Tutti vogliono vivere in cima alla montagna, ma la felicità e la crescita si trovano nel cammino per scalarla... 11 Febbraio 1929. Nella vita ci sono dati e fatti che restano scolpiti nella nostra mente. Ogni volta che lo studio della storia ce li ricorda, noi pensiamo a come li vivemmo. Così per me: conciliazione fra lo Stato italiano e la Chiesa. Il 1929 fu un anno che gli anziani ricordano ancora, per i non anziani sarà cronaca paesana. Fu un anno di crisi economica. A quei tempi pochi erano i lavori e saltuari; era aumentata la disoccupazione e quindi la miseria portava via: lo ricordiamo anche come un anno di freddi! L'Arno gelò, e il ghiaccio era così spesso che si poteva attraversare sotto il ponte con un carretto. La bassa temperatura, molte volte sotto lo zero, bruciò gli ulivi e dal prete fu tagliato il bersò di alloro secco nel giardino. L'11 Febbraio fu una giornata invernale delle più rigide. La neve aveva ammantato paese e campagna, tanto che le scuole rimasero chiuse quel giorno! Gli uomini non potevano andare al lavoro. Noi ragazzi tendevamo tagliole e saltaleoni nel borratino per prendere i passerotti affamati. Alcuni stavano nella bottega di Natale a rigirare la puleggia del fuoco per scaldarsi e vedere le tagliole. Con un gruppetto decidemmo di andare al bar da Tito in piazza del Comune. Gli uomini che giocavano non ci vollero e ci cacciarono via. Ora dico che fecero bene! Non era salutare per noi quell'aria appestata di fumo, non avremmo sentito le "giaculatorie" e non sempre tutti rispettavano il cartello "non sputate per terra". Decidemmo di andare a fare a pallate di neve verso la Pieve. Arrivati al muro nuovo vedemmo alla finestra della Canonica una bandiera tricolore e una bianca e gialla. Corriamo dal Proposto per domandare spiegazioni. Buono e calmo nello studio ci dice che quello era un avvenimento storico: la pace fra la Chiesa e lo Stato italiano. Noi ragazzi non sapevamo neppure che erano in guerra, se lo avessimo saputo potevamo, forse, giocare alla guerra fra questi due stati come al mulino si giocava alla guerra fra italiani e austriaci (nessuno voleva fare l'austriaco...).

La bandiera bianca e gialla era la bandiera del Papa. Il Proposto era soddisfatto. Vedeva finita così la lotta anticlericale che aveva tormentato l'Italia per tanto tempo e finite anche tante sue amarezze che gli avevano fatto chiudere il circolo a Pietrone e soppressi gli Scout guidati tanto bene da Grillo. Qui per me la Storia diventa cronaca. Anch'io, come tanti miei compagni, volevo appartenere ai Lupetti. La divisa costava trenta lire. Vendendo pelle di coniglio, ferro e stracci a Polidino avevo fatto qualche soldo, ma la spesa era grande. Ci pensò la mia mamma: andò nel bosco, fece due fastelli di legna. Riuscì a venderli arrivando così alla somma necessaria. Con una circolare Mussolini aveva soppresso l'associazione e così non potei mai indossare la divisa e piansi. Tornai ad essere un agnello! Balilla non fui perché nel '29 andai in Collegio a Empoli. Il Proposto tornò a curarsi dell'Azione Cattolica. Le Adunanze le faceva nelle stanze sopra la cooperativa dei preti. L'associazione si chiamava "Pier Giorgio Frassati". Questo giovane Santo lo aveva conosciuto a Roma nel Settembre del 1921, in occasione del Congresso Nazionale della Gioventù Cattolica Italiana. Vi era andato con i suoi giovani: Dario, Faustino e tanti altri. Quante volte raccontava: "Erano cinquantamila, furono percossi dalle guardie regie e fu loro strappata anche la bandiera italiana, alcuni imprigionati e fra questi Piergiorgio". All'interrogatorio, quando seppero che era figlio dell'Ambasciatore Berlino e volevano liberarlo, egli disse: "Uscirò quando usciranno tutti!". L'11 febbraio ha fatto divagare ma la cronaca, in molte circostanze, è più bella della Storia.

