qui per la parte I

“Ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per la strada, lì ricomincia la storia del calcio”.
Jorge Luis Borges

Il colore vivo dei fiori delle corone – una selva infinita – addolcisce le severe e razionali linee gotiche del duomo ambrosiano rischiarato da un sole velato. 
La vividezza dei colori dei fiori contrasta con il chiaroscuro del cielo, sembra un dipinto di Chagall,  che trascina, chi guarda, in una dimensione che va oltre il reale e diventa trasognante.
Poi, lo sguardo si appunta sulla selva dove spicca una corona di fiori dai colori accesi. Guardiamo cosa c’è scritto: Milan Club Parigi.
Non si può fare a meno di sorridere. Dalla capitale del glamour un ultimo omaggio all’uomo che del fascino, aveva fatto la sua cifra stilistica e si corre subito con la mente al tempo in cui sussurrava le amate canzoni francesi: Trenet, Montand e Becaud. Potrebbe essere Et maintenant la colonna sonora di questo offuscato  pomeriggio? Proviamo.

Et maintenant, que vais-je faire de tout ce temps que sera ma vie?
(E ora che cosa sto facendo tutto questo tempo che sarà la mia vita?)
De tous ces gens qui m'indiffèrent, maintenant que tu es partie
(Da tutte queste persone indifferenti a me, ora che te ne sei andato)
Toutes ces nuits, pourquoi, pour qui? Et ce matin qui revient pour rien
(Tutte quelle notti, perché, per chi? E questa mattina, che equivale a niente)
Ce coeur qui bat, pour qui, pourquoi? Qui bat trop fort, trop fort.
(Questo cuore che batte per questo, perché? Battere troppo duro, troppo duro).
 

Mentre Et maintenant sfuma lentamente, come in una dissolvenza, dallo schermo della mente, un ritmo più incalzante scaccia dalla nostra memoria le tenerezze, le malinconie e i languori di Becaud.
Irrompe, con forza crescente, Wagner e la sua Cavalcata delle Valchirie, la più simbolica musica eroica, in pratica l’inno strumentale di ogni impresa guidata dal volere divino. Sentiamo anche il ronzio sempre più ravvicinato dei rotori di tre elicotteri Augusta che scendono lentamente sul terreno fangoso, a causa di una leggera pioggerella, dell’Arena di Milano.
E’ il 18 luglio 1986, un venerdì.
Berlusconi irrompe, con forza e sfarzo, nel massimo campionato di calcio.
La scena è presa, pari pari, dal film di Francis Ford Coppola - Apocalypse Now - un atto d’accusa contro le atrocità della guerra - e la colonna sonora era proprio la cupa Cavalcata delle Valchirie.
Nietzsche, non a caso, definì Wagner un artista tragico che camuffava con la musica il pessimismo di una società decadente. E’ chiaro che, allora, a questa chiave di lettura dell’opera wagneriana,  il cavaliere non badò. Sbagliando, a nostro modesto avviso.

QUEL GIORNO ALL’ARENA
Erano giunti in 10 mila con bandiere, striscioni e tanto entusiasmo, sugli antichi spalti dell’Arena Civica, intitolata a Gianni Brera. La realizzò, nel 1807Luigi Canonica, architetto neoclassico che -ironia della Storia- s’ispirò al Circo Massimo di Roma e alla forma dell’anfiteatro per richiamare la tradizione imperiale romana. Poiché l’ego del nostro personaggio spaziava in ogni territorio, riteniamo che la scelta della location non sia stata casuale.
Sventolando gigantesche bandiere, gli aficionados rossoneri si chiedevano l’un l’altro: ma perché ci hanno fatto venire qui? Poi d’improvviso un ronzio lontano, e 10 mila teste si alzano, con il naso all’insù, in direzione del cielo. I tre Augusta, uno dopo l’altro, planavano sulla fanghiglia dell’Arena, mentre dagli altoparlanti le valchirie galoppavano. Una scena surreale.
Dal primo elicottero scendono, tra gli osanna della folla rossonera in delirio, i primi cinque colpi di mercato del nuovo corso berlusconiano: Dario Bonetti, Giovanni Galli, Giuseppe Galderisi, Daniele Massaro e Roberto Donadoni. Quest’ultimo preso dal vivaio atalantino che, da anni, era una succursale di mercato della Juve. Ennesima sfida allo strapotere bianconero.
La scena è decisamente surreale: le ballerine di Drive In si muovono con fatica sull’argilloso terreno dell’Arena. Cesare Cadeo, Massimo Boldi, Gaspare e Zuzzurro, quattro abili e scafati commedianti, seguono alla lettera l’enfatico copione scritto dal nuovo dominus rossonero.

