Chiedete ad un tifoso romanista quale giorno vorrebbe cancellare dal calendario. La risposta, forse, sarebbe scontata. 26 maggio. Un giorno, lo stesso, due ferite. 26 maggio 2013, 26 maggio 2019. Forse le pagine più brutte e tristi della storia recente giallorossa. Pagine che ti squarciano l'anima e ti segnano dentro. In mezzo a loro, però, ci son stati tanti giorni di luce. La Roma, seppur con la malinconica casella zero alla voce "trofei", è diventata una squadra solida. Fatturati sempre in crescita, rose dall'indiscutibile valore tecnico e una costante presenza nelle coppe europee.

Eppure due giorni fa il popolo romanista era nello sconforto più totale. Uno sconforto forse non spiegabile. O forse sì. Lo si può provare a spiegare con il filo rosso, sottile, a tratti impercettibile, che unisce quelle due pagine nefaste: Franco Baldini.

Ma facciamo un passo indietro. Ottobre 2013. L'AS Roma annuncia che Baldini torna a casa, diventando il nuovo DG della squadra capitolina. James Pallota decide che Franco deve essere il suo braccio destro, continuando così un lavoro interrotto, bruscamente, nel 2005. La mano del dirigente toscano si vide subito. E il primo incarico fu di quelli importanti. Baldini doveva scegliere il primo allenatore della Roma americana. Serviva un tecnico che facesse capire che le intenzioni erano serie, di quelle che possono stravolgere gli equilibri del calcio italiano. C'è chi giura che Baldini andò a Barcellona per convincere Guardiola a sposare il suo progetto, portando a Roma quel calcio spettacolare che aveva conquistato tutti. I sentimenti, però, non bastarono. Pep gli sbatté in faccia il più brutto dei "sono onorato ma, no, grazie". Al tempo stesso però Guardiola gli consigliò di farsi una passeggiata nei campetti vicini a quelli in cui stavano chiacchierando. Là dove si allenava il Barça B. "Luis, Luis può essere il tuo uomo". Baldini si lasciò convincere, consapevole che la sua rivoluzione dovesse passare da un'idea di gioco ben precisa. Il calcio della Roma, per forza di cose, doveva essere un calcio spettacolare, piacevole agli occhi. Una rivoluzione concettuale, forse addirittura culturale, che portasse la Roma ad essere una squadra simpatica a tanti così da incrementare piano piano il suo bacino d'utenza. Requisito imprescindibile per tentare una difficile scalata al calcio che conta.

Ma l'abbiamo detto. Spesso, i sentimenti, non bastano. Baldini si presenta male. Una delle sue prime dichiarazioni da dirigente invitava Totti a liberarsi della sua pigrizia. Non proprio il modo migliore per essere benvoluti agli occhi del tifo giallorosso che, da sempre e per sempre, si immedesima nelle sue bandiere. Eppure Franco toccò e attaccò proprio Francesco, il figlio di Roma. Perché? La risposta è semplice. Il rapporto di Baldini con Roma è sempre stato un rapporto controverso. Un rapporto non da definire banalmente come "amore/odio". Sarebbe ingiusto per lui. Meglio descriverlo come "complessamente bello". Tutta la storia romana di Franco Baldini è complessa. Ama l'ambiente giallorosso ma crede fermamente che quello stesso ambiente sia il principale nemico di sé stesso. Radio, giornali, tifosi. Forse la stessa indole del cittadino romano. Quel cittadino che oggi, più che costruire il regno futuro, si specchia malinconicamente nei fasti dell'impero passato. Si specchia, in maniera "pigra" nella parvenza di un qualcosa, meraviglioso, che c'era ma che non c'è più. Questo è quello che Baldini non sopporta. E allora non esitò un attimo a criticare, pur esaltandone la magnificenza, la figura di Totti. Totti come figlio prediletto dell'Impero.

Da lì in avanti è un tourbillon di sentimenti. Il duo Sabatini-Baldini rivolta la Roma. In due anni cambiano più di 20 giocatori, cambiano anche le guide tecniche. Luis Enrique fallisce. Ma non tanto nei risultati, quanto più nel non esser riuscito a portare a Roma il suo pensiero, il suo credo. Vedersi contestato alle prime sconfitte, vedere i tifosi  insultare quei giocatori che difficilmente stavano cercando di portare un raggio di sole è troppo. Quel modo di pensare non fa per lui. Luis si fa da parte.

