Il 2020 volge al termine (non senza una punta di sollievo) ed è tempo di bilanci. È stato l’annus horribilis, non vi è alcun dubbio, anche per il mondo del calcio. Campionati interrotti, europei rinviati, titoli nazionali assegnati a tavolino (come nel caso francese) o conclusi a luglio inoltrato, la Final Eight della Champions League disputata ad agosto (mese solitamente dedicato alla preparazione della stagione successiva), il fallimento di alcuni club delle serie minori, giocatori positivi, stadi vuoti e tifosi svuotati dalla scomparsa dei loro idoli, Pietro Anastasi, Diego Armando Maradona e Paolo Rossi. Ma il calcio si è sempre rialzato, se pur con qualche inciampo e qualche passo falso, ed è sempre sceso in campo: ci ha tenuto compagnia, ci ha fatto esultare e ci ha fatto arrabbiare, ci ha regalato un po’ di normalità, strappandoci per qualche ora alle prescrizioni astruse dei DPCM e ai battibecchi tra virologi. E anche in un anno così nefasto è riuscito ad insegnarci qualcosa. I FIFA Awards sono già stati assegnati e gli Oscar del Calcio li lascio ai veri esperti. Ma un bilancio voglio stilarlo anch’io, alla mia maniera, ripercorrendo quattro vicende calcistiche, ma prima di tutto umane, che, intrecciandosi all’attualità spesso dolorosa di questo 2020, ci restituiscono esempi di coraggio, forza e coesione.

PSG-BASAKSEHIR: NO AL RAZZISMO. NO TO RACISM è lo slogan della UEFA che da anni promuove con le sue campagne il rispetto e la lotta al razzismo sui campi da calcio. Purtroppo, però, proprio in una competizione europea, la gara Paris Saint Germain-Besaksehir di Champions League dello scorso 8 dicembre, si verifica uno spiacevole episodio di razzismo. Al 13' minuto del primo tempo il quarto uomo viene accusato di aver apostrofato Webo, assistente dell'allenatore dei turchi, con un epiteto razzista, ‘negru’. L’episodio porta prima all’interruzione e poi alla sospensione della gara, rigiocata il giorno successivo con una nuova squadra arbitrale. Il calcio c’è e batte un colpo. La UEFA apre un’inchiesta per fare chiarezza sulla vicenda, ma arriva dal campo il messaggio più forte: di fronte ad un atteggiamento ritenuto inaccettabile, entrambe le squadre decidono di abbandonare il campo in segno di protesta. D’altronde i giocatori del PSG si erano uniti sin da subito alle proteste dei loro avversari. “Se il quarto uomo ha detto quella parola deve andarsene" e "Non giochiamo se resta lui". Queste le parole pronunciate in campo rispettivamente da Mbappé e Neymar, rivolgendosi al direttore di gara. E il giorno successivo, quando si rigioca la partita, prima del fischio di inizio i giocatori del PSG e Basaksehir si inginocchiano alzando il pugno, in segno di solidarietà con la campagna antirazzismo 'BlackLivesMatter'. Perché la lotta al razzismo ha bisogno di slogan sì, ma soprattutto di fatti.

GATTUSO E ILICIC: IL VOLTO UMANO DEL CALCIO. Due uomini di calcio, due beniamini delle rispettive tifoserie, sicuramente due privilegiati, ma altrettanto sicuramente due uomini che hanno pagato un dazio alto a questo 2020. A febbraio Rino Gattuso rende nota la rara malattia della sorella che l’ha costretta ad un ricovero d’urgenza. A giugno, purtroppo, la triste notizia della sua scomparsa a soli 37 anni.  Un paio di settimane dopo Ringhio si prenderà una piccola rivincita, come sa fare lui, sul campo, batterà la Juventus e alzerà al cielo (sì al cielo) il primo trofeo da allenatore del Napoli. Di pochi giorni fa, invece, la rivelazione sulla sua malattia, una miastenia con la quale convive da dieci anni ma che nell’ultimo periodo ha colpito in maniera aggressiva l’occhio destro. Al termine della partita contro il Toro, parlando proprio della sua malattia, non si piange addosso (non è proprio nel suo stile) e anzi lancia un appello ai giovani: «Sono 10 giorni che non sono me stesso e voglio dirlo a tutti i ragazzini che hanno paura quando hanno un qualcosa di strano e non si vedono bene allo specchio: la vita è bella e bisogna affrontarla senza paura, senza nascondersi». E non si è nascosto nemmeno Ilicic, quando ha ammesso la sua depressione e ha deciso di combatterla. Il lockdown e la psicosi legata alla pandemia hanno avuto un effetto ri-traumatizzante sul fantasista neroazzurro, alimentando sintomi depressivi di cui aveva già sofferto in passato. Così ha detto basta per un po’, ha lasciato l’Atalanta e Bergamo, è tornato in Slovenia. Perché ci sono momenti in cui bisogna fermarsi, rifiatare, ricostruire e ricostruirsi. E non vi è nessuna vergogna, anzi. Per poter scacciare i propri demoni bisogna prima di tutto accettarli, guardarli in faccia e dar loro un nome, e solo a quel punto li si può affrontare. Oggi Ilicic ha vinto la sua battaglia contro il nemico invisibile, la depressione, ma non per questo meno pericoloso. A metà ottobre è tornato in campo per difendere i colori di una città che in questo periodo non gli hai mai fatto mancare il suo affetto, e lui li ha subito ripagati a modo suo, a suon di gol e assist.

I RAGAZZI DELL’82: UN’AMICIZIA OLTRE IL 90’. È ancora negli occhi di tutti l’immagine commovente dei ragazzi dell’‘82 che portano in spalla il feretro di Paolo Rossi nel Duomo di Vicenza. Un’amicizia forte, vera, nata per caso, di quei legami che nascono sul posto di lavoro, ma che rimangono nel tempo, immutati. Erano i Mondiali di Spagna, era l’Italia di Bearzot e di De Gasperi, era l’Italia del calcioscommesse e delle Brigate Rosse. L’Italia che si era presentata alla rassegna iridata tra mille critiche e dubbi (soprattutto dei propri connazionali) e che, sovvertendo tutti i pronostici, si era laureata Campione del Mondo. I ragazzi dell’82 furono gli artefici non solo di un trionfo calcistico, ma di un’impresa epica e sociale: la loro vittoria ricordò agli italiani l’importanza della forza del gruppo, del talento, della volontà nel superare l’insormontabile. In quell’estate il tricolore tornò a sventolare per quello che è: simbolo di un popolo che si sentì per qualche settimana unito come non succedeva da anni. E quei ragazzi uniti lo restarono anche quando si spensero i riflettori, anche quando, dopo aver appeso gli scarpini al chiodo, intrapresero strade diverse, ognuno impegnato a inventarsi una propria vita dopo il calcio. Ma quella promessa fatta nell’82, quando erano gli unici a crederci, la mantennero negli anni: insieme, uniti, fino all’ultimo minuto, fino all’ultimo respiro.

Queste le storie e gli uomini che, a mio avviso, si sono guadagnati un posto speciale in questo 2020. Storie e uomini di calcio che infondo raccontano paure, battaglie e valori che sono parte del vissuto di ognuno di noi. In un anno come questo, che ci ha messo tutti a dura prova, sono stati proprio valori come l’amicizia, la solidarietà e la resilienza ad averci tenuto in piedi, a loro ci siamo aggrappati nei momenti difficili e in loro confidiamo anche adesso che ci apprestiamo ad accogliere il nuovo anno.

Chiara Saccone