S. Gorgone. Ho letto la vita di S. Giovanni Gualberto e, per la storia, dobbiamo dire che il paesino che noi chiamiamo Sant'Ellero, nell'XI secolo era chiamato S. Ilario. Vi era un potente monastero femminile e la badessa era Itta dei Conti Guidi che da Poppi dominavano tutta la riva destra dell'Arno, fino quasi al mare. La badessa donò a S. Giovanni Gualberto il territorio di Vallombrosa stabilendo che, come segno di gratitudine, il Superiore protempore ogni anno offrisse una libbra di cera e uno di olio al Monastero di S. Ilario per la festa titolare. Ho sentito qualche priore di Sant'Ellero lamentarsi perchè i Vallombrosani si erano dimenticati di questa gratifica. Ma suppliranno a questa dimenticanza i popoli del Vicariato che porteranno a Sant'Ellero la cera. In questo monastero, nella chiesa, vi era un mezzobusto sopra un pozzo: era S. Gorgonio che fu martirizzato nel 302. Dopo la soppressione divenne fattoria, il popolo storpiò il nome di Gorgonio in Gorgone. I nostri buoni contadini, oltre che nella santità, cercavano un utile anche nei Santi. Per chi lavora la terra fondamentale è il sole e l'acqua; questo lo chiedono a Dio per mezzo dei Santi protettori. In alcuni paesi si venera S. Eurosia, S. Cristina, da noi S. Gorgone. Non sono mai riuscito a capire quale fosse la relazione tra questi Santi e l'acqua e il sole. Questa è la realtà del fatto, ad altri l'interpretazione storica e dottrinale. Fatto sta, se pioveva troppo si andava a S. Gorgone a chiedere il sole; se non pioveva a chiedere l'acqua. I vecchi raccontano: "Al ritorno da S. Gorgone per la strada ci prese l'acqua". Il giorno dopo la Pentecoste (la Pasqua di rose) diversi popoli, la Pieve di Rignano, S. Cristoforo, Pitiana, Tosi, si mettevano in processione solenne verso Sant'Ellero. Presto presto si ascoltava la Messa alla Pieve e poi la partenza. Rivedo lo stendardo con la croce rossa per la strada sventolare, poi un numeroso stuolo di donne, le figlie di Maria, con abito bianco e striscia azzurra, gli uomini della Compagnia del Santissimo in cappa bianca. Il Crocifisso, col drappo d'oro, che portava quasi sempre Raus, il renaiolo. Tutti dicevano che era un atto di amore e di riparazione. Non mi domandate di cosa. Dietro veniva il Proposto circondato dai ragazzi; accanto Giovanni, detto il castrino, Camarlengo. Davanti al petto aveva un libro ricoperto di velluto rosso: era il Regolamento della Compagnia. Sul ponte la processione era completa. Suonavano le campane di S. Clemente. Ho letto nella mia vita diverse poesie sulle campane e ho diversi dischi di suono di campane, ma quelle di S. Clemente sono un'altra cosa per me. Hanno scandito le ore e la vita di ogni rignanese. Le campane della Pieve difficilmente si sentivano, in paese...

Ho conosciuto due preti a S. Clemente: Don Abramo, "il pretino", e Don Mario. A dire il vero tutti e due hanno avuto un amore, se la parola non fosse ardita, un amore viscerale per le campane. Al Braccio ci incontravamo e si univano a noi quelli di S. Clemente. Nel mio campanilismo quelli di S. Clemente erano pochi, avevano un piccolo stendardo con croce celeste, non il Crocifisso; un pretino tutta voce e naso. I fascisti, nel naso del pretino, videro quello di Don Sturzo e, al tempo del Partito Popolare, lo purgarono. Alla svoltata tutta la processione è distesa: i mazzieri, Lilli, Italo e il Cecchi: con il loro segno, regolano il movimento; le Litanie e altri canti accompagnavano. Transito per la strada non c'era. Ritornavano i barrocciai da Firenze. Il suono dei bubboli [cit. dialettale: campanacci] scandiva il passo dei muli. L'inseparabile volpino, a tale inconsueto incontro, abbaiava. Il barrocciaio si levava il cappello. Si arriva alla parrocchia di Sant'Ellero. Si fa l'offerta della cera. Ad attenderci il "povero prete di Sant'Ellero" che, con la sua bocca caratteristica, ci sorrideva. Si andava poi in fattoria da S. Gorgone, l'urna della statua era già scoperta; ci aveva pensato il popolo di Pitiana con il piovano. Ero curioso di vedere il mezzobusto. Non ho mai capito perchè la gente dicesse che aveva il cappello di fico. Si posavano il Crocifisso e le cappe. Il Proposto ci faceva la solita raccomandazione. Finalmente liberi fino a mezzogiorno. Le donne e alcuni uomini, lungo la fattoria, tornavano a casa. Noi ragazzi, lungo il tracciato della vecchia ferrovia Sant'Ellero-Saltino, si andava verso Donnini. A destra c'erano dei campi e del bosco. Nel campo facevamo una bella scorpacciata di baccelli, poi si assaliva un ciliegio mezzo maturo e qualche susina più che acerba.

