Gattuso a fine partita in tre frasi ha dato accademica lezione di sport. “Chi fa questo lavoro deve avere rispetto, serve appartenenza, spirito di gruppo, e se lavori bene il Dio del calcio ti premia”.
Appartenenza, spirito, voglia. Tre vocaboli che il Napoli targato Gattuso si è tatuato addosso con efficacia. Insigne recupera fino alla sua area di rigore, i giocatori subentrati hanno sfiorato il gol più volte e il Napoli è stato tosto e compatto, contro l’Inter e in finale. La Juve il contrario. Evanescente, poco cattiva, tutt’altro che convinta.
La mia analisi parte da questo, lungi da me approfondire il lato tecnico. Gattuso ha preso un Napoli sbiadito, e non solo per colpa di Ancelotti, ma anche di tanti spifferi societari che hanno messo in piazza le multe ai calciatori, i probabili mancati rinnovi di alcuni senatori, e tanti discorsi che hanno gonfiato una crisi risolta con il cambio in panchina, tradotto nel successo in Coppa. E la Juve? Oggi i bianconeri hanno avuto un approccio esattamente inverso a quello dei partenopei. Zero tiri, nessuna voglia di mettersi in mostra, poca, pochissima fame. Ecco cosa intendo quando scrivo rifondare. Una squadra che mette in campo nello stesso undici Ronaldo, Dybala, Douglas Costa e De Ligt, e viene salvata da un quarantunenne che ha la voglia di un bambino, qualche dubbio lo solleva. Buffon ha fatto il supereroe, dall’inizio alla fine, senza mai perdere la concentrazione, Dybala ci ha provato, il resto noia. Poca fame e poca grinta, e dopo 3 mesi di stop fisicamente può starci, ma dal punto di vista della voglia assolutamente no. Viene quasi da chiedersi se quella essenza bianconera che era il marchio di fabbrica di Allegri, sia ancora nell’aria a Vinovo. La Juve ha vinto tanto, e non sarà la Coppa Italia ai tempi del Covid a turbare i sogni del club e di tanti tifosi, ma il futuro è da programmare nel presente. Danilo non è mai sembrato un grande affare, Pjanic sembra già con la testa altrove, Douglas Costa è capace di essere un fenomeno e poi di spegnersi dopo poco, e investimenti milionari come Rabiot, Bernardeschi e Ramsey, non sembrano all’altezza del compito. Torniamo indietro di un anno. Mario Mandzukic non era solo un attaccante di spessore mondiale, ma era un trascinatore, un idolo per i tifosi. La sua voglia di Juve lo portava a macinare chilometri di solo sacrificio per sentire il suo nome dagli spalti dello Stadium. Questo è lo spirito di cui si sente la mancanza. Quello che sembra mancare ai bianconeri, incapaci di pungere, di arrivare alle partite importanti con la fame giusta, perfino di arrabbiarsi per un titolo perso.
Contro il Napoli e la Lazio la Juve ha visto due volte gli avversari sfilare in campo con medaglia e coppa, contro il Lione il problema fu l’atteggiamento, e se tre indizi fanno una prova, c’è qualcosa che non va.
Alla Juve servono uomini, prima ancora che nomi. Servono persone in grado di tirare fuori gli attributi quando è il momento giusto. Gente come Gattuso, o come Buffon, uomini prima ancora che calciatori che hanno vinto perché nei momenti caldi hanno dimostrato la loro appartenenza. Ecco la differenza che c’è fra la Juve degli ultimi anni e quella lasciata in dote a Sarri. Agnelli che è il più bianconero di tutti, non resterà a guardare. Ne vedremo delle belle.