Le Quarantore sono certamente, tra le feste di un popolo, le più importanti. La vita cristiana s'incentra nella predica, nella Messa domenicale e nel canto delle Lodi. Queste tre cose venivano evidenziate in modo solenne nelle Quarantore. 
La storia ci dice che furono istituite come atto di riparazione. Chi le fece sue fu proprio la Compagnia del SS. Sacramento.
Quei bravi e buoni uomini che venivano di bianco-vestiti nei momenti più solenni e significativi della vita cristiana: alla lavanda dei piedi, il giovedì Santo, ai funerali e alle processioni. Tutti arrivavano alla Pieve con quella veste bianca e stirata che odorava di ranno e di sapone e di spigo. Al ritorno erano tutte attorcigliate sotto il braccio.
Tra i fratelli della Compagnia venivano eletti due festaioli. La loro elezione veniva proclamata solennemente in chiesa. Generalmente erano eletti due contadini. Essi facevano il giro della campagna e del paese per raccogliere i "mezzi" per fare la Festa. Ogni buon contadino o dava mezzo staio di grano o una palata. Il vino lo passava la Fattoria del paese e credo che fosse buono. Durante la cena i festaioli passavano casa per casa, in paese, e segnavano l'offerta data. Tutti sanno del cuore generoso per la chiesa! La povertà, di quei tempi, rasentava troppo la miseria. Al buon cuore non corrispondeva né il borsellino né tantomeno il portafoglio. Si dice che mio nonno, con le labbra e non col cuore, abbia detto ai festaioli: "Quando io faccio le feste, ho anche i soldi per farle!". Immaginate il furore della Nella, sua sorella. Questa frase è ripetuta fra noi parenti come la storia patria ci fa ripetere quella di Garibaldi: "Qui si fa l'Italia o si muore!".

La grande festa si avvicina. Il giovedì arriva una grande cassa da Firenze piena di lumiere con gocce di cristallo. Saranno innalzate in mezzo agli archi della chiesa; che luminaria il giorno della festa! 
Durante la giornata di sabato tre solenni "doppi" annunceranno l'evento che viene e il "cuore si intenerisce". In chiesa si prepara la credenza più bella, i candelieri più alti e i ceri lunghi e dritti. Sembrava di vedere gli abeti di Vallombrosa che sembrano raggiungere il cielo. Quando, per la prima volta, il Proposto mise come tovaglia dell'altare una con delle rose dipinte da lui, lo stupore fu grande; non meno quello del festaiolo che disse: "Sembrano rose nate e sputate...".

La domenica: sono le 5:30 del mattino. Don Giovanni dormiva tranquillo e sereno nella cameretta ultima a sinistra del corridoio. L'Ida lo svegliò: lo guarda, sorride. Visto che per diversi anni dormì in canonica, bisognava alzarsi per suonare le campane.
Suona il primo doppio, poi il secondo, il terzo, l'Ave Maria, il primo e poi l'ultimo. Alle 6:30 entra la prima Messa. La chiesa è piena di donne con pezzole [cit. dialettale: fazzoletti copricapo] in testa e scialli sulle spalle. È freddo, ma non può e non deve mancare la Messa: "Una domenica senza, non sembrerebbe neppure festa. E poi sono le Quarantore".
Vi sono molti uomini! Il Proposto non è "lungo". Le donne escono; non vanno a prendere il caffè da Dino. I motivi non c'è bisogno che li dica.
La Panchetta porta la Pia, con altre amiche contadine, a prendere il caffè in casa sua; poco caffè, ma molto Frank. Ma non manca la correzione al rum: che delizia! I capoccia tornano a casa. Da sotto il braccio spuntano le code del baccalà secco comprato da Lisandro e sedani di Figline acquistati sotto l'arco di Giulio. Le donne si affrettano per preparare il pranzo: oggi ci saranno maccheroni fatti in casa, conditi con il sugo di coniglio, sedani lessati, fritti e rimessi nel sugo (quanto mi manchi babbo, anche in cucina...). La festa va riconosciuta anche a tavola.

