio Cristiano Ronaldo che ne condivide il DNA. Ma anche giocatori come Benzema, Bale, Casemiro, Marcelo e Sergio Ramos non si discostano troppo da tale status. Gli stessi Modric e Kross, che giocano un calcio sensorialmente delizioso, lo applicano con i concetti tipici dei Galacticos. Il trofeo arriva con una magnifica struttura di squadra che non contempla grandi schemi o complicate triangolazioni tipiche invece della mentalità barcelonista. I catalani sono essenzialmente contrari e, molti di loro, quasi allergici a ciò che rappresenta la monarchia ispanica. Sono i “rivoluzionari” intesi, però, in ambito di costumi. Non voglio alludere a battaglie o violenze. Così in quella terra si origina il tiki-taka che è quanto di più vicino possa esistere alle teorie maggiormente complesse del pallone. Lì, Guardiola è il Maestro. Il professore da miliardi di seguaci. Colui che vede il calcio come materia difficile da plasmare in leggi matematiche. E’ l’uomo che nell’avventura al City assume 4 astrofisici all’interno del suo staff. E’ il cultore di un gioco disegnato a tavolino più che su un campo da pallone. Osservare una sua compagine è quasi come divertirsi con la playstation. Tutto è meccanizzato. Tutto è calcolato. Allo stesso tempo, però, pare di stare all’opera perché ogni situazione è trascendentale. Non immanente. La cultura italiana e l’unità tipica di questo Paese, che non vanta moti federalisti così forti come la Spagna, rendono la situazione un po’ diversa. Le citate difformità sono quindi meno palesi, ma esistenti pure qui. Il parallelo può essere fatto tra la Juventus e il Milan. I bianconeri sono simili al Real e i lombardi sono più vicini al Barca. In effetti, è così. La storia di Torino, prima Capitale della nostra amata Terra, l’avvicina molto di più alla Città dei Blancos. Nel capoluogo piemontese regna un’aria sabauda che, senza volere effettuare allusione alcuna, riporta alla mente la monarchia intesa come austerità. Persino l’architettura risente di tale inflessione. Milano, invece, disegna la modernità e il trascorre del tempo. Mi prendo questa libertà: se la Capitale delle Alpi rappresenta la stasi parmenidea, la location ambrosiana è il Phanta Rei eraclideo. Tutto scorre… Così l’ottica della Vecchia Signora è quella del successo senza bellezza, mentre il Diavolo persegue l’obiettivo tramite l’estetica. Il DNA non si muta e il tentativo sarrista bianconero è divenuto un fallimento.

Tempi e momenti
Non è, però soltanto una questione di essenza e di filosofia o, se preferite, genetica mendeliana. Occorre anche valutare il tempo e il momento. Quando la Juve scelse di affidarsi al tecnico toscano non sbagliò. Doveva provare qualcosa di diverso perché il metodo allegriano, che si era sposato perfettamente con i dettami bonipertiani, ormai stava logorando la macchina. Serviva aria nuova. C’era necessità di una boccata di ossigeno fresco per non saturare l’ambiente. Qualcuno sostiene che l’uomo di Figline abbia rappresentato la seconda scelta dopo il niet di Guardiola. Non so se sia così, ma preferisco pensare che la dirigenza bianconera abbia puntato diritto su un tecnico nostrano e molto capace. In quel momento serviva quella scossa. E’ riuscita? Nì. Sì, se si pensa ai risultati. E’ vero che la Juve vinse solo lo Scudetto, ma diventa difficile sostenere che quell’annata non fu positiva soprattutto in considerazione di quanto accaduto dopo. No, perché il matrimonio risultò impossibile. E qui subentra nuovamente la chimica. Il sarrismo e la Vecchia Signora sono come il “più” e il “meno”. Sono i poli opposti che solitamente si attraggono, ma se non succede nascono i guai. La combinazione avrebbe potuto essere micidiale, ma non ha funzionato. O meglio, penso che non le sia stato dato il tempo e il materiale per ruotare in modo giusto. Si aveva in mano una bomba e ci si è ritrovati a scoppiare un minicicciolo perché servivano giocatori diversi ma, soprattutto, un’ulteriore stagione. Arrivo, quindi, a confutare la mia medesima affermazione ultima, grassettata nel paragrafo precedente. L’unione tra il Comandante e la Vecchia Signora non è stata un disastro. E’ solo mancata in qualcosa. Un’altra dimostrazione della corretta scelta stilistica in base alla necessità dell’istante è rappresentata da Pioli e il Milan. E chi avrebbe mai detto che potesse riuscire? L’organizzatore per eccellenza sta compiendo un’impresa nella terra dei giochisti. Voi mi direte: “Ma, allora, Allegri e i rossoneri?”. Anche lui fu l’uomo giusto al momento opportuno. Non a caso, il connubio non fu troppo lungo. Qui giace la soluzione. Nell’istante in cui si necessita della novità, si può provare pure a “sfidare” il DNA, ma lo si deve fare solo nel breve periodo e maneggiando con cura.