A mezzogiorno eravamo a Sant'Ellero. Il Camarlengo distribuisce i panini ripieni e, per i più grandi, del buon vino. L'occhio vigile del Signor Giovanni non dà spazio per i troppo furbi. Il pensiero corre spontaneo ai nostri buoni parroci che desinano in fattoria ma senza invidia. Le mamme ci hanno lasciato qualche "sordo" per comprarci un buono-duro o un croccante in fiera. Verso le tre incominciamo a prepararci per il ritorno. In Chiesa c'è il canto dei Vespri. Unite la voce stentorea del piovano di S. Cristoforo con quella del priorino di S. Clemente e poi ditemi se quello non era un Vespro cantato e berciato [cit. dialettale: urlato]. Il primo a partire è S. Cristoforo. La voce rombante di Don Ceccherini richiama le pecorelle nel gregge. Le nostre buone donne sono tornate a riprendere la processione. L'ultimo ad andare è Tosi: a loro l'onore di ricoprire il Santo. Nella storia di questa processione Tosi doveva essere arrivato molte volte in ritardo, con il suo santo prete Angiolino che toglieva i diavoli. Ancora oggi, ai ritardatari, si usa dire che "si peggio della processione di Tosi che arriva dopo tre giorni!". E così, in cammino lento lento si faceva la strada del ritorno. La gente si affrettava a tornare a casa. Le donne andavano a preparare a cena per i mariti che tornavano con il treno delle sette e mezzo. Cose di altri tempi. Non voglio sapere come e quando è finito tutto questo. Nel silenzio del mio studio, questa notte, ho rivissuto momenti della mia fanciullezza e questo mi basta.

 

Il Vescovo Ferroni. A Fiesole, la domenica 12 gennaio fu veramente una giornata memorabile! I diocesani e gli amici facevano festa a Don Gastone, ora Mons. Simoni, Vescovo di Prato. Non volevo nè potevo mancare, per troppi motivi. In questa occasione ho incontrato Mons. Fabbrini. La gioia fu grande! Sapevo che tante volte aveva domandato di me. Sospirava il momento di rivedermi. Dopo i convenevoli, la prima cosa che mi disse: "Il 4 febbraio sono cento anni dalla nascita di Mons. Ferroni a Rignano. Quella sera ci sarà il Cardinal Piovanelli. Non manchi". "Farò di tutto per essere presente" - annuì. Trovai anche Don Giovanni che mi ripetè l'invito e mi ricordò di scrivere qualcosa per Comunità, e che voleva la trascrizione del discorso che Mons. Simoni aveva fatto in occasione del mio 50° di Sacerdozio a Rignano. Gli ho spedito la videocassetta; è un uomo sincero e leale, ma in quell'occasione qualche bugia l'ha detta. "La carità, o meglio l'affetto, copre la moltitudine dei peccati" dice S. Paolo... Voglio scrivere qualcosa su Mons. Ferroni: "Mons. Ferroni e Rignano e gli amici preti". Cose semplici di un modesto amico che parla di un grande amico, di un paesano che parla di un paesano che ha amato il suo paese e le sue genti. Ho ripreso in mano il libro "Mons. Ferroni, note autobiografiche". Leggo nella presentazione: "A Rignano, il giorno dei funerali, sul genuflessorio vuoto dove il Vescovo missionario era solito pregare a lungo, fu notato un mazzo di fiori: un gesto quanto mai gentile e indovinato". Pensare che ce lo feci mettere io!". Era là, sotto la cupola a sinistra. Quando veniva a Rignano mattina e sera il Vescovo lo trovavi a pregare in quell'inginocchiatoio. La gente restava meravigliata. La sua missione era ormai di pregare le anime di cui, quantunque lontano, sentiva di essere ancora Padre e Pastore.

