Nella vita serve tempismo. Sì, è la stessa identica frase che usai qualche settimana fa per un altro personaggio. Parlavo di Caicedo, l’uomo della Provvidenza.
E non è per essere monotono o logorroico, ma è per sottolineare quanto sia di vitale importanza l’incrocio con il destino. Il trovarsi nel posto giusto al momento giusto. Perché se così non fosse, allora potremmo tranquillamente stravolgere i piani della nostra vita. Potremmo rimanere appigliati a quel “se solo avessi…”, “se solo ci fosse…” e così via. Sarebbe un continuo girotondo di rimpianti e di rimorsi, alla quale non potremmo porre rimedio. Dove non potremmo mettere bocca. In primis perché non si può cambiare il decorso del tempo. In secundis perché spesso non dipende da noi.
E se Caicedo è stato l’uomo giusto al momento giusto, qui, ne conosciamo un altro. L’uomo giusto, sì, ma al momento sbagliato.

La Regina del Plata ha un nuovo figlio

Buenos Aires, 1981. Esattamente trentanove anni fa. Mamma Mary regala al mondo argentino l’ennesimo figlio del pallone. L’Albiceleste gli scorreva già nelle vene, nel grembo materno. Il tutto a sua insaputa. Un pianto, quello che i tutti neonati fanno appena vedono per la prima volta la luce de sole. Quel pianto che, di lì a qualche anno, si sarebbe trasformato in gioia e che lo avrebbe trasferito e infuso ad una piazza intera.
Papà Roberto si accorge immediatamente: l’amore incondizionato per la sfera magica, tiri, giocate, insomma, il tempo libero lo passava con lei. E allora lo iscrive ad una scuola di quartiere. Precisamente al Parque Chas, il barrio più piccolo di Buenos Aires. Una struttura contorta, labirintica, ma accompagnata da alcune strade circolari possedenti il nome di diverse città europee.
La carta geografica di quel quartiere è esattamente il sinonimo della sua carriera.

Portiamolo da noi

Per diversi anni, il Parque Chas, è la sua casa. È la speranza di fare il grande salto. Di non correre più sul campo da terra, ma su quello erboso. Quello che sa di competizione. Un manto circondato da tifosi dove ti applaudono e ti inneggiano.  
A nove anni, nel barrio argentino, si affaccia Adolfo Pedernera. Uno che l’Argentina la conosceva bene. Non solo in termini geografici, ma soprattutto calcistici. Un ex calciatore del River Plate, quando i Millionarios venivano soprannominati La Máquina, per il loro gioco spavaldo, suggellato da passaggi rapidi ed esteticamente gradevoli. Pedernera faceva parte dei Los Caballeros de la Angustia, perché, in quella squadra, davano sempre l’impressione di buttarla dentro e lo facevano spesso nei minuti finali.
Siamo agli inizi degli anni Novanta e l’ex Caballeros, allenatore delle giovanili del River, nota questo fanciullo: freddezza sotto porta, fulmineo, amante del dribbling. Che aspettiamo? Portiamolo da noi.  

Ramon Diaz lo porta in prima squadra

Prendiamolo, questo ragazzo è un fenomeno. Prendiamo Javier!
Alcune delle parole di Pedernera indirizzate al Presidente del River e agli addetti ai lavori. Javier Pedro Saviola Fernández, questo il suo nome completo. In quel caldo di primavera australe del 1981, il sole argentino, baciava l’ennesimo talento del calcio. Un giovane pronto a prendersi il mondo e toccare per mano un sogno impalpabile.
Si presenta al River Plate con una carta d’identità inferiore ai 10 anni. Pedernera è fermamente convinto del suo talento. Alcuni sono un po’ scettici, ma poi si ricredono vedendo un paio di allenamenti. Non si muove come i ragazzi della sua età, ha qualcosa in più.
È minuto, sgattaiola velocemente agli avversari e segna. Questo ragazzo segna. E il tempo è galantuomo, si sa, e, dopo sei anni con le giovanili, Ramon Diaz, allenatore della prima squadra, lo chiama e gli dice di entrare.

