Ricordi. Ora le nostre case sono riscaldate. Tutto è cambiato e diciamo che cambiano le stagioni. Abituati al freddo delle nostre stanze potevamo dire per l'inizio della primavera, quando il freddo era meno fuori che in casa, chi non ha scarpe vada scalzo. Scalzi andavano in giugno specie i contadini. In marzo uscivano di casa i vecchietti e molte persone e i ragazzi a riscaldarsi a solatìo. Rivedo in questa situazione tutte queste persone in piazza del Principe Umberto, dove ora sono le poste e la pubblica assistenza. Il Principe del Piemonte, Umberto, era stato all'inaugurazione del monumento ai Caduti in piazza del comune e lo ricordo sulla macchina scoperta con accanto il Potestà Umberto Pepi. I vecchi e le donne si scaldavano al solicello, noi ragazzi giocavamo con i giochi dei nostri tempi: la trottola, a rivoltino, col cerchio, con le palline e con il ci-bé, finché non arrivava la guardia comunale, l'uomo più detestato da noi ragazzi. Non ci riconosceva il più sacrosanto diritto: quello di giocare.

Quando si vedeva con un racca-racca scappavamo. Appena buio, tornavamo in casa. La nebbia investe il paese; il vento che viene da Figline porta la pioggia, quello da Vallombrosa, tanto freddo.  In casa, la stanza principale è la cucina. Il centro della vita è il focolare sul camino e, intorno a esso, si svolge tutta la vita. Come i tempi sono cambiati! Ora al posto del camino abbiamo la televisione... La mattina la mamma si alza per prima, mette sul fuoco qualche ramo di scopa e qualche pezzo di legno secco. Alla catena del camino attacca il paiolo per l'acqua calda. Quasi sempre per accendere, in mancanza di cartacce, toglie dal saccone qualche foglia di granoturco, per fare il fuoco. Tutti finiamo di vestirci in cucina e nella bacinella ci laviamo con un po' d'acqua calda e partiamo per la scuola con i nostri zoccoli. La mamma e le sorelle maggiori fanno le faccende, mettono il fuoco sulla brace del caldano che servirà per riscaldarle quando, sedute, rattopperanno i panni, faranno la calza e le più giovani il centrino. Sventolano al fornello per fare il caffè in quella pentola piena di fondi. In inverno fa presto buio. Bisogna preoccuparsi che in casa ci siano le mezzine piene; non si sa mai che cosa potrebbe capitare durante la notte. Ci riscaldiamo tutti sul canto del fuoco, mangiamo qualche bruciata e, dopo una frugale cena, a letto. Bisogna levare dalla camera il trabiccolo con il fuoco. L'orologio suona le otto. Questa legna che arde e ci rende lieti per la fiamma da dove viene? Comprarla non potevamo, allora la scrivevamo sul "libretto". Il pane, l'olio, il vino, i fagioli, le acciughe, lo zucchero, la cicoria per il caffè potevamo comprarle e segnarle alla cooperativa da Faustino, la cooperativa dei preti o a quella di Sopra. Il libretto non era quello degli assegni, ma dei debiti. E se non c'era lavoro per gli uomini, specie durante l'inverno, difficilmente si saldava il conto mensile. Si andava avanti a forza di acconti e di tante brutte figure. Ecco come veniva nelle nostre case la legna. 