Spesso in chiesa vi era l'uffizio per i defunti: 4 o 5 messe dalle 7 alle 9. Mons. Ferroni, detta la sua, in ginocchio le ascoltava tutte. Alle ultime mancava il sagrestano e il vino alle ampolle: le riempiva e la serviva quasi sempre al nostro Don Mario, che ritardava perchè prima portava la Comunione a qualche infermo. Don Boffici, Don Arnetoli, ed io eravamo nel salottino a fare colazione. Un latte di Bistino, un caffe della signora Clotilde, la mamma del Proposto, pane arrostito e biscotti "marie". Molta allegria e commenti ai fatti del giorno. Mons. Fabbrini o andava alla banca, alla posta o a comprare il giornale. Don Mario il "santo", così lo chiamava Don Arnetoli, per il fervore con cui diceva la Messa, arrivava, salutava e poi via come il vento! Don Sergio, solenne come un monumento, lo vedevi tra le nuvole di fumo delle sigarette di Don Arnetoli e il Padre Panchetti (ora non fuma più quelle sigarettacce). Arrivava il Vescovo con un largo sorriso e ci salutava tutti. Don Arnetoli spesso gli diceva: “Lei è un Vescovo martire e santo!". Monsignore rispondeva: "Per essere Santo mancano i miracoli". Su questo argomento aveva una sua dottrina... il Priore di Rota. Finita la prima guerra, il commendatore Pepi, figura di primo piano nella vita del paese, aspettava con una festa paesana il ritorno del figlio dalla guerra. Non arrivò, ma si era ritirato, lui ingegnere, per farsi benedettino nell'Abbazia di Subiaco. Tutti lo abbiamo rivisto a Rignano in occasione dei funerali dei suoi stretti parenti. Anche il nostro Vescovo partecipò. Leggo: "Venne la guerra. Mi presentai al Distretto Militare di Arezzo e fui dichiarato abile... Mi fecero partire per il fronte, aggregato all'Ospedale di campo 0,67... Restai sotto le armi fino al Novembre 1919. "Cantò Messa nel 1920 a Sargiano". Ricordava con piacere i suoi compagni di armi e fra questi il paesano Aristodemo che, malato, volle visitare portandogli i conforti della religione. I missionari che tornavano dalla Cina si fermavano a Rignano. Facevano conferenze, diapositive, entusiasmavano i paesani. Mons. Ferroni, mentre era in Cina, viveva nel cuore e nella memoria di tutti. Per tutti i Frati francescani, sia che venissero dall'Incontro o da Figline, cercatori o predicatori, un passaggio obbligatorio era la casa del Ferroni dove viveva il Dolino (padre) e Celestina, il fratello e l'Ersilia; e poi tanti nipoti... Nel 1932 divenne vescovo, lo gli servì la Messa alla chiesina delle Suore Stimmatine.

Nel 1952 fu arrestato e messo in prigione. Ridotto in fin di vita fu espulso e tornò in Italia. Si fermò a Incisa, nel suo convento. Nessuno potrà dimenticare il suo ritorno al paese! Fu servito il pranzo in casa Ferroni. Una cosa ci chiese: non voleva discorsi. Non parlava mai delle sue sofferenze e della sua prigionia. Noi amici rignanesi andavamo a trovarlo quando non era in paese, nel convento di Incisa. Padre Mancini, suo guardiano, che era stato con lui missionario, aveva ridotto il chiostro a una serra di fiori. "Eccellenza, che bellezza!" "Il mio guardiano: agricola est!..." cioè "è un bravo contadino!", Era ritornato fratino buono e semplice, in mezzo ai suoi confratelli. Per S. Francesco fummo suoi ospiti ad Incisa. Quanta generosità! Venne anche il Concilio Vaticano II. Nel vedere l'elenco dei Frati Francescani Vescovi, con foto, che partecipavano al Concilio, fui orgoglioso nel vedere la foto di Mons. Ferroni, nato a Rignano il 01/02/1892. Cosi scrisse Mons. Bagnoli, Vescovo di Fiesole: "La Provvidenza gli concesse di poter intervenire al Concilio Ecumenico, nei suoi primi tre periodi: e fu giusto premio alla sua fedeltà di confessore della fede. Ma anche nel Concilio rimase uno tra i tanti, schivo da ogni distinzione ed onore, vero servo di Dio. Più di una volta, durante le sedute conciliari, mi veniva fatto di posare gli occhi sopra di lui che mi sedeva quasi di fronte, pensando alle numerose e soprannaturali ricchezze che la grande Assemblea doveva possedere se in mezzo ad essa vi erano uomini come Mons. Ferroni. Egli aveva tanto desiderato di intervenire anche nell'ultimo periodo del Concilio, ma il Signore aveva disposto che egli offrisse invece la sua crocifiggente infermità". Per noi preti il tempo del Concilio fu come per il contadino la primavera piena di fiori nella speranza di buoni frutti. Aspettavamo il nostro Vescovo ma non ci diceva tante cose, però era soddisfatto e, sovente, meravigliato e stupito. Qualche volta i "capitolari" si allontanavano per prendere un caffè. Il luogo lo chiamavano "Bar Jona" con nome biblico. Ho letto proprio oggi sull'Osservatore Romano: (e fa proprio per lui) "Il Vescovo è padre, maestro, educatore, consolatore, amico, consigliere. In una sola parola: Pastore", secondo Paolo VI e, per noi, anche Martire.

