"Gaetano e Giacinto, sono due tipi che parlano piano, anche adesso, adesso che sono lontano, ma in questo frastuono, è rimasta un’idea, un eco nel vento, Facchetti e Scirea". Parole pronunciate da Gaetano Curreri, cantante degli Stadio, in una famosa canzone lanciata in radio non più di 7 anni fa. Forse il modo più corretto e armonioso per ricordare due delle più grandi e veritiere leggende che il calcio abbia mai conosciuto. Ascoltando questo brano, in radio o sul proprio smartphone, entra nelle mente quel silenzio assordante che distoglie per qualche istante dal mondo moderno per intraprendere la strada del ricordo, quella via rettilinea e ben definita tipica della poetica foscoliana. Perché ogni tanto dimenticarsi di Douglas Costa che sputa nell’occhio dell’avversario, di Balotelli che trova l’essenza della vita nelle discoteche e di Icardi che si lascia influenzare dalla sua signora, fa bene a se stessi, oltre che agli altri. E la più grande consolazione che l’essere umano può avere è data dal fatto che le vie oscure di un universo infinitesimale e magico hanno conosciuto due dei più grandi esempi di lealtà sportiva, Facchetti e Scirea. 

Tralasciando l’appartenenza rispettivamente a Inter e Juve, squadre animate da una rivalità eterna, Facchetti e Scirea presentano tanti punti in comune. I ruoli sul rettangolo di gioco combaciavano nella loro diversità, come quella corda sensitiva personale che separa la spensierata giovinezza dall’ingresso nella frenetica attività lavorativa. Erano gli esponenti di un calcio diverso, caratterizzato dalla forza interiore e dalla bontà d’animo, qualità che in un mondo di business e grandi multinazionali viene sempre di meno. Un po’ come nella Divina Commedia, quando Dante protagonista, accompagnato da Virgilio, tocca con mano la realtà ultraterrena; i viaggi nell’Inferno di Lucifero, nel Purgatorio e nella beatitudine eterna del Paradiso, gli permettono di raggiungere la salvezza, quella calma interiore e quella conoscenza approfondita che non si trova nel contesto culturale del tempo. E così, quando tornano alla mente campioni sacri come Gaetano e Giacinto è doveroso segnare un grande punto interrogativo sulla nostra realtà. 

Sì, perché i due incarnano alla perfezione i valori di un’intera generazione, quella cresciuta all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, che nell’umiltà e nei piccoli sacrifici della quotidianità riusciva trovare la spinta per andare avanti arrivando alla tanto sudata meta. Giacinto e Gaetano, i tipi che parlano piano. Il campione dell’Inter, figlio di un ferroviere, cresce dando calci ad un pallone; quella sfera antica che rendeva felice un popolo intero perché nel rimbalzo e nel tocco magico veniva percepita la felicità, quella parola che adesso è finita nel dimenticatoio, ma che nei bambini trova libera espressione. E Giacinto lo era quando esordì alla Trevigliese, furono i primi passi di una carriera esemplare dettata nel nome della spontaneità. Il mago Herrera lo notò e lo trasformò, forse catapultò, nella realtà interista, quella che poi sarebbe diventata la sua seconda pelle. Da qui, una splendida carriera fatta di gioie immense e terribili delusioni. Ma a differenza di quanto succede oggi, i campioni, quelli veri si rialzano sempre e hanno il coraggio di sorridere perché l’allegria e la nobiltà d’animo, per usare un termine cortese, permettono al mondo di conservare un ricordo da andare a trasmettere di generazione in generazione. Perché il palmares di Facchetti parla da solo: 4 scudetti, 2 coppe Campioni, 2 coppe Intercontinentali, 1 coppa Italia. Trofei sentiti e conquistati con ardore e perseveranza. E forse il termine riconoscenza lo portò a guidare la presidenza della squadra che ha amato per tutta la vita; San Siro ai suoi piedi, il tempio nelle sue mani.

E nel club rivale dell’Inter, quello bianconero, giocava il ragazzino di Cernusco sul Naviglio. Milanese doc, ma torinese di adozione, verrebbe da dire così. Gaetano Scirea, il costruttore di gioco e il marcatore infallibile nelle sfide decisive grazie anche alla tecnica ambidestra. Un cuore bianconero, vincitore di 14 titoli, autore di 32 gol e protagonista di ben 552 incontri; un Guinness world record se non fosse arrivato Del Piero, reo di aver superato il fuoriclasse di quella  Juventus. E così come Facchetti, il passaggio nella grande squadra arriva in modo graduale, senza raccomandazioni o colpi di fortuna. La generazione dell’autonomia, quella dove i ragazzi conoscevano a menadito il confine tra fare e non fare, ma soprattutto il periodo in cui vi era la possibilità di uscire dai propri confini grazie alla parola, quella che oggi è contenuta solo all’interno dei cellulari di ultima generazione. Ma come succede nella vita, tutto ha un inizio e tutto ha una fine; il 1988 è l’anno in cui Scirea finisce di giocare nella Juventus. Perché il 3 settembre succede la triste tragedia.

Facchetti e Scirea rappresentano gli albori di un calcio che ormai non esiste più, ma così come i due campioni hanno vinto tante battaglie, alla fine, come del resto capita a tutti gli esseri umani, si sono dovuti arrendere ad un qualcosa di più grande. Facchetti si è arreso alla bestia, Scirea al destino. La vita è questa, un continuo fluire di emozioni e sensazioni che l’uomo si illude di poter fermare, ma alla fine l’ultima parola è sempre del fato. E così, in quel triste 3 settembre 1989, un tragico incidente si portò via Gaetano Scirea, quasi a volerlo levare dal mondo con barbara violenza. E diversi anni più tardi toccó al campione nerazzurro, che invece combatteva contro un brutale tumore al pancreas; si sa, il destino non tiene conto della carta d’identità, ma il ricordo, legato anche all’oggetto più banale, non verrà mai cancellato. La luce risplende alle spalle del tempo e adesso anche se le stelle sono lontane, il blasone di Inter e Juve risplende sotto ai loro occhi. Ma in questo frastuono, è rimasta un’idea, un eco nel vento, Facchetti e Scirea. Gli Stadio hanno capito tutto.