La mattina presto, fra quella nebbia e il freddo che investe Rignano, alcune donne uscivano di casa: con una pezzola nera in testa, col segolo e una corda, andavano nel bosco. Camminavano fino alla Marnia, verso Torrammonte, nel bosco del prete. Le donne conoscevano questi luoghi come le strade del paese. Tagliavano le scope, prendevano qualche pezzo di legno secco da qualche catasta, tagliavano qualche querciolo e poi ripartivano. Il nemico di tutte era il Guardia. Ora non ci sono più le persone che puliscono il sottobosco e i boschi bruciano. Scendevano dalla Marnia con fastelli enormi e, come tartarughe, si vedeva la testa e poi l'enorme fastello. La prima sosta era la Pistoiese dove c'erano due enormi querci e poi, dopo, altre piccole soste, verso il Vannelli. Alle dieci erano a casa. Questa legna serviva per cuocere il pane al forno sopra Lisandro, altra per riscaldare la casa, alcune la vendevano e ci compravano il lesso. Bevevano un bel bicchiere di vino e si riposavano. Quando in collegio, un giorno, fu domandato a un mio compagno cos'era un mistero, egli, sorridendo disse: "La polpetta in collegio". Di fuori sempre uguale, ma di cosa fosse fatta e di cosa ci fosse dentro era un mistero. Così, a seconda delle stagioni, cosa ci fosse dentro quella fastella: fagiolini, fichi, uva, mele, pere e qualcuno asseriva che vi era anche qualche pollo. L'estate, assetate, erano costrette a bere a qualche torrente e ripetevano quei versetti che ci avevano insegnato anche a noi: "Acqua, acqua corrente, ci ha bevuto il serpente, ci ha bevuto il mio Dio, ci voglio bere anch'io". Ma il vino era un'altra cosa... Vi rivedo tutte, donne eroiche dei nostri tempi. Mi sfugge qualche nome, ma tutte degne di rispetto, di comprensione e di amore: la Pia di Bughena, la Maria del Borro, la Seggiolaia, la Massurrina, la Panchetta, la Bruna del Massurrino e altre. Ora finalmente si riposano. E se potessero parlarci ci direbbero: "Non brontolate, non vi rammaricate, la Provvidenza a noi non concesse quello che abbondantemente avete voi". Beati i poveri di spirito...

Divagazioni. Vi sono persone e luoghi che restano cari nella nostra memoria e nel nostro ricordo. Per i rignanesi, uno di questi luoghi era la Ragnaia col suo parco e la villa arabesca.  Con orgoglio portavamo amici e parenti, nostri ospiti, a visitarli. La villa si vedeva solo di fuori, perché era sempre chiusa e disabitata. I vecchi proprietari si erano impoveriti e si diceva, che l'avessero comprata dei milanesi. C'erano però diversi giorni dell'anno in cui la Ragnaia diventava nostra proprietà e nostra gioia! Vi era il Lunedì di Pasqua, la prima domenica di luglio, la festa dell'Assunta, il 15 agosto. Ci attirava per il verde dei prati, per il bosco e per gli alberi dritti e per... altri motivi. Saprò, molto dopo, che vi sono le sequoie: albero americano, le più belle d'Italia. Quello che maggiormente attirava era la galleria con la statua della bella Venere: andare e non vederla e accarezzarla, era come andare a Roma e non vedere S. Pietro. A Pasquetta, i compaesani andavano a fare merenda a Sammezzano. Sui verdi prati ruzzolavano le uova sode colorate e poi andavano a vedere, da una finestra a terreno della villa, una gallina d'argento con le uova intorno d'oro. Dalle scale della villa, come in uno scenario meraviglioso, si contemplava il Saltino e tutto il Pratomagno con i paesi sparsi: il Manzoni avrebbe detto "come greggi pascenti". Pochi sapevano della festa del Carmine. La chiesa di S. Maria a Sociana era stata restaurata da Don Pietro, un prete un po' zoppo, ma tanto di cuore. Un bicchiere di buon vino, in quel giorno, non lo negava a nessuno. Sotto il portico della chiesa, vi erano i fiaschi e le damigiane. A Ferragosto, festa dell'Assunta e del... cocomero. Come dimenticare i pollaioli di Troghi che, di notte, passavano sotto le finestre e il suono dei bubboli dei barrocci che portavano a Vallombrosa; polli per essere cotti sullo spiedo e venduti ben croccanti ai numerosi avventori. La strada più corta, a piedi, dicevano i vecchi, era da Donnini. A questa festa ci fui una volta sola e fu un avvenimento storico. In Ragnaia, per quella festa, andavamo tanti e di Rignano e di paesi vicini. Il gelato di Lucchino, la granita, i brigidini di Lamporecchio: che urli! Che berci! Che strilli! Quante coppie romantiche su quei versi prati a ballare e cantare e fare capriole al suono di un organetto. Questo era il nostro ferragosto! Una mattina, in paese, su una automobile scoperta si presenta un uomo con un mantello rosso, con un cappello di piume colorate, non era Toro Seduto, capo degli Indiani del Nord America; si definisce "Il Principe delle Pelli Rosse". La gente entusiasta lo segue. Stringe la mano a tutti, distribuisce sorrisi e denaro. A una persona povera, consegna mille lire! Il principe ha comprato Sammezzano, dice, e la domenica seguente ne avrebbe preso possesso e non invitava tutti in villa.

