È il 1985, siamo alla metà di un decennio che sta modificando tutto. Ovunque, e in particolar modo nell’allora Jugoslavia. Il Paese non è ancora frazionato nelle singole realtà che lo compongono e in quegli anni la guerra etnica è soltanto un concetto di pura fantascienza. Malgrado l’unitarietà della nazione, qualcosa al suo interno scricchiola. Il maresciallo Tito è morto da 5 anni e all’interno del sistema ogni giorno di più si sta scavando un baratro del quale nessuno si vuole accorgere. Lo sport è un modo per nascondere le crescenti tensioni e per tenere unita una Repubblica socialista che parla fin troppe lingue. Il calcio propone su un terreno di gioco una serie di dualismi che nel tempo non rimarranno soltanto sportivi: Belgrado-Zagabria, Belgrado-Spalato, Belgrado-Sarajevo. Anche dentro la Capitale esiste uno scontro che dura 365 giorni l’anno. Stella Rossa e Partizan dividono la città in due e tutto è motivo di contrapposizione. Ma all’improvviso quelli del Partizan sanno di poter contare su un’arma in più. L’arma si chiama Dragan Mance e questa è la sua storia. Bella e insieme amara.

MANCE, DRAGAN MANCE. Pronto, chi è?” “Buongiorno signor Mance, siamo del Partizan Belgrado”. Quando nel settembre del 1980 il giovane Dragan, 18 anni non ancora compiuti, risponde al telefono, crede che siano i suoi amici mentre gli fanno uno scherzo di cattivo gusto. Sì, di cattivo gusto, perché loro sanno che con lui su certe cose non si gioca. E invece sono veramente quelli del Partizan e vogliono metterlo sotto contratto. Nella vita Dragan non vuole soltanto essere un campione di calcio, vuole vincere tutto con il suo Partizan. Non ha ancora riattaccato la cornetta ed è già partito da Zemun per arrivare in città al più presto. Zemun è il maggior comune della municipalità di Belgrado, un posto in apparenza tranquillo ma che nei decenni successivi vedrà il sorgere e l’affermarsi di uno dei principali clan mafiosi dei Balcani. Basta un breve provino per non aver bisogno d’altro, per gli osservatori il ragazzo ha tutto: classe, visione di gioco, capacità di segnare e far segnare, carattere, ma soprattutto quella spavalderia che può mandare in visibilio i tifosi. Quando nasce un amore, l’amore è subito. Quell’amore fra lui e il pubblico nasce il 22 novembre 1980 quando il ragazzo entra nel secondo tempo di una partita tiratissima contro il Sarajevo. Entra e non uscirà più. Finisce 1-1 ma per qualcuno averlo visto all’opera è già una vittoria.

LA RISPOSTA A UN DESIDERIO. Per i supporter Dragan Mance è la risposta ai loro sogni più proibiti. È di Belgrado, tifa da sempre per il Partizan e ha i numeri tecnici e caratteriali del campione. Non si può volere di più, lui è un desiderio che si è fatto carne. Non è particolarmente alto, ma ha una buona elevazione. Non è aitante ma contrasta l’avversario di turno senza paura. Fa tanti gol, molti dei quali di pregevole fattura. Il campionato jugoslavo, la Prva Liga, ha trovato la sua stella. Certo, i rivali della Stella Rossa ancora sono più forti e vincono di più, specie in quel decennio, ma se prima esisteva un gap tecnico, ora quella differenza è stata annullata. Bisogna soltanto concretizzare la crescita di una squadra costruita intorno al suo zlatni dečko, il ragazzo d’oro. I numeri diranno che, nonostante la giovane età la caratura di quel numero 9 è davvero aurea. In 4 stagioni, Mance realizza 42 gol in 117 partite. Neanche l’allora CT della Nazionale, Todor Veselinovic, può ignorare il giovane Dragan, malgrado l’esistenza di una serie di campioni che la scuola balcanica sta producendo a raffica, proprio in quegli anni. Stanno irrompendo sulla scena i vari Boban, Savicevic, Prosinecki, Stojkovic e Mance non sembra inferiore a nessuno di loro da nessun punto di vista.