El conejo

In Argentina, il soprannome te lo danno. Quasi sempre. E se ti danno un soprannome, significa che il “nome” già ce l’hai. È già circolato per le calles del quartiere.
Faccia pulita, senza nemmeno un pelo sparso sul viso. Fisico asciutto, adolescenziale. Esile, per questo saltava gli avversari, non lo prendevano mai. Piccolo, non più alto di un metro e settanta. Forse anche un centimetro di meno. Di certo non potevano chiamarlo tanque. Ma quei denti un pochino sporgenti e nemmeno troppo piccoli, stendevano il tappeto rosso ai soprannomisti: sarà el conejo.
18 ottobre 1998. River Plate contro Gymnasia y Esgrima de Jujuy. Urge un cambio. Ramon Diaz si gira e vede Saviola ansioso di essere soltanto in panchina. Lo chiama.
Ho guardato prima a destra, poi a sinistra e mi sono reso conto di essere l’unico attaccante in panchina. Ho iniziato a tremare.
Il destino gli aveva dato una spinta.

El primero gol

Dalla Sexta División – per giocatori che non hanno compiuto più di 17 anni entro il 31 dicembre dell’anno rispettivo – di Nuñez, ad uno dei posti sacri più caldi, ambiti e voluti di tutto il Sudamerica. Calca il manto de “El Monumental”, che dal 1986 è diventato “Estadio Monumental Antonio Vespucio Liberti”, intitolato allo storico Presidente.

Esce Castillo per infortunio ed entra Saviola, ancora spaesato della possibilità concessagli. Marcelo Escudero, numero 8 del River, compie un lancio lungo, volto ad attraversare tutto il centrocampo. Davanti c’è Juan Pablo Ángel, uno che, insieme a Ortega, Aimar e el conejo, comporrà il quartetto dei “fantastici quattro”. Stop di petto, circondato da due difensori. Uno di loro si dimentica di Saviolita. Ángel lo serve, Saviola riceve. Scatto e cambio di velocità. Destro a incrociare e il portiere viene battuto.
Bacia la maglia. Poi si butta a terra, incredulo. El conejo ringrazia il destino.

El primero campionato

Il campionato Apertura del ’99 fu la certezza ad ogni dubbio covato dagli scettici. E, all’epoca, ce n’erano pochi. Erano più benedizioni che diffidenze. È una lotta a tre: oltre a River e Boca si aggiungono Las Canallas, il Rosario Central tanto per intenderci.
I Millionarios, alla fine, trionfano con un punto di vantaggio e decisivo fu lo scontro diretto al Gigante de Arroyito stadio che ospitava – e ospita - le partite casalinghe della “terza incomoda”. Una partita straordinaria, con el Kily González – conosciuto all’Inter come Speedy González – che porta in vantaggio la banda del Rosario, ma poi, Saviola prima e Pablo Aimar dopo, completano la rimonta.
È un anno catartico: si aggiudica el primero campeonato de Apertura, mette a referto 15 gol in 19 partite giocate e, il giornale El Clarin, lo premia come “giocatore rivelazione dell’anno”.
Proprio così, el conejo, fu proprio una rivelazione.

Saviola esplode definitivamente

Gli anni successivi non solo confermano il suo talento, ma i numeri che realizza lo certificano come astro nascente del calcio sudamericano. Anzi di più. Europeo. O forse mondiale.
Nella stagione successiva sigla 19 centri in 33 match e il secondo numero dimostra la titolarità più che mai acquisita. Quel balzo in avanti che ha impresso con le sue prestazioni. Ma non si ferma e mette il piede sull’acceleratore, rischiando di mandare il motore su di giri. Terza stagione al River Plate, e el conejo rilancia a 20 gol. Folle per la sua età. Il Barcellona bussa alla porta: in casa qualcuno c’era, ma nessuno ha risposto.
Il ragazzo impaurito e con la faccia genuina e pulita era diventato grande. Non più timoroso, perché ad avere inquietudini erano le difese e tutti gli allenatori che si inventavano stratagemmi tattici per fermarlo. Saviola era esploso.

Il Mondiale U-20

Il palcoscenico internazionale. La vetrina per mettersi alla prova. Anche se da dimostrare c’era ben poco.
17 giugno 2001. Mentre la Roma festeggia il terzo scudetto, Saviola è pronto a prendersi il Mondiale. Non è con la Nazionale maggiore, anche se l’anno prima già ci aveva esordito.
Undici gol messi iscritti all’albo. l’Argentina passa il girone vincendo tutte e tre le partite: sette gol rifilati all’Egitto, tre siglati Saviola; cinque gol infilati alla Giamaica, due firmati Saviola; tre infilzati alla Francia ai quarti, tutti targati da el conejo; altri cinque gol spediti al Paraguay e doppietta con autore el conejo. Finale contro il Ghana al Estadio José Amalfitani, con circa 32.000 spettatori. 3-0. Tra questi, un gol di Saviola.
Marcatore con undici reti, piazzatosi davanti a Cissé e ad un certo Adriano fermi a 6. Scarpa e pallone d’oro (sarebbe il miglior giocatore del torneo).
Saviola era figlio del talento.