CAMBIARE IL SENSO DELLE COSE
Stravolgere il significato degli eventi. Forse è stata, in politica, negli affari e nel calcio, l’abilità più straordinaria di Berlusconi. Rifarsi a una delle scene più drammatiche, grottesche e anti-militari della storia del cinema, per creare un clima di esaltata partecipazione intorno a una squadra di calcio e al suo proprietario, è una straordinaria manipolazione e, forse, adulterazione, del senso delle cose.
La scena di Coppola vede protagonista un truce colonnello Kilgore, interpretato da un grande Robert Duvall,  che, eccitato dalle guerresche note wagneriane, ordina un bombardamento su un tranquillo villaggio vietcong.
Per Berlusconi, ispirarsi a quella tragica scena, costituì una trovata geniale, uno spot, ovvero qualcosa di cui s’intendeva profondamente e che utilizzerà come arma di distrazione di massa in pubblicità, ma anche in politica.

C’è però anche una spiegazione più profonda a monte di certe trovate propagandistiche. I tratti culturali più importanti dell’Italia, se non tutti, la maggioranza, stanno nell’opera lirica, nel melodramma. E’ una metafora culturale del nostro paese. Comprende la musica, l’azione drammatica, il fasto, il pubblico spettacolo  e il senso del destino. Il nuovo presidente rossonero sa che il fasto e lo spettacolo giocano un ruolo talmente importante nella vita degli italiani che essi tendono a giudicare cose e persone basandosi essenzialmente sull’apparenza. Il modello americano è sempre stato il suo dogma. Non a caso l’immensa popolarità del suo network televisivo  è dovuto anche a  telenovelas come Dallas, Crest e Falcon che propinò al suo pubblico, in dose massicce, fino a farle diventare uno stile di vita,

“LUI STATO ALLENATORE EDILNORD”
“Silvio Berlusconi? Sì, molto bravo, capisce calcio. Lui stato allenatore Edilnord.”
Niels Liedholm
è stato il primo allenatore del Milan berlusconiano. Lo svedese era un monumento del calcio. A Milano, come giocatore, arrivò nel 1949. Ci rimase dodici stagioni e vinse quattro scudetti. Con Nordhal e Gren formò il mitico “Gre-No-Li”, una sigla nata per caso inventata da un giornalista che aveva qualche difficoltà a scrivere e pronunciare i nomi dei tre giocatori svedesi. I suoi modi gentili e signorili costituivano il suo tratto distintivo.
Divenne per tutti ‘il barone’. Da allenatore introdusse la via italiana alla zona. Abbandonò la tradizione del catenaccio e della marcatura a uomo che era stata  una caratteristica irrinunciabile delle squadre italiane. Il suo era un calcio innovativo, molto tecnico, poco fisico.
Berlusconi e Liedholm non erano fatti per intendersi: interferenze continue nell’allestimento della formazione, il barone diceva di sì, poi faceva di testa sua.
Nel 1987, il divorzio. Lo sostituirà Capello, che però accettò a patto di avere Liedholm come direttore tecnico.
Così fu.