Non esiste una mentalità europea
Esistono allenatori giochisti e altri risultatisti. Praticare la divisione è davvero semplice esercizio stilistico. Sacchi, Guardiola e Sarri, per esempio, sono opposti a Trapattoni, Allegri e Zidane. Ma cosa significano in concreto questi neologismi calcistici? Non può esservi chiaramente una definizione scientifica. Si pensi che gli appartenenti alla prima categoria cercano di raggiungere il loro obiettivo tramite il bello estetico. Il calcio proposto dagli esponenti di tale ideologia apparirebbe simile al Barocco. E’ quasi una ricerca dell’eccesso. Ho trattato precedentemente degli astrofisici assunti da Guardiola per il suo City. Si vuole deliziare lo spettatore con il gusto del suggestivo. Si assiste a trame composte da milioni di passaggi rapidi senza mai perdere la sfera e l’orientamento. Il gioco è ultra offensivo con centrocampisti schierati nella retroguardia. Si difende attaccando tramite percentuali di possesso palla esorbitanti e, anche quando la vittoria è risicata in un match decisivo, è assolutamente vietato rinunciare alla propria identità. Appartiene alla seconda fattispecie, invece, chi vuole ottenere il target senza curarsi troppo della forma. A quel punto organizza la squadra per lasciare spazio all’estro del singolo. L’importante è avere un solido castello arretrato. All’aspetto offensivo ci penserà il campione. Meglio se molteplici. L’esempio più classico è l’Inter vincente di Conte. Grande fase di non possesso per lanciare la sfera su Lukaku che, con i suoi potenti mezzi fisici, la giostra per gli inserimenti dei compagni o concretizza. Un altro esempio è la Vecchia Signora targata Allegri che ha sfruttato l’inventiva di uomini come Tevez, Pogba, Dybala, Cuadrado e CR7. Non esiste un modo vincente. Non c’è un metodo migliore nemmeno a livello internazionale. Non vedo, quindi, la nota mentalità europea intensa in tale senso. Il mancato successo continentale può dipendere da miriadi di fattori tra cui anche quelli psicologici, ma non dalla differenza tra risultatisti e giochisti. Il Barcellona di Guardiola vinse 2 Champions League come il Milan di Sacchi. In un certo senso potrebbe rientrare nella fattispecie anche il gheghenpressing di Klopp che condusse il Liverpool al trionfo nel 2019. Lo stesso esito, però, fu centrato per 3 volte consecutive dal super organizzato Real Madrid di Zidane. La squadra non mostrava canovacci assoluti e vincolanti di un calcio fantascientifico, ma si affidava all’estro del singolo garantendo comunque spettacolo e successo. Affermazione raggiunta anche dall’Inter di Mourinho che in più occasioni fece leva sul classico catenaccio per poi puntare sull’estro di Sneijder, Eto’o e Milito.
Se si guarda alle nazionali, il discorso è identico. Ha trionfato la Spagna di Del Bosque con il suo tiki-taka, ma pure la Francia di Deschamps. Il fine giustifica i mezzi...