Da el conejo al el pibito

Pedernera ebbe ragione. Peccato che non lo vide il giorno del suo esordio, perché tre anni prima, salutò il mondo dei comuni mortali. L’intuizione non fu sprovveduta, perché Saviola realizzerà numeri stratosferici negli anni avvenire dalla prima volta che ha indossato la 27.
Diventerà el pibito, che stava per “apprendista del Pibe”. Perché proprio lui, el Pibe de oro, un giorno disse:
Lo guardo giocare e mi viene la pelle d’oca. Ha la qualità di un trequartista e sa segnare come Van Basten. Per lui è facilissimo: guarda la porta e con l’interno del piede la mette il più lontano possibile dal portiere. È un fenomeno, spero solo abbia più fortuna di me… e io ne ho avuta abbastanza.
E se a dirlo fu uno come lui, come si poteva non dargli fiducia. Anche Diego ebbe ragione, ma la fortuna, o meglio, il tempismo, si spense esattamente dopo il Mondiale.

L’uomo giusto al momento sbagliato

Una lettera, quella inviata da Saviola ai principali quotidiani nazionali. Poche parole, tanti ringraziamenti e una motivazione legata alla salute del papà. L’argentino chiede di essere ceduto e il Barcellona si fa avanti. Se in passato c’era stata opposizione per la sua cessione, adesso, non c’era più niente da fare. La volontà era di Javier.
Il cartellino vale 70 miliardi di lire e, in quell’anno, Saviola sbarcherà in Spagna. Maradona lo eleggerà suo erede – el pibido per l’appunto – ma anche Platini lo definì “micidiale”.
Avevo 19 anni. C’erano tantissimi tifosi all’aeroporto, non posso dimenticare quel momento. Avevano tantissime aspettative su di me […]
Eppure, sarebbe bastato aspettare qualche anno. Uno, o due al massimo e Saviola, oggi, avrebbe tutta un’altra storia. Ma come ho scritto sopra, anche qui, siamo impigliati nelle ipotesi. E purtroppo, con i “se” e con i “ma”, non si può cambiare il tempo.

Barcellona, sei stata il mio sogno più grande

Eh già, non si può raccontare il contrario. In tre anni sigilla 44 centri in Liga e 60 in tutte le competizioni. E non ha nemmeno mai giocato tante partite da titolare. Saviola segnava, e come se lo faceva. Ma ritorniamo allo stesso punto di prima e lo facciamo come quando il cane continua a mordersi la coda.
Il tempismo non c’è stato. Ci può essere chimica, ma più di questa, nella vita, serve il tempismo. Il momento giusto. Non basta essere l’uomo azzeccato. Serve l’attimo, quell’istante che ti può spalancare il portone di una vita. Come quando Diaz lo mandò in campo. Solo che poi la storia non si ripeté.
El conejo non fa male, ma verrà comunque rammentato come un giocatore marginale all’interno di una squadra perdente.

Ci piace sognare

Le sue doti non le ha mai perse nemmeno quando è sbarcato in Spagna. Mai. Le ha sempre conservate. Ha dimostrato tutte le volte la sua elettricità in campo, dribblando e sgattaiolando come un ossesso fra gli avversari.
E ci piace sognare, immaginare quello che sarebbe stato el conejo con mostri sacri come Eto’o, Messi, Ronaldinho…anzi, quando Saviola se ne va, viene rimpiazzato da un altro “dentone”, che è proprio l’ultimo che ho citato. Il destino è beffardo a volte. Eppure, Saviola, sarebbe stato perfetto. Sarebbe stata la punta ideale con quei giocatori, anche con lo stesso Guardiola.
E dopo le brevi esperienze – andate male – con Monaco e Siviglia (con cui vince la Coppa UEFA), anche quando ritorna, non c’è più bisogno di lui. Il Barcellona non ha più l’idea di avere Saviola in squadra. Giocherà qualche partita, segnerà, ma solo perché c’era scritto sul contratto.

L’amico Xavi e l’acqua in mezzo al deserto

Saviola è stato sempre un tipo introverso. Bello da vedere in campo, gioioso quando esultava, ma nello spogliatoio non si è mai comportato da leader. Lo affermerà anche lui, infatti, lo riconoscerà come un difetto, e presume che questo sia stata un’opacità che lo ha sempre adombrato in carriera.
Ma qualcuno si accorse di lui. Un certo Xavi, già da qualche anno in prima squadra. Gli è stato vicino, parlavano e scherzavano spesso. Comprendeva il suo stato d’animo e le sue preoccupazioni e non lo ha mai lasciato solo.

