Gennaio 1975. È lei, Evonne Goolagong ad alzare al cielo il trofeo dell’Australian Open. Serviva una risposta vincente ed Evonne la diede. Palla a incrociare che finisce sulla riga e punto decisivo. Serviva una risposta chiara a tutti gli australiani che ritenevano gli aborigeni connazionali gente di serie B. Quella risposta Evonne la recapitò a chi di dovere senza pronunciarla mai apertamente. Il successo della Goolagong nel corso degli anni 70 sovverte in effetti le fragili certezze dell’uomo bianco, convinto – e non si sa perché - che il tennis ad alto livello non sia uno “sport per signorine, né per i neri”. Doppia smentita. A dire il vero, la futura #1 del tennis mondiale non è nemmeno nera, come qualcuno sbrigativamente la definisce. È qualcosa di diverso, forse anche di più prezioso. È aborigena, fa parte di quelle popolazioni che da millenni abitano l’Australia e che la colonizzazione anglosassone ha relegato ai margini della società civile.

NO, Evonne non è nera, il colore della sua pelle è più scuro di quello di un bianco e più chiaro di quello di un black. E non è neppure meticcia. E’ proprio aborigena e non è la stessa cosa, perché nell’evoluzione umana sono le vicende collettive a fare la differenza e ogni popolo ha vissuto le proprie. Nel corso della storia moderna, la sorte degli abos australiani è per molti versi simile a quella degli indiani d’America e ai nativos di Argentina. Vengono sconfitti dalla superiorità militare e tecnica dell’uomo bianco, spesso sterminati, altre volte emarginati oppure relegati in campi profughi o in riserve, successivamente abbrutiti dall’alcool e dalle tante malattie rispetto alle quali non esiste una contromisura adeguata. Non c’è spazio per altre culture o per altri modi di essere quando si presenta il colonialismo (militare o finanziario che sia) e nemmeno allinearsi allo stile di vita dei bianchi è facile. Talvolta non è neppure accettato. In ogni caso, assoggettarsi è l’unica via per cercare di sopravvivere. In Tasmania, tanto per citare un caso, non ci sono più aborigeni, perché nei secoli passati la loro presenza è stata cancellata in modo definitivo.

LA FIGLIA DI KEN. Gli avi della Goolagong riescono a salvarsi, fuggono dalla Tasmania e si stanziano nel Nuovo Galles del Sud, a Griffith, una cittadina di 15mila abitanti, abitata in larga parte da emigrati veneti e da calabresi. Il mare è lontano, Sydney lontanissima (quasi 600 km.), Canberra poco meno. Il padre, appartenente al popolo Wiradjuri, ex pastore nomade ribattezzato con il nome di Ken (i bianchi sanno essere così civili da imporre anche nomi civili agli sconfitti), è l’unico abo maschio e adulto di Griffith. Sua figlia, la piccola Evonne Fay, nata a Griffith il 31 luglio 1951, terza di otto figli, va a scuola nel villaggio di Barellan (a 32 miglia da casa) e talvolta frequenta l’unico campo da tennis che c’è, ovviamente proprietà di un ricco colono di origine anglosassone. La bambina è dapprima la raccattapalle scalza dei bianchi, poi comincia a prendere dimestichezza con la racchetta e pian piano la sua considerazione tra gli abitanti di Barellan cresce. Impara a colpire la pallina, gioca con i bianchi, diventa in poco tempo la più brava di tutti. <<Strano, una negra che sa giocare a tennis. E non se la cava neppure male>>, sentenzia qualche genio diversamente pigmentato, di certo poco avvezzo alle sfumature cromatiche.

BILL EDWARDS CI VEDE LUNGO. Un malinteso senso dell’orgoglio potrebbe rivolgere il talento in spirito rivendicativo: nulla di più lontano dall’indole pacifica ma determinata di chi ha sangue Wiradjuri. E sì che in quanto ad amor proprio Evonne Goolagong non sembra seconda a nessuno, ma c’è sempre modo e modo di esprimere ogni stato d’animo. Lei preferisce far parlare i fatti e i fatti si dimostrano grazie al lavoro duro. Dunque, nell’entroterra del Nuovo Galles del Sud c’è una ragazzina che con la racchetta fa quello che vuole e l’eco dell’esistenza di un simile fenomeno arriva fino alla Metropoli. Un allenatore di Sydney, il signor Bill Edwards, muore dalla voglia di vederla all’opera. Pochi scambi da fondo campo tra i due e l’evidenza ha la meglio. Evonne è talmente brava che Edwards vuole adottarla. È l’unico modo per strapparla a una condizione di subalternità, in quel mondo. La farà studiare e permetterà al talento della ragazza di affinarsi fino a fare di lei una campionessa di livello internazionale. I signori Goolagong accettano e la cosa non deve sorprendere. Tra gli aborigeni i nuclei familiari sono variabili ed è considerato normale, anzi positivo, educare anche i figli degli altri o far vivere esperienze differenti ai propri ragazzi. Poco tempo ed Evonne Goolagong diventa una campionessa abo in un mondo di bianchi. Mano destra solida e morbida al tempo stesso, capacità di imporre il ritmo del gioco in qualsiasi situazione. Grande capacità di concentrazione. Movimenti leggeri, condizione atletica sempre al top. Corretta e spietata sul piano agonistico contro chi è dall’altra parte della rete. Da un certo momento in poi le stimmate della campionessa non le vede più soltanto il patrigno-allenatore. Con i primi guadagni di Evonne, anche Melinda, sua madre, può comprare una casa da “australiani veri”. Nell’antica Roma esistevano i Liberti, gli schiavi liberati. Secoli dopo, dall’altra parte del mondo non è che sia cambiato chissà cosa, a parte le pure forme.