IL PROFETA DI FUSIGNANO
Ci vorrebbe la cifra inventiva di Jorge Luis Borges - l’autore di quel fantastico libro che porta il titolo di Finzioni - per narrare l’alchimia degli eventi,  che condusse all’incontro tra Sacchi e Berlusconi.
Lo scrittore argentino era abilissimo nella creazione di mondi presunti veri, più che reali, capaci di intrecciare simboli eruditi a riflessi surreali e metafisici.
Sacchi l’ha raccontato così: “Lui ha avuto una visione in me, ha riconosciuto e identificato qualità che nemmeno io pensavo di avere.”
Arrigo Sacchi,
di Fusignano, in provincia di Ravenna, che diede i natali anche ad Arcangelo Corelli, violinista e compositore, di cui i musicologi ancora oggi elogiano la bellezza del timbro che sapeva far emergere dallo strumento e quello di Corelli sembra fosse il più bello in tutta Europa.
Il timbro di Arrigo è il modulo di gioco: la zona.
Berlusconi lo scovò in Serie B dove allenava il Parma. Il suo look faceva pendant  con la sua scoppiettante  personalità: occhiali da sole, Rayban a goccia, che portava anche di notte e una consolidata calvizie che ostentava con fiera determinazione. Nel suo curriculum non spiccavano le doti di grande calciatore. Il suo verbo calcistico si basava su zona e pressing. Qualcosa di molto simile al modulo olandese degli anni ’70, quello che è passato alla storia come calcio totale. Sosteneva chetutti i miei giocatori devono imparare come giocare in difesa e in attacco e devono attaccare gli spazi“.
I suoi più grandi successi scaturirono da un trio di giocatori – ovviamente olandesiche ancora oggi le nobili falangi del tifo rossonero sognano nelle notti di mezza estateRuud Gullit, Frank Rijkaard e Marco Van Basten. Tre pilastri fondamentali.
Una difesa tanto arcigna quanto italiana fatta da Tassotti, Baresi, Costacurta e Maldini in porta Sebastiano Rossi.
A centrocampo, un cardine di nome Carlo Ancelotti. Dal portiere all’ala sinistra tutti facevano pressing, ne scaturiva un gioco fulmineo e spettacolare. Viene in mente quello che diceva Rocco su come deve essere una squadra perfetta: un portiere paratutto, un assassino in difesa, un mona che segna e sette asini che corrono. Comunque vinse di tutto e di più. Inutile fare qui l’ennesimo elenco. Le falangi rossonere di cui sopra si sono appuntate le vittorie nella mente e nel cuore, marchiate con il fuoco della passione.

L’AFFAIR LENTINI
Verso le 19,20 del 30 giugno 1992, presso la sede della Lega Calcio, fu depositato un contratto relativo al passaggio di un calciatore da una squadra all’altra.
Ordinaria amministrazione? No, quella sera ebbe iniziò una vicenda destinata a segnare il calcio nazionale. Le squadre coinvolte erano il Torino di Gianmauro Borsano, il Milan di Silvio Berlusconi, il calciatore era Gianluigi Lentini, centrocampista che si era fatto notare tra le fila granata. Borsano, per dirla tutta, e brutalmente, era alla canna del gas, la cassa torinista languiva e serviva una trasfusione di liquidità. Il calciatore era nei desideri dei due dominus della serie A di allora. Se lo contendevano, infatti, Gianni Agnelli e manco a dirlo, Silvio Berlusconi.
Borsano era dunque il vaso di coccio costretto a viaggiare con vasi di ferro. Non poteva venderlo alla Juve. Ci sarebbe stata la rivoluzione. I tifosi granata non  avrebbero mai permesso che un pezzo pregiato dell’argenteria di famiglia venisse ceduto ai rivali di sempre. Berlusconi, che com’è noto, quando si trattava del Milan non si negava nulla, quell’anno  aveva portato a termine una campagna acquisti faraonica: Papin, Savicevic, Eranio e De Napoli.
Ma, il cavaliere era  incontenibile e di difficile contentatura. Voleva la ciliegina sulla torta e poi tirarla, metaforicamente, in faccia, all’odiato-amato Avvocato. Diceva spesso di avere sul comodino una foto del mitico Gianni. Sarà stato vero? Non si sa. Di certo si sa che il Silvio era una gran ‘lenza’ e sin da maggio cominciò a corteggiare Lentini.
Piaccia o no, in fatto di donne, e di giocatori, aveva un tocco da  charmeur. Cominciò, dunque, seguendo il rituale classico del corteggiamento, con un invito a cena ad Arcore. Non ottenne il sì che auspicava.
Ma, si sa, quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare.
Il prossimo appuntamento, il 23 giugno, lo fissò a Caselle, aeroporto di Torino. Gli inviò un elicottero che lo depositò sul prato antistante Villa San Martino. Lo condusse, paternamente per mano, nel Salone delle Coppe e delle Supercoppe.
Davanti a quel luccichio di gloria Lentini cedette. 

