Minuto 120. Calcio di punizione. Rincorsa. Più lunga del solito, probabilmente. Sembra coprire un’eternità. Ma poi la palla si alza. Si avvicina alla barriera. La infilza. Potente. Inarrestabile. Perfetta parabola. La sfera di gioco sembra essere avvolta in un medium spazio-temporale a cui nulla può opporsi. Il terrore negli occhi dell’estremo difensore avversario. E poi il boato. Non quello festoso e assordante dei tifosi, bensì quello secco e crudele del palo. Un suono che per un singolo istante con il suo crudele vuoto riempie senza pietà lo Stadium Australia di Sydney e lacera nel cuore i tifosi della Siria. Omar Al-Soma, che ha calciato quel pallone, rimane impietrito. Lui ce l’ha messa tutta. Si è caricato la sua Nazionale sulle spalle, letteralmente: prima ha trainato quasi da solo la squadra ai play-off, poi questa partita l’ha provata anche a vincere, finalizzando un contropiede al limite del miracolo sportivo. E a quel tiro di sinistro infilato sotto al sette si erano aggrappati milioni di siriani. Quella Nazionale che fino a pochi mesi prima faticava persino a trovare undici uomini si stava confrontando con una realtà enormemente più grande, sulla quale sembrava ormai essere arrivato il momento di mettere mano. Contro l’Australia il miracolo non è avvenuto. Il match finisce 2-1 per i socceroos. Svaniti i sogni, si ritorna alla realtà, per il popolo siriano una non-realtà da ormai troppo tempo. Ed è proprio all'interno di un mondo che noi occidentali molto spesso facciamo finta di non vedere, etichettandolo con arida faciltà come "troppo lontano", che è avvenuto ciò che può essere definito il vero miracolo: il calcio è tornato “solamente” un gioco. Ma andiamo per ordine.

“Qualunque cosa decida di fare, ci saranno dodici milioni di siriani che mi ameranno, e altri dodici che vorranno uccidermi". Queste sono le parole che Firas Al-Khatib a febbraio di quest'anno pronunciò ai microfoni statunitensi di ESPN. Firas, attaccante 34enne, considerato il miglior giocatore siriano di sempre, è originario di Homs, città a maggioranza sunnita, una delle prime a ribellarsi contro il regime di Assad nel 2011. Un legame, quello con la sua città, molto forte. Fin dal 2003, infatti, il calciatore ha impiegato i milioni guadagnati giocando a calcio (principalmente in Kuwait) per la costruzione di una strada che prende il suo nome, su cui si affacciano campi da calcio e una moschea. Dopo i bombardamenti delle forze governative sulla sua città, nel 2012 ha deciso di auto-sospendersi dalla Nazionale. È da questo momento che Firas, da eroe cittadino, diventa simbolo della lotta di un intero popolo - o, perlomeno, di una parte - e la selezione siriana di calcio verrà considerata - invece - "baluardo di Assad". “Che Dio ti benedica, Abu Hamza (soprannome affettuoso significante "padre di Hamza", uno dei figli del calciatore, NdR)!" si sente esclamare dalla folla presente all’annuncio. Dopo cinque anni cambia tutto, tranne la guerra. Il conflitto è anzi impazzato in modo terribile, le vittime accertate si aggirano sui 500.000 civili, di cui il 40% circa sono bambini. In questo contesto la federcalcio siriana chiede a Firas Al-Khatib di tornare a indossare la fascia di capitano. E, dunque, solo ora ben si comprendono le dichiarazioni di febbraio. "È il momento più difficile della mia vita" prosegue a raccontare: "Non voglio tornare perché gioco in Nazionale o per supportare o meno il governo. Voglio tornarci come un normale cittadino. Voglio tornare per vedere la mia famiglia dopo cinque anni. Voglio tornare per far sì che le persone possano vedere qualcos'altro in TV, oltre alla guerra". Alla fine il capitano è tornato. Ma adesso il regime opprime ancor di più. E diminuisce terribilmente la possibilità di immaginarsi un futuro al di sopra del disumano. Pesano, poi, i meschini interessi internazionali in terra medio-orientale (non pochi, a tal proposito, hanno considerato l'accesso della Siria alle qualificazioni come qualcosa di collegato, in qualche modo, al favore della Russia, Paese ospitante dei prossimi Mondiali). Come sono orribili "macigni" i trentotto calciatori militanti nelle due principali divisioni calcistiche siriane e uccisi "in circostanze misteriose" (oltre ai tredici ancora scomparsi). Tra questi c’era anche Jihad Qassab, roccioso difensore della selezione siriana, di cui fu anche capitano negli anni '90. Egli viene imprigionato nel 2014, "colpevole" soltanto di essere vicino all’ambiente dei ribelli. Non trapelano notizie fino all’ottobre del 2016, quando diviene certa la sua uccisione. "Se Jihad fosse vissuto in un altro Paese, sarebbe stato onorato e premiato per la sua grande carriera. In Siria, sotto Assad, viene incarcerato e torturato" dichiara a ESPN Mohameed Hameed, uno dei migliori amici di Qassab. 

Difficile dimenticare, anche per un solo istante. Ma forse, durante questo torneo di qualificazione mondiale, il calcio è riuscito a fare ciò che gli riesce meglio: unire. La notte del 5 settembre, dopo il pareggio con l'Iran per 2-2, fondamentale per la qualificazione della Siria ai play-off, le strade di Damasco straripano letteralmente di tifosi. Niente divisioni. Niente Assad. Niente guerra. Niente terrorismo. Solo passione. Per una notte. È qui che sta il vero miracolo. E la sconfitta con l'Australia deve far tornare a casa i giocatori siriani con la consapevolezza di aver svolto un insperato compito. "Siamo tutti figli della Siria, dopotutto" dichiara il centrocampista Mohamad. Sono davvero finiti i sogni a cui si accennava prima? Di certo il calcio ha fatto la sua parte. Chi coglierà il suo tanto semplice quanto rivoluzionario invito?