“Stavo passeggiando in via Roma e a un certo punto sento dietro di me passi pesanti e sostenuti. Mi volto e vedo Dino Zoff”.

“Ma papà non l’hai fermato? Non gli hai parlato?

“Ma che sei pazza! Faceva paura solo a guardarlo! Era enorme e…serio!”

Già, un omone serio e tutto d’un pezzo, come ormai se ne vedono pochi sui campi da calcio. Niente tatuaggi, niente creste, pochi ammiccamenti e poche chiacchiere. Ma tanta sostanza. Nel suo vocabolario di uomo e di sportivo le due parole ricorrenti sono lavoro e fatica. I suoi idoli di ragazzo, del resto, erano sportivi che si arrampicavano quotidianamente sui muri alti del sacrificio. Fausto Coppi e Abdon Pamich, eroi di modestia, uomini veri. Campioni nel ciclismo e nell’atletica, discipline senza scorciatoie, in cui non puoi barare quando resti solo con te stesso a misurare i tuoi limiti.

Friulano doc, figlio di contadini, la sua quotidianità di ragazzino si divide tra i motori (lavorava in un’officina di Gorizia) e il pallone. A 15 anni viene scartato ai primi provini perché troppo gracile. Ma come cantava De Gregori “il ragazzo si farà anche se ha le spalle strette”. E il ragazzo si fece.

A notarlo fu l’Udinese che lo fece esordire in serie A. La prima esperienza bianconera fu meno felice di quella che sarebbe stata la seconda, quella di Torino: battesimo di fuoco contro la Fiorentina all’età di 19 anni e 5 gol incassati. Poi la retrocessione in serie B. Due anni difficili quelli di Udine, tante critiche e un amore mai sbocciato con la tifoseria.

Poi il trasferimento a Mantova. In terra lombarda si costruisce come portiere e come uomo. Uno dei ricordi più belli come calciatore, quel Mantova-Inter del 1966/67, quando i biancorossi all'ultima giornata vinsero 1-0 togliendo ai nerazzurri uno scudetto già praticamente sul petto: «Se ne sono dette tante di quella partita - racconta Zoff - ma credo che semplicemente l'Inter fosse molto stanca per l'impegno precedente di Coppa Campioni e noi avemmo anche un pizzico di fortuna». E l’episodio più importante del Dino uomo: «Più avanti proprio lì conobbi Annamaria Passerini, che sarebbe diventata mia moglie».

Dopo i 4 anni al Mantova, il trasferimento rocambolesco a Napoli, un incontro tra anime che non avrebbero potuto essere più diverse: da un lato l’entusiasmo e la passione della città partenopea e dall’altro il carattere introverso e schivo del portierone friulano. Furono 5 anni fondamentali nella carriera di Zoff: lo scudetto sfiorato nella stagione’67-68, le prime gioie in Nazionale (l’Europeo vinto nel ’68) e l’esperienza maturata al fianco di giocatori del calibro di Altafini e Sivori.

A 30 anni, infine, arriva la Juventus: l’amore maturo, in una città, sobria ed elegante, sicuramente più affine alla sua personalità. Undici anni di successi all’ombra della Mole: 6 scudetti, 2 Coppe Italia e 1 Coppa Uefa…e nel mezzo il Mondiale dell’82, vinto alla veneranda età di 40 anni, alla faccia di chi lo aveva dato per finito già ad Argentina ’78. Ma Dino Zoff non è mai stato l’uomo delle rivincite. Di fronte alle critiche, anche le più feroci, ha sempre tirato dritto, con lo sguardo fiero e a volte un po’ duro di chi sa che con il lavoro e la fatica avrebbe potuto togliersi ancora tante soddisfazioni. E così è stato. Nell’estate dell’82 il quarantenne Capitano della Nazionale si laurea Campione del Mondo e può finalmente lasciarsi andare ad un sorriso, aperto e consapevole.

Un numero 1 atipico, lontano dal concetto di uomo volante, mai percorso da quella vena di follia che per tradizione portava i portieri alla bravata, al gesto spettacolare. In un mondo di estro e follia, Dino Zoff portava la sua saggezza antica.

Tanti auguri SuperDino, noi ti amiamo così come sei.

 

Chiara Saccone