Che il calcio sia molto di più di uno sport, ma un fenomeno sociale complesso con aspetti negativi e positivi e che attraversi trasversalmente in senso culturale e storico un intero popolo o addirittura una comunità allargata di nazioni, lo testimonia la maglietta azzurra con il numero 27 (le nazioni europee senza l'Inghilterra in Brexit), sventolata da Ursula von derLeyen dopo la vittoria della nostra nazionale nel recente campionato europeo 2021.
Da una parte gli inglesi che rivendicano il “ritorno a casa” del calcio” e dall'altra “Il calcio resta in Europa”. E', come dice Borges, “Il calcio è popolare perché la stupidità è popolare” conferendogli “un senso di supremazia, di potere che appare orribile ai suoi occhi” evidenziando quindi nel tifo una regressione incline ad accettare forme sanguinarie di dittatura e di oppressione, oppure il calcio, proprio per la sua potenza emotiva che coglie tutte le anime di un popolo, può risvegliare capacità e sensi di appartenenza positiva non solo nazionali ma addirittura transnazionali?. E' accertato che una vittoria di una nazione porti al suo aumento del PIL.
Ma, d'altra parte, conferire ad uno stato che non rispetta i più elementari diritti dei lavoratori, per il dio business, oppure fare del razzismo e della xenofobia uno strumento per inserirsi nei prossimi mondiali, come recentemente osservato qui in CM, a scapito delle nazioni dove questi fenomeni si svolgono, non sono forse delle storture di uno sport che sicuramente travalica il senso dello sport stesso?
E' una domanda a cui cominciano a rispondere in molte sfaccettature di critica positiva e negativa psicologi, sociologi e storici. E se vogliamo fare della storia, niente più dei mondiali del '50 in Brasile può far vedere una partita di calcio come un fenomeno sociale che va ben al di là della partita stessa.
Era da poco finita la guerra e nessuna delle nazioni europee era in grado di organizzare un campionato del Mondo. Si offrì il Brasile, smanioso di tentare in casa propria una conquista che era già sfuggita in precedenti occasioni. Il Governo brasiliano si impegna nel mastondontico Maracanà capace di ospitare 200000 persone che assistono disperate ad una sconfitta nella finale con l'Uruguay che si traduce in un lutto trasversale di una intera nazione.
E' una storia affascinante quella dei mondiali '50, che trova ricorsi storici precedenti e successivi di come il calcio per il Brasile rappresenti il sentire di un popolo nei suoi aspetti positivi e negativi. Già ai mondiali del '38 i Brasiliani peccano di presunzione proponendosi sicuri vincitori contro l'Italia, venendo dalla stessa sconfitti. Ripetono lo stesso sentimento, ampliato quasi grottescamente al massimo, nel '50 e poi ancora nell'82 in modalità incredibilmente simili.
Tutto un popolo voleva, sicuro della forza sportiva della Selecao, delusa nel '30, poi nel '34 e poi nel '38, la vittoria, assolutamente. Nel '50 la Selecao è piena di fuoriclasse a partire dal suo portierone Barbosa, divenuto poi un vero martire, Friaca, Jair, Chico e Ademir e quindi non poteva assolutamente deludere lo sforzo immane non solo sportivo di una nazione intera.
Eppure un segnale in senso negativo poco tempo prima c'era stato. La Selecao in maglietta bianca, poi rifiutata e abbandonata dopo la tragica sconfitta, dagli uruguaiani la aveva avuta nella Copa Rio Branco, tradizionale evento di confronto tra le due nazionali dove erano stati sconfitti per 4 a 3. Ma fu proprio l'andamento di come i Bianchi giunsero alla finale a tradire non solo la loro superbia ma la convinzione di una intera nazione. E qui si inserisce il personaggio assolutamente principale di questa commedia/tragedia di vero sapore greco.
Alcides Ghiggia e l'aggancio ad un'altra partita, sicuramente meno epica, ma epica per la mia memoria calcistica e dei tanti come me che sotto una pioggia battente la videro e la gustarono.
Alcides nasce in Svizzera nel Canton Ticino da una famiglia che emigra in Uruguay. Vestirà pure la maglia azzurra dopo quella della Celeste. Il Mondiale 50 un po' come quello dell'82 è organizzato a gironi. Le prime due dell'ultimo girone si qualificano per la finale. Arrivano Brasile Uruguay Svezia e Spagna.
Il 9 luglio iniziano le partite in contemporanea. Brasile contro la Svezia e Uruguay contro la Spagna. In un ambiente infernale di torcida frastornante con uso di petardi sembrerebbe persino lanciati contro i poveri svedesi il Brasile liquida la pratica con un esaltante 7 a 1. Al Pecambeu di San Paolo l'Uruguay fatica parecchio contro la Spagna. Il nostro protagonista porta in vantaggio la Celeste, e fatto unico nella storia del calcio, rimarrebbe l'unico giocatore che ha sempre segnato nella sua nazionale di appartenenza insieme a Jairzinho. Ma gli iberici non ci stanno, rimontano, e solo una rete del grande leader, Varela, vedasi se si vuole la importanza di questa figura in una squadra, in un altro mio intervento, mette le cose a posto pareggiando.
Quattro giorni dopo si ripete.
Il Brasile distrugge la Spagna 6 a 1
e la Celeste fatica alquanto, sempre con l'intervento del mio eroe, chiudendo 3 a 2 con la Svezia. Vanno ancora sotto e rimontano faticosamente. Il 16 di luglio quindi sono Brasile e Uruguay a decidere il Campionato. Il Brasile ha 4 punti e l'Uruguay 3. Al Brasile basta solo un punto. Grottesca, non si può dire altro, la sicumera dei brasiliani. I giornali sono praticamente in stampa con i titoli della sicura vittoria. Il Maracanà è tappezzato di cartelloni inneggianti anticipatamente al trionfo dei Bianchi. Il Prefetto del distretto pronuncia prima della partita un discorso che inneggia alla vittoria del Brasile. I calciatori sono già in possesso di un orologio d'oro donato dalla Federazione con dedica alla stessa.