Zeman è un'altra scelta idealistica di Franco. Zdenek è un suo amico, abbraccia i suoi stessi ideali. Entrambi fieri oppositori dei poteri forti, entrambi sostenitori dell'idea che il calcio, come prima cosa, dovesse emozionare la gente. Il boemo era l'allenatore perfetto potendo continuare sul solco oramai tracciato del calcio spettacolare. Ma, al tempo stesso, era amato dal tifo. E da Totti. Forse, una sorta di compromesso per Franco. Un compromesso morale. Ma le cose vanno male, malissimo. Zeman, e una squadra costruita male, portano la Roma ad un passo del precipizio. L'Europa sfugge ancora e l'unico appiglio al quale agguantarsi è la finale di Coppa Italia contro la Lazio. La Roma, che già da qualche mese aveva affidato la squadra ad Andreazzoli, ci cade nel burrone. Il 26 Maggio 2013  si scrive forse la peggiore pagina della storia giallorossa (almeno per i tifosi). La Lazio alza quel trofeo dinnanzi ai cugini e il tifoso romanista cade nello sconforto. Contestazioni su contestazioni che coinvolgono tutti, nessuno escluso. 

Franco si fa da parte. Il 5 giugno 2013, una settimana dopo il peggior momento della storia della AS Roma, annuncia di aver rimesso nelle mani di Pallotta l'incarico che l'americano gli aveva affidato speranzoso. Baldini viene etichettato come un coniglio, reo di aver commesso il peggior crimine che un comandante può fare: abbandonare la nave che va a picco. Roma e la Roma non lo rimpiange, anzi, viene usato come valvola di sfogo, come personaggio sul quale incentrare odio e frustrazione per una sconfitta che non passerà mai. Ma Franco non è un coniglio. Franco è va via perché tutte quelle lacrime erano la dimostrazione che l'ambiente romano e romanista non era ancora pronto alla sua rivoluzione. "Perché piangere più del dovuto solo perché il tuo avversario è la Lazio e non la Juve, l'Inter o la Fiorentina? Perché non usare questa sconfitta per compattarsi e far vedere che la Roma è più di un giocatore, più di una partita, più di un trofeo? La Roma è altro". Sarà stato questo il pensiero assillante di Baldini, pensiero che gli fa capire che forse la Città Eterna non lo capirà mai.

Il 19 giugno viene annunciato come nuovo DT del Tottenham. Ancora una volta viene tacciato di essere un traditore. E forse, stavolta, qualche buon motivo c'è. L'incarico dura però poco, solo due stagioni. Tra l'altro neanche degne di nota. Sembra essere l'imbrunire della carriera del dirigente di Reggello. In più di qualche intervista si dice stanco del calcio. Stanco di non esser capito. 

Facciamo un passo avanti ora. 

Gennaio 2016. La Roma annuncia l'esonero di mister Rudi Garcia. Pallotta, preoccupato, sta vedendo disgregarsi ciò che in tre lunghi anni si era faticosamente costruito dopo quel 26 maggio. La squadra non va. Eppure non è più la Roma di Luis Enrique, né tantomeno quella di Zeman. La Roma è una squadra che, passo dopo passo, è cresciuta e può ora annoverare campioni come Salah, Dzeko, Manolas e Pjanic. Eppure la nave sta ancora una volta affondando. La Champions è lontana, addirittura la stessa Europa League sembra un miraggio. Pallotta è disperato, in fin dei conti lui, di calcio, ha sempre ammesso di capirci poco. James è un grande uomo d'affari. "Perché se spendiamo il triplo di altre squadre siamo dietro di loro? Are you serious man?". Vogliamo credere che abbia urlato questo in faccia a Walter Sabatini, quando, in un giorno freddo di gennaio, mise la parola fine al suo rapporto con l'allora direttore sportivo. Lo delegittimò. Pallotta, ferito, prese il telefono, si chiuse in una stanza e si mise a riflettere. E alla fine cedette alla tentazione, chiamò il suo amico Franco. Come un innamorato che chiama la sua ex non sapendo cosa succederà. Gli chiede da chi, secondo lui, si doveva ripartire.

Baldini fa il nome di Luciano Spalletti. Le radio lo sanno, il tifo lo sa. Dietro la nomina del tecnico di Certaldo non ci può essere Pallotta, ne tantomeno Sabatini (che voleva finire la stagione con Garcia per ripartire da Antonio Conte). L'ambiente lo sa, ha deciso Baldini. Il tifo comincia ad insorgere, si chiede "di nuovo lui? Perché?". Franco rimane nell'ombra per mesi, fino a quando, forse anche per le troppe pressioni che si stavano creando, lui e Pallotta svelano quello che oramai è il segreto di pulcinella. 3 luglio 2016, Baldini viene annunciato consulente esterno di James Pallotta. Le polemiche non si placano. Il tifo gli imputa ancora una volta di essere un pavido. Di nascondersi dietro una carica esterna alla società così da non farsi mai vedere, in modo tale da non essere mai oggetto di critiche dirette. Infatti, a Roma, Baldini non si vede da anni. Forse stavolta il tifo ha ragione. 

