Oda a Platko
Ni el mar, que frente a ti saltaba sin poder defenderte. Ni la lluvia. Ni el viento, que era el que más rugía. Ni el mar, ni el viento, Platko, rubio Platko de sangre, guardameta en el polvo, pararrayos

Ode a Platko
(Né il mare, che davanti a te saltava senza poterti difendere. Né la pioggia. Né il vento, che era quello che ruggiva di più. Né il mare, né il vento, Platko, Platko biondo di sangue, portiere nella polvere, parafulmini.)
(Rafael Albert, poeta spagnolo.
Ode dedicata a Platko, portiere del Barcellona.
Da La Voz de Cantabria
27 maggio 1928)


Quella mattina del 20 maggio del 1928, allo stadio El Sardinero, di Santander, pioveva che Dio la manda, diremmo oggi non senza un lieve accenno di involontaria blasfemia. L’impianto era situato proprio sulla costa del Mar Cantabrico dove, chiaramente, il clima è notevolmente più fresco e umido che nel resto del Paese. Il mare in questione –  strizziamo l’occhio ai buongustai che ci degnano della loro lettura – è lo stesso dove vengono pescate le rinomate sardine del Mar di Cantabria.
Quel giorno si giocava una partita importante, la finale di Copa del Rey tra Barcellona e Real Sociedad. Tra gli spettatori c’era anche Rafael Alberti, poeta spagnolo. Protagonista di rilievo della Generazione del ’27, un movimento di letterati e artisti spagnoli che si propose alla ribalta culturale attraverso le pagine della Gaceta Literaria. Tra gli altri, parteciparono anche Salvador Dalí e Federico García Lorca. Il poeta andaluso rimase rapito dalle prodezze di Franz Platko, portiere di origine ungherese, dei blaugrana.
Verso la fine del primo tempo, la Real Sociedad imbastì un’azione offensiva che consentì a Cholin, centravanti della squadra basca, di trovarsi a tu per tu con l’estremo difensore catalano. Platko si tuffò letteralmente sui piedi dell’attaccante proprio nel momento in cui caricava il destro per calciare. Ma, al posto del pallone, il piede trovò la testa di Platko.
Cadde a terra con la faccia sanguinante. Ci vollero sei punti di sutura e un vistoso bendaggio. Coraggiosamente tornò in campo e, naturalmente, fu accolto da una commossa ovazione del pubblico. La partita finì 1 a 1. Per assegnare il titolo occorsero altre due partite. Allora i calci di rigore non erano previsti. In caso di parità l’incontro doveva essere ripetuto. La seconda terminò con lo stesso punteggio della prima. Nel terzo match prevalse il Barcellona (3 a 1) e conquistò dunque  il titolo. Alberti esternò in versi la sua ammirazione e inviò la sua Oda a Platko (Ode a Platko n.d.r) alla Voz de Cantabria, che la pubblicò il 27 maggio 1928.

MAS QUE UN CLUB
Mas que un clubPiù di una squadraè il motto che compendia efficacemente l’immagine sofisticata del Barca.Immagine – ha scritto Franklin Foer  nel suo bellissimo libro Come il calcio spiega il mondoche la compagine catalana ha sempre sfoggiato con orgoglio.” Si dice, ad esempio, che i colori sociali -il rosso e il blu- il club li abbia scelti dal tricolore della Rivoluzione Francese.  
Se non corrisponde al vero
ha commentato argutamente Foerla storia ha comunque una sua verosimiglianza spirituale“.

Il Museo del Barça,
che anni fa abbiamo avuto occasione di visitare, ospita quadri di Dalì e di Mirò. Davanti all’ingresso principale vi sono sculture moderne: dal minimalismo di Donald Judd al neofuturismo. Gli antichi giardini sono sotto un tetto che è stato disegnato da un discepolo di Le Corbusier. La storia, come abbiamo visto, nelle due precedenti puntate, ha assegnato un ruolo chiave al Barça nella resistenza alla feroce dittatura militare di Francisco Franco.
Manuel Vazquez Montalban
,
indimenticabile scrittore spagnolo, autore di un libro sui blaugranaIl centravanti è stato assassinato verso sera – ha descritto il club come “lo strumento epico della lotta di una nazione senza uno Stato. Le vittorie del Barcellona erano come quelle di Atene su Sparta.”
L’inventore dell’investigatore Carvalho, figura arguta e fine buongustaio, protagonista di tanti suoi romanzi, ha anche precisato chetifare per il Barça, identificarsi con esso, ha significato anche interpretare un impegno politico. Barcellona ha sempre mantenuto un forte carattere nazionalistico e questo le ha creato intorno una certa aura contestataria. Del resto, uno dei presidenti del Barcellona fu fatto fucilare da Franco. Dopo la guerra civile sia questa squadra che quella del Bilbao hanno rappresentato, per lungo tempo un modo di fare propaganda politica.”