La manifestazione solenne si incentra nella Messa "tardi", in terzo. I preti del piviere sono già arrivati. In coro gli uomini, per il canto solenne. Gli "assoli" li canta Alcide, il Pavarotti della situazione. Il profumo dell'incenso si unisce a quello che sale dalla cucina, dove, sui ceppi accesi, sta girando, sullo spiedo, un arrosto preparato con arte dalla signorina Raffaella aiutata dall'Ida e dall'Emma. I preti mangeranno, serviti dai festaioli, nel "salotto bono". Due quadri vi erano attaccati con disegni vari: in uno c'era scritto "Buon appetito", nell'altro "Buona digestione".
Arrivarono i discorsi finali. Per volere dei Superiori, il discorso di fine festa lo doveva fare mio zio prete (per dire la verità era zio di mio padre, ma fosse soltanto per quella taratura fisica così ingombrante e imbarazzante mi convinceva, chissà perché, a sentirmi un suo nipote...). Questa volta doveva ubbidire ai Superiori. Troppe volte alla fine dei pranzi (sempre ufficiali e mai ufficiosi...) gli toccava fare il solenne, come lo chiamava lui. Cominciava generalmente così: "Un uomo fu messo in una fossa di leoni affamati. L'uomo si avvicina al leone più affamato, gli parla nell'orecchio e il leone non lo mangia. Che gli disse? Se mi mangi, dopo devi fare il discorso. Il leone rimase a stomaco vuoto. Come differiscono gli uomini dagli animali! Io avrei molta difficoltà a parlare a stomaco vuoto, il leone a stomaco pieno".
Lo rivedo ancora con la sua aria così goffa ma con lo sguardo rassicurante, con l'immancabile nazionale senza filtro in bocca. Fiero delle origini: povere ma solidissime. 

La lode del Signore ha inizio col Vespro. In coro i sacerdoti del piviere, gli uomini della Compagnia e i ragazzi. Il canto si alternava con quello delle donne e delle ragazze. Fra le donne c'era la "Lucchera", che ne sapeva "più di un prete". Il timbro della voce indefinibile. Fra le ragazze, l'Ida, la Norma, la Bruna, la Gemmina, Rina, Amalia (quella dei gatti) e la Francesca senza l'abito bianco delle Figlie di Maria. Suona a predica, è finito il Vespro. Inizia la predica. I ragazzi sono accovacciati intorno all'altare e in silenzio sotto gli occhi vigili del Priore. Il predicatore sale sul pulpito, dà un'occhiata giro giro, si soffia il naso e dopo lo spurgo, un Padre Nostro, un bell'inchino e scioglie il sacco del parlare. Dal coro, alla piluzza dell'acqua santa, è tutto un pigia pigia. Che voce! E come si scaldava, e che cazzotti sul pulpito.

Tre erano i tempi. Prima il "cappello", ed era breve. Poi il corpo del tema, che era tanto lungo. Finalmente si zittiva. I ragazzi davano un sospiro di sollievo: era finita la tempesta! Buono buono si sedeva, si asciugava il sudore, spurgava, raccomandava l'elemosina e i festaioli scuotevano in giro la cassetta. Due parole per conclusione, la Benedizione e poi a casa.
Sul sacrato un curioso: "O Menica, il predicatore viene da Figline o dall'Incontro?". "Dal Cielo" - risponde la Menica - "È tanto Santo!". "Santo sarà, ma povero frate se doveva piovere dal cielo, grasso com'è, chissà che stianto!". "Ecco, il solito miscredente e canzonatore".
Il lunedì vi era poco di nuovo. In fondo alla chiesa c'era l'elenco degli adoratori del SS. Sacramento, solennemente esposto. Un uomo e una donna. La fine dell'ora veniva segnata con il suono di campana. Il martedì sera l'ultima predica e poi il canto del Te Deum, mentre le campane suonavano l'ultimo doppio della festa. Tutti infreddoliti tornavano a casa a scaldarsi sul canto del fuoco. 
La festa era finita.

Quello raccontato non è una lode né un rimpianto per il tempo passato: è un racconto vivo nella memoria, ma soprattutto nel cuore. Un ricordo della terra buona su cui è spuntata la vita della mia famiglia. Il mio albero ha sempre desiderato dare buoni frutti e, fra questi, affetto a tutti quelli che mi hanno voluto e mi vogliono bene.
A volte ci capita una nostalgia sottile per quel tempo; così scopriamo, guardandoci intorno con la coda dell'occhio, che subito fuori da quella nostra strada c'è un mondo, o molti mondi, forse, di cui di solito, non ci accorgiamo più. Allora ci sorprendiamo a pensare che è come se corressimo sempre su un viadotto vertiginoso o in una trincea di autostrada e ci fossimo abituati a pensare che è tutto lì. Ma poi, proprio quando meno ce lo aspettiamo, un odore, un colore o un suono stonato ci prende alle spalle e sembra avere le chiavi della nostra anima. Dei nostri 21 grammi...
Così ci accertiamo che in giro non ci sia nessuno e saltiamo fuori dalla nostra bella strada: giù a rotta di collo in un bosco, nel nostro bosco infinito, che ci sta intorno.
Alla fine ci ricordiamo che l'infanzia non è un periodo della vita, ma un'età del mondo, dove tornare per riscoprire una spiegazione mitica e magica delle cose che la dice lunga su tanto nostro agitarci, così apparentemente sensato.
Nessuno, quando entra correndo, sa cosa troverà nel proprio bosco: ogni occhio vede un suo mondo unico e irripetibile che resta inevitabilmente nascosto a tutti gli altri. 
Fino al ritorno inesorabile sulla strada di ogni giorno...

Diventare adulti è terribile. Molto meglio vivere passando da un'infanzia a un'altra.
Si può? Si deve...