Baldini va avanti. Sceglie Spalletti per due motivi. Il primo è esser l'ultimo allenatore che ha dimostrato di capirci qualcosa a Roma, vincendo l'ultimo trofeo del club. E il secondo è un motivo subdolo. Spalletti è l'unico allenatore che condivide con lui un pensiero, ovvero che il male della Roma è la Roma stessa. Spalletti lo sa, e sa che nel momento in cui è tornato c'è una figura da limitare per il bene (a detta sua) della Roma. E quella figura è Francesco Totti. Due persone -Spalletti e Baldini- stesso "nemico". Totti. Ma non Totti in quanto tale, ma Francesco in quanto simbolo della decadenza dell'Impero. Roma non è cambiata, Roma si specchia ancora nel simulacro del suo simbolo eterno che a 40 anni non smette di voler issare al cielo lo stendardo con la lupa. Ma dietro quel gladiatore eterno ci sono altri combattenti validi che dovrebbero difendere la legione giallorossa. Spalletti lo dice: "Ne voglio altri dieci come Totti. Lui non basta. Se vogliamo vincere, lui, da solo, non basta", oppure "Finché Totti verrà prima della Roma non andremo da nessuna parte, ci sono altri giocatori di valore. E ce ne vogliono tanti altri". Spalletti lo sa e Baldini è d'accordo. Dietro Totti si nascondono una serie di giocatori di valore che non vogliono prendersi le loro responsabilità fino a quando tutti saranno abbagliati dalla luce di Francesco. 

Baldini sceglie Spalletti proprio per questo. Per cambiare (o provare a cambiare) l'ambiente romano. Fallisce lui  e fallisce Spalletti. Totti smette ma non cambia nulla. L'ambiente è in rivolta, vive male l'abbandono del Capitano, lo prende come una separazione che ne loro ne Francesco voleva. Chi è che lo voleva allora? Lo voleva Franco, ancora una volta. E lo dice. Totti, nel suo libro, riporterà le parole che Baldini gli rivolse dopo il suo ritiro : "Francesco, ti ho fatto smettere io. L'ambiente deve crescere, deve andare oltre la tua figura. Ma il tuo lavoro non è finito qua. Da oggi, come dirigente, dovrai continuare a portare avanti la legione". Forse quelle parole non convinsero appieno il Capitano, che più di una volta ha dichiarato che non voleva smettere di giocare a pallone. Sicuramente non è convinto l'ambiente di Roma che critica, aspramente, le due figure alle quali era attribuibile quel crimine calcistico: Luciano Spalletti e James Pallotta. Nel giorno dell'addio di Totti i fischi sono tutti per loro. I settantamila dell'Olimpico si schierano dalla parte del loro eterno simbolo indossando, metaforicamente, l'elmetto in posizione di sommossa contro il suo presidente e il suo allenatore. Ancora una volta Franco ha fallito.

Forse è stufo. Forse non vuole più entrare nelle dinamiche di Roma. Ma Pallotta ancora una volta gli chiede da dove ripartire. Franco stavolta fa un nome diverso. Fa il nome di Monchi. Perché proprio Monchi? Il dirigente andaluso era, in quel momento, il dirigente più ambito d'Europa, essendo l'artefice dei trionfi di Siviglia. Ed era (è) contraddistinto da un modo di fare calcio ben preciso. Chiede e vuole piena fiducia per poter agire come crede. Del resto i risultati parlano per lui. Franco fa questo nome perché con Monchi, finalmente, potrà distaccarsi dalla Roma, sapendo di lasciarla in ottime mani. Che sia Ramon l'uomo giusto per completare quella rivoluzione culturale che Roma necessita? Baldini ci spera, e Pallotta, ovviamente, lo ascolta. 

Monchi diventa l'uomo chiave di Pallotta, l'uomo che doveva far dimenticare Walter Sabatini. E sembra riuscirci. Nel primo anno sotto la guida del direttore spagnolo la Roma, con Eusebio Di Francesco, si qualifica in Champions agevolmente, e arriva in semifinale della massima competizione europea. Finalmente sembra che la Roma sia pronta a diventare un qualcosa di diverso. Sembra sia pronta a fare quel passo in avanti che da anni vuole ma non riesce a fare. L'ambiente sembra maturo. Totti oramai è "banalmente" un dirigente, i tifosi accettano più serenamente l'idea di dover salutare giocatori ai quali si erano affezionati per esigenze di bilancio. Consapevoli che la squadra, in ogni caso, era, anno dopo anno, sempre più forte.