E poi, l’aneddoto:
In uno dei miei primi allenamenti al Barça ho iniziato a parlare con Carlos Rexach. Mi disse che c’era un ragazzo argentino e che se avessi avuto tempo per andare a trovarlo non me ne sarei pentito. Quando sono andato a vederlo era Leo…e sono rimasto sbalordito.
Leo, era l’acqua in mezzo al deserto.

“Il tradimento” al Real

Il contratto con il Barcellona scade. Su di lui giravano voci – non confermate – su una vita abbastanza eccessiva e che influiva sulle prestazioni. Saviola ebbe anche un grave infortunio al ginocchio, che, di certo, non è stato gradevole per la sua continuità. E forse, i Merengues, sono l’ultima occasione per dimostrare quanto valeva.
Ma niente. In due anni gioca meno del solo anno di ritorno al Barcellona. Diciassette partite in Liga e quattro gol. Al trasferimento lo accusarono di tradimento, ma el conejo, si difese, dribblando i tifosi e la stampa, e affermando che per lui fa parte della carriera, della propria professione.
Lì, però, visse il peggior momento della sua vita. Non c’era nessuno a sostenerlo. E se nella squadra rivale c’era Xavi, qui erano presenti solo i fantasmi e bei ricordi della fine degli anni ’90. Ma di ricordi non si vive.

Benfica, il club che più lo ha colpito

Saviola non ce la fa a dimenticare il passato. Perché quando deve guardare al futuro, non riesce a dimenticarsi ciò che è già accaduto. Vive per quello. Vola in Portogallo e sceglie il Benfica, il club che più lo ha colpito a livello istituzionale ed europeo. Lì, giocava un suo ex compagno, più di un semplice collega: Pablo Aimar.
Trovò una dimensione che tanto ricercava. Forse perché era suggellata dai bei ricordi. Un campionato con gli Encarnados e tre coppe di lega. Ma la dimensione la trovò solo il primo anno, vincendo il titolo e il trofeo come miglior giocatore, con tanto di 18 gol in 26 match complessive.
Poi, il secondo anno, lo fa a singhiozzo per via degli infortuni e di qualche evento legato alla sua vita personale (guida in stato di ebbrezza). Il terzo anno, poi, ripiomba nella malinconia. Di Saviola era rimasto solo il nome.

Málaga, Olympiakos e Verona

Un ritorno in Spagna, Málaga, perché in patria era ancora troppo presto. Perché se c’è ancora qualcuno che crede in te, allora è doveroso ripagarlo con qualcosa. Solo i ringraziamenti non bastano. E dopo aver incrociato un giovane Modric in Portogallo, qui scambia assist, gol – 7 in 19 partite – e passaggi con Isco. Sesto posto in campionato e ottavi di Champions raggiunti.
Poi un anno in Grecia, all’Olympiakos, dove realizza 14 gol in 35 partite complessive, ma 12 in 25 di campionato. Infine in Italia, a Verona. Con i gialloblu, due gol, uno in campionato e un altro in coppa Italia. Entrambi su rigore ma allo stesso tempo decisivi.
Ovunque è andato, el conejo, ha sempre segnato, dando dimostrazione che il vizio di quel che era all’epoca il 27 di River, non è mai tramontato. Il gol no, ma Saviola ormai sì. E forse, proprio da Barcellona.

Dove tutto è iniziato

Marcelo Gallardo, El Muñeco, allenatore del River, decide di affidarsi ai più esperti per cercare di vincere la Copa Libertadores. Un sogno per Saviola, che non si fa pregare due volte. Con lui, anche un’altra vecchia gloria, Lucho González, arrivato al River quando el conejo scorrazzava per i campi blaugrana. Alla fine la Coppa arriva, quella tanto amata, almeno come conclusione di una sfortunata carriera.
Perché Saviola è stato soltanto un'illusione ottica, un giocatore che poteva prendersi il mondo e invece si è ritrovato con un pugno di mosche. Ma a noi piace ricordarlo così. Ci piace chiudere gli occhi e ricordare quel giorno del ’98, quando Castillo è uscito per infortunio e l’unico attaccante a disposizione era Saviolita. Che ha ricevuto quel pallone da Ángel e, con il destro, ha fatto sognare, oltre che lui, un popolo intero. Ecco, stoppiamo quel momento e fermiamoci lì.