L’ALTRA SPAGNA
Se cercate su un atlante geografico, la Catalogna vi apparirà come ‘schiacciata’ tra i Pirenei e il Mediterraneo. Storicamente invece è considerata la regione più europea della Spagna. Questo perché, nel corso dei secoli, subì l’influenza francese e quindi ha attinto molto al gusto raffinato di Parigi. Inoltre, la lingua catalana è fortemente imparentata con il Provenzale. Un glottologo ci ha spiegato che è un’evoluzione mediterranea del latino.
Nel corso della nostra visita appurammo inoltre che gli abitanti della Catalogna sono ‘persone dotate di uno scaltro buon senso, seny in catalanoSono anche dotati di notevoli capacità artistiche. La Regione, infatti, ha fornito alla Spagna figure come Salvador Dalì, Joan Mirò e Antoni Gaudi (progettò la Sagrada Familia). A chiusura di questo nostro sintetico identikit, che annaspa tra reminiscenze di un indimenticato viaggio e sensazioni legate al fascino di una capitale che ti fa sentire il peso della Storia senza essere ossessionati dalla Storia, riportiamo un aforisma di Carlos Ruiz Zafon, scrittore barcellonese, autore di romanzi come L’ombra del vento, considerato come uno dei più grandi fenomeni letterari di questi ultimi anni.Quando penso a Barcellona la prima immagine che salta alla mia mente è un grande puzzle pieno di colori e forme diverse. Non c'è qualcosa di univoco che rappresenti la capitale catalana. Nell'immaginario collettivo essa è rappresentata dalla Rambla, dall'arte di Gaudí, dalla movida, dal mare della Barceloneta. Poi c'è chi pensa al Parc Güell e chi all'estro dei mille artisti partoriti da questa madre generosa...”.

KUBALA, IL MITO TZIGANO DEI BLAUGRANA
Le struggenti arie del Trovatore di Joan Manuel Serrat si diffondono nella vastità del Camp Nou e fanno vibrare di emozione i cuori della tifoseria blaugrana accorsa numerosa sugli spalti del magnifico stadio di Barcellona per l’homenaje (omaggio in spagnolo ndr) a László Kubala Stecz, che quel 30 agosto 1961 diceva addio al calcio giocato.
Ma chi era Kubala? Diciamo subito che la sua vita avrebbe potuto benissimo ispirare la vena narrativa di John Le Carrè. Ma, come al solito, andiamo con ordine.
Partiamo da un dato che ci aiuterà a inquadrare meglio la figura di questo calciatore e scoprire il grande rilievo che ha avuto nella storia del club catalano.
Nel 2013, in occasione del centenario della fondazione del Barça, la società indice un referendum, riservato ai soci con più di 10 anni d’iscrizione al club, per stabilire chi è stato il miglior attaccante blaugrana di sempre. Il nome di Kubala viene subito dopo Messi e precede, addirittura, Maradona e Cruijff. Kubala è un figlio dell’Est. Nasce infatti a Budapest nell’estate del 1927. Papà è un muratore ungherese di origine slovacca, la mamma, un’operaia, di origini polacche e cecoslovacche. Già a 10 anni lavora in una fabbrica di vettovaglie. Comincia tirare i primi calci al pallone con il Ganz, compagine che milita nella 3a serie ungherese. E’ fatta di ragazzi non ancora ventenni. Erano tempi in cui si  giocava nei cortili, nelle piazze. Luoghi che sono stati le cantere – per dirla come si usa oggi – dove si forgiavano campioni. Oggi, nelle strade, nelle piazze e nei cortili non si gioca più e quando ci capita di vedere all’opera un talento, proviamo la stessa meraviglia o sorpresa di quando scopriamo un quadrifoglio su un prato primaverile... In quelle piazze gioca contro un certo Ferenc Puskas. Suo compagno di scorribande  calcistiche è Jozsef Bozsik, mediano di scuola danubiana che giocherà nell’Honved e nella nazionale magiara.

DAL GANZ ALLA PRO PATRIA  
La Seconda Guerra Mondiale è al suo apice. Il conflitto però non frena la carriera del giovane Laszlo. Un osservatore del Ferencvaros lo aveva notato da qualche tempo e quindi lo porta nella squadra più importante dell’Ungheria. Parte alla grande: 27 goals in meno di 50 partite. La guerra finisce, ma rimangono visibili le macerie materiali e nell’anima quelle morali.La storia del mondo – ha scritto Hegel – non è un terreno sul quale cresce la felicità. In questa storia i periodi di felicità sono pagine bianche.”
Nel 1946, Kubala vuole fuggire dal cupo paesaggio di disperazione e miseria che incombe su Budapest. Scappa in Cecoslovacchia dove  trova un buon ingaggio con lo Slovan Bratislava.
Commette un errore però: non chiede il nulla osta al Ferencvaros che, naturalmente, vive la scelta di Laszlo come un tradimento. Grazie alle origini ceche dei suoi genitori può vestire addirittura la maglia della nazionale, allenata dal ct Daucik che presto diventerà suo suocero. Dopo due anni rientra in Ungheria. Gioca 20 partite con il Vasas, ma, nel frattempo, viene richiamato dall’esercito. Circostanza che prevede il divieto di espatrio. Non resta che la fuga.
Nel 1949, Kubala, a notte fonda, si unisce a un gruppo di profughi diretto a Vienna. Dopo varie peripezie si ricongiunge con i genitori e con loro raggiunge la Svizzera. Vive nell’incubo dell’espatrio.
Ma, in suo aiuto, arriva Peppino Cerana, presidente della Pro Patria di Busto Arsizio. Punta a un duplice scopo. Coniugare l’interesse ad accaparrarsi un giocatore di gran classe con l’umana solidarietà verso una famiglia, che vive un momento difficile in un periodo storicamente drammatico. Ma, l’avventura di Kubala non si fermerà a Busto Arsizio...
Ma, questo ve lo racconteremo nella prossima puntata.

(Segue)

Clicca qui per gli episodi precedenti: 
Due Spagne tra storia, politica e calcio (parte I)​
Due Spagne tra storia, politica e calcio (parte II)