65 MILIARDI PER LENTINI?
Il giornale della famiglia Agnelli - La Stampa - sparò un titolone in prima: “Berlusconi strappa Lentini per 65 miliardi.
Ma, era questa la cifra vera? Fatta la ‘tara’ all’enfatizzazione – pratica comune  a tutti i giornali italiani – e metteteci anche il disappunto per lo sgarro compiuto ai danni del ‘datore di lavoro’, possiamo dire si e no. Facciamo qualche conto della serva: 23 miliardi per il cartellino, che ad ogni buon conto costituiva un record assoluto anzi mondiale. Pensate, nel 1984, il Napoli acquistò Maradona per 13 miliardi.
Poi 42 miliardi, divisi in otto miliardi, in quattro stagioni, più un non meglio precisato bonus di benvenuto di 10 miliardi che, non crediate, è una pratica ancora vigente. Si usa per trattenere i calciatori recalcitranti, quelli ‘rognosi’ insomma.
Un esempio di scuola è Mbappè. Ovviamente, in un paese, dove la moralità è una veste cangiante che s’indossa a seconda delle circostanze, si innescarono polemiche e dibattiti sulla morte del calcio come sport e sempre più business. Il pulpito della predica juventina, comunque, era inadeguato alla bisogna. I bianconeri, in quegli stessi giorni, acquistarono Vialli dalla Sampdoria per 45 miliardi.
Comunque, Galliani, smentì subito l’astronomica cifra e precisò che i miliardi erano 27,2 (14 di cartellino più 13,2 al giocatore). Chi si fregò le mani, in tutto questo bailamme, fu Borsano che palesò, nel corso di diverse interviste, un’ipocrita indignazione addossando a Lentini quanto accaduto.
Il calciatore, ovviamente, replicò, con stizza all’accusa del suo ex-presidente e disse che aveva letto che stava vendendo mezza squadra e si senti  tradito.
Come tutte le oscure vicende pallonare del Bel Paese, il seguito della storia proseguì nelle aule della Giustizia ordinaria. La Procura di Torino nel 1993 aprì un’inchiesta e accusò Borsano di essersi intascato 6 miliardi e e mezzo di lire in nero così suddivisi: 1,5 miliardi in titoli di Stato e altri 5 miliardi provenienti da un conto Fininvest in Liechtenstein.
Quattro anni dopo i giudici torinesi chiesero e ottennero il rinvio a giudizio di Berlusconi, Galliani e Massimo Maria Berruti, il legale che si era occupato dell’accordo che, intanto, era diventato deputato di Forza Italia. La tesi dell’accusa era che il Milan aveva versato 10 miliardi in nero (estero su estero) per dare ossigeno alle asfittiche casse granata.
Insomma, secondo i giudici, Borsano aveva venduto l’anima al Diavolo - è il caso di dirlo - trasformandosi in una sorta di dependance rossonera fino al crac definitivo.
Ma, nel 2002, una legge – decisamente mandata dalla provvidenza – stabilì la depenalizzazione del falso in bilancio che accorciò di ben 3 anni i tempi della prescrizione.
Il 15 novembre 2002 Berlusconi, Galliani e Berruti vennero prosciolti per prescrizione.

Ah… scusate dimenticavo: la legge sulla depenalizzazione del falso in bilancio fu approvata dalla provvidenza e, diciamolo, previdenza, del Governo Berlusconi.
Le vie della provvidenza sono come quelle del Signore: infinite!