ARRIVA LA CONSACRAZIONE. Il Partizan cresce e in pochi anni può giocarsela per il titolo. I rivali della Crvena Zvezda (Stella Rossa in serbocroato) sono avvertiti, ma non soltanto loro. Il 26 giugno 1983, all’ultima giornata di campionato, l’Hajduk Spalato perde in casa dello Sloboda di Tuzla e ai bianconeri di Belgrado basta un pareggio interno con il Velez Mostar per laurearsi campione di Jugoslavia dopo 5 anni di digiuno. Il protagonista assoluto è un campione di 22 anni e mezzo, uno che 3 anni prima non credeva che all’altro capo del telefono ci fossero i vertici della sua squadra del cuore. I numeri dicono abbastanza: 15 gol in 30 presenze dicono che il ragazzo segna, in media, una volta sì e una no. Peraltro, contro difensori avversari che non vanno certo per il sottile, quando si tratta di intimidire qualcuno. L’anno successivo il Partizan disputa la Coppa dei Campioni ma esce agli ottavi di finale e Mance non ha l’occasione di farsi notare dal grande pubblico continentale. Ma è solo questione di tempo, ne sono convinti tutti, anche i pochi osservatori stranieri che dicono di conoscerlo. La stagione 1983-84 è avara di soddisfazioni, soprattutto perché la Stella Rossa si riprende il titolo. Dragan il grande segna solo 8 volte e la squadra non va oltre il secondo posto. Nel frattempo a febbraio del 1984 si svolgono a Sarajevo le Olimpiadi invernali. Sotto una coltre di neve pochi possono immaginare che cosa si stia per agitare. 10 anni dopo quelle stesse piste a cinque cerchi si trasformeranno loro malgrado in cimiteri della guerra etnica. Ma per la città bosniaca quello è un momento d’oro: il Sarajevo è campione di Jugoslavia 1984-85 e il Partizan di Mance non va oltre il terzo posto, un punto sopra i rivali della Stella. Malgrado ciò la squadra si è resa protagonista di un’impresa europea che ha finalmente delineato anche fuori dalla Jugoslavia il profilo di un fuoriclasse in ascesa. I bianconeri di Belgrado si sono qualificati per disputare la Coppa UEFA. L’avventura terminerà anche in questo caso agli ottavi di finale, ma non prima di avere eliminato gli inglesi del Queens’ Park Rangers. La sera del 7 novembre 1984 fa a tutt’oggi parte della storia del club. Quella partita si è fatta epica e spesso l’epica diventa storia. All’andata il QPR ha dilagato, il 6-2 inflitto agli slavi non sembra regalare speranze. Al Partizan servono 4 gol senza subirne. La sera del 7 novembre lo Stadio JNA, quello dell’esercito jugoslavo, è una bolgia. Quasi 60mila tifosi cantano a una voce. Bisogna dare forza ai ragazzi, perché se non si crede nella qualificazione sugli spalti è difficile che ci si possa credere in campo. Mance dà un’occhiata alla cornice di tifo e stabilisce che “ora o mai più”. Dopo 5 minuti ha già segnato staccando di testa a centro area. Quel gol è la sferzata di energia che ci vuole. Il resto è la partita perfetta di chi non vuole mollare. 4-0 serviva, 4-0 sarà. Ma nulla sarebbe stato possibile senza la classe e la grinta del suo uomo di spicco, che però a fine stagione ha un suo cruccio: se può vincere lo scudetto il Sarajevo, allora noi abbiamo l’obbligo di riprenderci quello che è nostro, dice Dragan ai suoi.

IL CALCIO DA’, IL DESTINO TOGLIE. La Prva Liga 1985-86 inizia l’11 agosto 1985, una data impensabile per un campionato come quello italiano. Alla vittoria dei campioni in carica seguono quelle di Partizan e Crvena Zvezda. Dopo la prima giornata sembra una corsa a tre e invece il Sarajevo dovrà mollare presto. Al suo posto si farà sotto un sorprendente Velez Mostar. C’è chi teme che qualche squadrone europeo metterà le mani su Mance ma la dirigenza ha già giocato d’anticipo. In estate il talento di Zemun ha firmato un quadriennale che mette d’accordo tutti. Almeno fino al 1989 l’attaccante vestirà la maglia bianconera, e non certo quella della Juventus o del Newcastle. Il 1 settembre Mance ha un colpo dei suoi. Segna il gol che vale una sudata vittoria interna contro i montenegrini del Buducnost. Nessuno può immaginare che quello sarà l’ultimo gol della sua vita. Martedì 3 settembre 1985 è un martedì di vigilia, il giorno dopo è previsto un turno infrasettimanale. Probabilmente quella mattina Dragan Mance ha fretta, deve correre perché ci sono gli allenamenti e poi la squadra deve partire in trasferta. Non è chiara la dinamica dei fatti, non ci sono testimoni oculari. C’è chi parla di una sbandata in curva dopo avere raggiunto una velocità eccessiva in macchina, chi invece sostiene che abbia cercato di evitare un pedone sbadato. Poco cambia. Il talento, il corpo, la speranza di un intero popolo rimangono stampati contro un palo della periferia di Belgrado. A fine mese Dragan Mance avrebbe compiuto 23 anni. Ora avrà sempre 23 anni. Il tifo del Partizan rimane attonito, perfino quelli della Stella Rossa hanno un moto di solidarietà verso gli avversari. La Jugoslavia di allora perde in un attimo uno dei suoi talenti più cristallini di sempre. Malgrado una perdita incalcolabile sotto ogni profilo, a fine stagione la squadra bianconera di Belgrado vincerà lo scudetto. Di lui resta poco, una via intitolata al suo genio calcistico, qualche prodezza tecnica tratta dai repertori televisivi, il rimpianto di tanta gente. E forse anche l’illusione a posteriori che negli anni 90 il talento di Dragan Mance avrebbe potuto portare un soffio di buon senso e di coesione generale in una terra inquieta per definizione. Un aspetto, quest’ultimo, sul quale mancherà la controprova. Mancherà per sempre.

Diego Mariottini