Dal Sacro al profano. Non si può scrivere di Rignano, senza parlare di Diletto. Gli hanno voluto bene tutti, nonostante le molestie e diciamo pure la cattiveria di certi scherzi inflittigli. La sua vita era la Fiorentina, guai a chi lo avvicinava quando i viola perdevano. Lo accompagnavano allo stadio spesso. Ti diceva risultati e tabellini con più precisione di Paolo Valenti a "Novantesimo Minuto". Sapeva per chi tenevamo, noi delle altre squadre, e non dimenticava neppure i tuoi trasferimenti, se come a me capitava di lasciare Rignano per altre città. Era capace di espressioni vivacissime. Una per tutte, quella di "serpe acquaiola" per Abbe Lane, una procace soubrette che allietava la TV seriosa degli anni '50, ballando i' "cia cia cia" del marito Xavier Cugat. Sotto le elezioni, diventava nervoso. Lo provocavano apposta. Si vince? Chiedeva di continuo ai DC locali. Solo Otello si preoccupava più di lui: che dici? Ce la facciamo? Aveva una paura blu che vincessero gli altri. Non poteva votare e al bar, in piazza, lo facevano verde, scatenando insulti omerici alle madri di mezzo paese. Io voto, io voto: rispondeva, fra un insulto e un rutto. E infatti la signora Bebe, il giorno delle elezioni, lo faceva andare in casa sua e gli faceva votare una scheda fac-simile, di quelle DC, usate durante la campagna elettorale per "insegnare a votare" ad anziani e infermi, che erano portati ai seggi in taxi, con l'Alterini o il Cherici, pur di non perdere un voto.

 

Filo di Nota. È tutto tremendamente vero. Con alcune eccezioni, che portano ad anni più vicini a oggi e a personaggi attuali, le pagine raccontano Rignano prima e subito dopo l'ultima guerra. Una società che senza essere più contadina, era ancora il portato di una società contadina, dei suoi valori e delle sue tradizioni secolari, così innervate nel cattolicesimo da confondersi con esso e la sua storia. Gente umile, ma forte; povera, ma capace di essere felice; solidale, tollerante, e nonostante le divisioni politiche, vicina alla Chiesa e ai suoi pastori, ai tanti preti della infanzia di molti. No, non erano dei vinti, nè dei trappisti. Sono entrati a forza negli anni successivi, nella società del benessere che aprirono fra mille contraddizioni gli Anni Sessanta, ma come negare che qualcosa abbiamo perso per strada o che qualcosa di molto importante dovremmo tentare di recuperare? Ha scritto Soffici: "Quasi si trattasse di una leggenda o di una favola mitologica, io ripenso agli anni di quella mia infanzia, alle persone, ai luoghi che mi furono familiari, e la mia memoria naviga come in un mare d'oro, Tutto mi pare scolpito e intinto nell'oro, soleggiato, ridentemente colorato, impregnato di freschezza, fiorito come una primavera... L'inverno non lo vedo che raramente, e anche quello mi appare pieno di sole roseo sulla neve candida. E le tristezze? E i mali? E gli sgomenti? E le paure? Nulla. Tutto è scomparso, sommerso in quel lago d'oro. La mia infanzia è il mio Eden...".

 

Grazie alla redazione che ha permesso di aprirmi ai miei sentimenti e portare storie di una famiglia, la mia, ceppo essenziale per tutto quello che mi hanno inculcato ancora prima che insegnato. A scuola, a volte, bisognerebbe "istruire" le origini, per certi aspetti davvero umili, affinché, già da bambini si imparasse educazione e rispetto. Quest'ultimo, del resto, non esiste senza umiltà in sé stessi. In fondo, ho imparato il silenzio da chi parla troppo, la tolleranza dagli intolleranti, la gentilezza dai malvagi; e, per quanto possa sembrare strano, sono grato a questi insegnanti. Il resto è frastuono generico non importante anche se, quando arriva il mio turno, cambiano le regole...