Arrivò la domenica. Tutto il paese, con in testa la banda, era in villa. Non c'erano le majorette, né si chiamava "La Tarantella". Era intitolata a Puccini, ma, nel paragone, mi sembrava migliore quella antica. Ascoltandola, mi viene in mente un canto casentinese: "La musica di Soci la va in piazza Padella, e suona sempre quella...". I musicisti hanno dei bei vestiti, degni della Fanfara di Napoleone, e le ragazze sembrano farfalle svolazzanti. Quella sera c'erano anche i carabinieri; non ricordo se in alta montura per ricevere e ossequiare il principe, ma certamente per mettere in ordine e disporci in doppia fila, sul prato ad applaudire il principe. Ogni tanto arrivava un avviso: "Sta per arrivare! Tutti in fila" e la musica attaccava una marcia. Falso allarme. E così per diverse volte. La marcia trionfale dell'Aida era riservata per quando il principe sarebbe apparso al balcone. Il tempo passa, ma il principe non arriva. Il sole sta per tramontare, si fa buio. I poveri rignanesi, con le olive nel sacco, i musicisti con il cappello in mano, lo strumento sotto il braccio, tornano nelle case tutti amareggiati. Era un pesce d'aprile fuori tempo! Se nel Valdarno i rignanesi si possono paragonare a rose profumate, gli incisani sono cardi spinosi. Dante Alighieri dice che gli aretini sono botoli ringhiosi, ma non aveva conosciuto gli incisani! Li conobbe un po' il Petrarca, ma per poco. Se vi fosse rimasto più a lungo, la letteratura italiana non avrebbe la poesia gentile, piena di nobili sentimenti e di amore del precursore dell'umanesimo. Nella rivalità paesana, gli abitanti di Incisa dicevano che a Rignano sull'Arno le galline hanno lo "sterzo", perché il paese è tutto in discesa; che una volta avevano voluto spegnere la pescaia, perché avevano preso la schiuma della cascata, e il vapore acqueo per il fuoco, e che i rignanesi morivano tutti in galera perché non avevano la chiesa! Verrà Don Fabbrini e, dopo la bella costruzione della nuova parrocchia, non poterono più dir questo. Dopo la delusione del principe, per diverse sere, quando gli operai scendevano dal treno, gli incisani strillavano e facevano... l'abbaio. I poveri compaesani, quatti quatti, si dileguavano. La prepotenza è stata sempre la loro caratteristica; si diceva, infatti, "Se vai a giocare a Incisa, sia che tu vinca, sia che tu perda, sia che tu pareggi, ne buschi sempre". Anima gentile, non ti curare di loro ma guarda e passa...

L'emozione è il linguaggio attraverso cui si comunica con sincerità, mettendosi a nudo, senza timore di mostrarsi fragili e indifesi, perché la fragilità è la nostra forza, in un mondo trascinato dalla ragione verso la competizione estrema. Quando Albert Einstein incontrò per la prima volta Charlie Chaplin gli disse: "Quello che ammiro in lei è la capacità di farsi capire senza aver mai detto una parola". "E' vero" - rispose Chaplin - "ma lei è più bravo di me perché il mondo la stima pur non capendo niente di tutto quello che ha detto".Una mente tutta logica è, di fatto, come un coltello tutto lama. Fa sanguinare la mano che lo usa. Ecco perché considero, da sempre, il ricordo il tessuto dell'identità.