THE DOUBLE. Nel 1971, poco prima di compiere 20 anni la Goolagong mette a segno un’accoppiata che già da sola definirebbe una carriera fantastica. Nel giro di un mese vince il Roland Garros di Parigi e il torneo londinese di Wimbledon. In entrambe le situazioni batte due connazionali, due bianche, due esponenti della cosiddetta Australia dominante: Helen Gourlay e la grandissima Margaret Smith Court. All’Australian Open di quello stesso anno la Smith Court ed Evonne uniscono le forze nel doppio e in finale si sbarazzano delle connazionali Emerson e Hunt con un irreplicabile 6-0 6-0. L’agenzia americana di stampa Associated Press la premia come “sportiva dell’anno 1971”. In quel periodo, la nazionale australiana vince per tre volte la Fed Cup (il corrispettivo femminile della Coppa Davis), nel 1970, nel 1973 e nel 1974. Ma manca ancora qualcosa di molto, troppo importante.

NEMO PROPHETA IN PATRIA, recitano i Vangeli e fino a un certo momento della carriera quella locuzione sembrerebbe pensata proprio per la tennista aborigena. Per quanto la riguarda, sugli Australian Open di Melbourne sembra esistere una maledizione: da singolarista è arrivata tre volte consecutive in finale e ha perso sempre, due volte contro la Smith Court e una contro l’inglese Virginia Wade. Ma a forza di andarci vicina, il 1974 è finalmente l’anno buono, perché nel giorno decisivo la Goolagong piega la resistenza dell’americana Chris Evert, altro talento emergente, e alza il trofeo davanti alla “sua” gente. E si aggiudica anche il doppio, in coppia con l’americana Peggy Michel. Ma di norma la vittoria più bella è quella che si replica e la replica avviene l’anno dopo. Anzi, è una replica al quadrato, perché nel doppio Goolagong-Michel sconfiggono Smith Court-Morozova. Tuttavia è nel singolare che i detrattori attendono al varco Evonne. L’altra finalista dell’Australian Open 1975 è una giovanissima tennista nata a Praga e che non ha ancora compiuto vent’anni. Si chiama Martina Navratilova. È nel circuito internazionale da poco tempo ma si dice che sia fortissima e che in futuro non avrà avversarie di fronte a sé. Vero, ma con un 6-3 6-2 quel giorno la più forte rimane ancora lei, Evonne Goolagong. Dunque, gli Open d’Australia non sono più un taboo e la profetessa diventa tale anche a casa sua. E si scandalizzavano per causa sua. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua» Matteo 13, 57. Vero per l’apostolo Matteo, non più per la tennista Evonne. Il 1975 è per lei un anno d’oro anche sul fronte personale: diventa la signora Cawley e successivamente diventa madre di Kelly (1977) e di Morgan (1981). Il 26 aprile 1976 la tennista australiana è #1 del ranking mondiale.

ONORE AL MERITO. L’ultimo acuto importante della Goolagong è la vittoria a Wimbledon nel 1980, alla soglia dei 30 anni. Nel 1983 la campionessa saluta tutti: con un sorriso smagliante, con la classe e lo stile sobrio e misurato di sempre. In una lunga e fortunata carriera, l’unico vero dispiacere professionale è quello di non avere mai vinto gli U.S. Open. Finalista per quattro anni di fila dal 1973 al 1976, viene sconfitta da tre avversarie diverse, la Smith Court, la King e la Evert (2 volte). Al termine della carriera diviene allenatrice e nel 2002 guida la nazionale australiana come capitano non giocatore. Per tutto ciò che ha fatto e che ha rappresentato per il suo Paese ha ottenuto varie Onorificenze tra le quali l'Order of Australia e l'Ordine dell'Impero Britannico. Il 26 gennaio 2018 è nominata Compagna dell’Ordine di Australia «per l'eminente servizio al tennis come giocatrice a livello nazionale e internazionale, come ambasciatrice, sostenitrice e difensore della salute, dell'istruzione e del benessere dei giovani indigeni attraverso la partecipazione allo sport e come modello di riferimento.». Mica male per una che faceva la raccattapalle scalza e viveva ai margini della civiltà bianca perché era considerata un’australiana di serie B. Una che, per emergere, ha dovuto essere “sdoganata” da un allenatore tanto bianco quanto WASP (White Anglo Saxon Protestant).

Diego Mariottini