Facciamo un altro passo in avanti

Qualcosa va storto. La rivoluzione è solo apparente. Le scelte sbagliate del duo Di Francesco-Monchi condannano la Roma. Questa ultima stagione si rivela nefasta, e l'ambiente insorge nuovamente. Pallotta s'interroga ancora una volta sul perché la sua creatura non diventasse mai una bella principessa. Interroga se stesso e interroga il suo unico, fedele, amico. Prende il telefono e chiama ancora una volta Franco. Franco ascolta, pensa, e dice la sua. Dice sempre la stessa cosa. "Roma si rispecchia troppo nella sua storia, non c'è nulla da fare". O meglio, qualcosa da fare c'è. Baldini fa riflettere Pallotta e forse gli fa notare che per tanti anni ha speso più di squadre che a fine anno erano costantemente davanti alla Roma. Magari gli fa anche notare che tanti giocatori, una volta andati via da Roma, erano riusciti a fare un passo in avanti nelle loro carriere. Il dito, ancora una volta, viene puntato contro l'ambiente. La domanda di Pallotta è sempre la stessa. "Come riparto?"

26 maggio 2019. Roma lascia andare un altro suo simbolo, l'altro grande vessillo del suo impero. Daniele De Rossi, per l'ultima volta, indossa la maglia della Roma. E anche stavolta non per volere del giocatore, bensì per via di una scelta societaria. Daniele come Francesco. Ancora una volta il popolo giallorosso si trova a versare tante lacrime per un addio per il quale non si reputa pronto. O che quantomeno non vuole. Sembra un deja-vu. Come il 26 maggio 2013 o come il 28 maggio 2017, il tifo romanista insorge contro la proprietà. Oggetto degli insulti, ancora una volta, Pallotta (e il suo fiero braccio destro). Il romanista non vuole questo. Il romanista vuole Daniele De Rossi ancora con lui, vuole vederlo indossare ancora i gradi di legionario massimo, discendente diretto di Romolo. Ancora una volta vuole specchiarsi nei fasti antichi, non avendo nulla per il quale poter gioire nel presente. 

Ma la via è tracciata. Franco ha deciso. La rivoluzione è ancora possibile. Del resto, c'è andato già vicino dopo l'addio di Totti. Sembrava, la Roma, ad un passo dal diventare grande. Questa volta però, sarà più difficile. Pallotta lo sa. Lo stadio sembra non arrivare mai, la Champions non è stata raggiunta. Non c'è un capitale tecnico forte come quello che doveva fronteggiare l'addio di Totti. Eppure la Roma deve andare avanti. E per farlo si dovrà passare ancora una volta dall'ennesimo anno zero. Via tutti quei giocatori che, come dietro Totti, stavolta forse si stanno nascondendo dietro De Rossi, non prendendosi le proprie responsabilità. Quei giocatori che magari domani son pronti ad andare in altre squadre facendone la loro fortuna. E allora via i senatori. De Rossi era l'emblema per far capire che a Roma si vuole cambiare registro. Dzeko, Manolas e Kolarov forse saranno i prossimi. I giovani, talentuosi, come Pellegrini, Zaniolo e Florenzi dovranno essere il nuovo patrimonio della squadra. Si dovrà ancora una volta stupire il mondo. Perché Roma è e sarà sempre un qualcosa che stupisce tutti. E lo si dovrà fare sempre alla stessa maniera. La via di Franco è sempre quella. Calcio spettacolare, che emozioni, che faccia rimanere incollato alla tv anche coloro che non hanno dentro i colori giallorossi. Ecco che i nomi son quelli di Gasperini, Giampaolo, Bielsa e Fonseca. Non nomi di primo livello. La Roma non può oggi permetterseli (e il no di Conte lo testimonia). Eppure la Roma spende più di tante altre squadre, soprattutto a livello di stipendi. Quindi è necessario che chi ha guadagnato tanto, rendendo meno di quanto dovesse fare, vada via. E arrivi gente che guardandosi allo specchio con addosso la maglia giallorossa rimanga estasiato, stupito dalla grandezza di Roma e dei romanisti.  

Si riparte quindi da un mister dal gioco bello e intenso e che soprattutto sia capace di riportare a Trigoria la cultura del lavoro. Quella cultura che forse negli ultimi anni si è persa. Si ripartirà da un gruppo di giocatori nuovi. Non ci sarà De Rossi. Franco ha deciso così, e ancora una volta Roma non è convinta. L'uomo più contestato, in questo momento, è lui. Sono decine (forse centinaia) gli striscioni esposti in questi giorni in tutto il mondo che lo etichettano come verme, coniglio o ancor peggio "male della Roma". Roma è scettica, e sicuramente ha ragione di esserlo. Ma Franco va dritto per la sua strada. Solo il tempo dirà chi aveva ragione. Sotto sotto spera ancora che la sua rivoluzione culturale non sia fallita. Del resto "nessuna notte è troppo lunga da impedire al sole di sorgere". Neppure sulla Citta Eterna.

E se avesse ragione Franco?