Si organizza addirittura una sfilata eccezionale in stile carnevale nel Sambodromo di Rio. 200000 persone assistono allegre e sicure in una festa di un Paese intero dagli spalti gremiti del Maracanà. Insomma, la Celeste è una vittima sacrificale.
E così appare per tutto il primo tempo a resistere e respingere il veemente gioco di attacco del Brasile.
E così appare come in una inevitabile catarsi quando all'inizio del secondo tempo i Bianchi passano in vantaggio. E' un delirio annunciato e realizzato. Grave errore, perché Varela, il leader, con calma, si prende il pallone, sottobraccio, discute un poco con l'arbitro e così infonde fiducia, perde tempo e spegne in parte la lava che lo circonda e la Celeste sotto la regia del suo fuoriclasse assoluto, Schiaffino, il grande Pepe, comincia il suo gioco di geometrie.
I brasiliani hanno già vinto. La loro mente va agli osanna della premiazione, all'abbraccio di una intera nazione.
Al 66' però accade l'impensabile, l'impossibile. Ghiggia, a sinistra sfugge via in uno dei suoi guizzi letali, salta in dribbling, la sua specialità, un avversario, e porge in delizioso assist, altra sua specialità, la palla a Schiaffino che buca Barbosa. I Brasiliani sono presi da Nikefobia, la paura di vincere, non capiscono più niente. Si buttano forsennati in attacco e vengono spietatamente bucati.
E' ancora lui, Alcides, al 79' che in dribbling, questa volta a destra si presenta defilato.
Barbosa, unica sua debolezza che sconterà poi in una vita intera di inferno e di dileggio nazionale, pensa al cross con tre uruguaiani in area, ma Alcides decide di tirare. Scorge un varco tra palo e portiere e lì lo buca.
L'impossibile si realizza. Lo stadio ammutolisce, la torcida si spegne.
L'assalto finale si infrange sulla solida difesa uruguagia, specialità della Celeste.
E tutto un Paese piomba nel lutto totale.

Salta tutto. Non si suona nemmeno l'Inno dell'Uruguay. Rimet consegna al volo la Coppa a Varela che incontra per caso e il buio scende sul Brasile. Gli stessi uruguaiani confesseranno di provare quasi una forma di vergogna per aver arrecato un dolore immane, totale, che si esprime addirittura in suicidi. Insomma una follia.
Ma il Calcio è questo. Barbosa passerà una vita come un responsabile iettatore.
Ai Brasiliani, in vantaggio di un punto, bastava un pareggio per vincere il Mondial. Non lo fecero. Ricorda qualcosa? Alcides arriva qualche anno dopo in Italia nella Roma e Schiaffino arriva al Milan. Giocano ancora pure insieme nei giallorossi. E per uno strano gioco del destino il Milan lo trova a destra, vecchio castrone, come lo chiama Brera, di residuo poco scatto ma ancora di grande classe, in una nuova partita per me storica nella mia memoria.
E' il 12 novembre del 1961. Sono allo stadio sotto una pioggia che passa dapperturro senza gli ombrelli che ostruiscono la vista. Rocco è molto arrabbiato con Viani, medita le dimissioni. Maldini, il leader, in dialetto triestino lo convince a restare in una cena all'Assassino. Trova Sani, da lui definito un impiegato del catasto e da tempo resiste alle pressioni di Viani per il vecchio uruguagio. Voleva Rosa, il suo pupillo nel Padova che ora affronta dall'altra parte in una Juve senza Mora e Sivori, ma sicura di fare a fettine il Milan reduce da un 2 a 5 al Comunale di Firenze.Dopo due minuti passa il Milan. E' lui l'Alcides che muove. Ruba palla a Leoncini e serve Altafini. Lo serve con un assist del suo repertorio e José fulmina Anzolin prima del tackle di Bersellino. L'impiegato del catasto entra nell'azione del secondo gol con Rivera. Sbaglia Bercellino ed è 2 a 0 in 7 minuti. Dino fa vedere che tanto impiegato non è. Ma è ancora Ghiggia, questa volta in negativo, che fa fallo su Leoncini. Batte Rosa che fulmina Liberalato. Nikefobia ancora? Forse.
La Juve attacca, capisce lo sbandamento, va vicinissima al pareggio. Ancora lui l'Alcides dà il risveglio. Prima una legnata che scheggia la traversa e poi nella ripresa è ancora lui il protagonista. Sarti fa fallo di mani su lancio di David. Palla a Ghiggia, parte in dribbling il vecchio castrone, dribbla persino l'arbitro e mette in mezzo.
Mette in campo tutto quello che ha come nel '50. Sul suo cross irrompe Rivera e la Nike torna a splendere. Si avventa la Juve ma viene ancora bucata da Altafini autore di una quaterna storica. Gioca poco nel Milan il mio eroe greco, non segnerà mai. Quando se ne va in cielo, proprio il 16 di luglio del 2015, nella sua Montevideo, è l'ultimo dei 22 del Maracanazo, lugubre definizione data allo stadio da un giornalista argentino. Avrà sicuramente trovato gli altri 21, pronti, alla rivincita, questa volta senza torcida, da fratelli nel gioco più bello del mondo.
Quando se n'è andato l'ho salutato come un vecchio amico che si incontra in un viaggio per solo poco tempo, ma che ti resta dentro per sempre.
Grazie Alcides.