Diciotto. In città è un mantra da almeno un paio d'anni, cabalisti e matematici ne parlano da un lustro, gli idealisti dall'autunno del 2001. Diciotto. Tanti ne bastano ad un essere umano per diventare responsabile delle proprie azioni ma il tifoso romanista è un animale pascaliano, perso tra sogno e calcolo, che spende ore, giorni, mesi a stilare tabelle che confermino i palpiti del cuore e ammantino di razionalità quell'anelito che, in fondo, si riduce ad appena tre sillabe anche un po' cacofoniche: scu-det-to. Curioso, parola magica che fa rima con diciotto. Diciotto è un intervello, diciotto è come ispirare per altrettanti secondi prima di urlare Gooooooooooooooooool al gol di Dzeko, con un "o" per ogni anno passato ad aspettare. Diciotto, per chi ha il cuore per metà giallo, è quella pausa deliziosa tra le magie del Divino e i tacchi di Totti, gli anni trascorsi tra lo scudetto del 1983 e quello del 2001. Diciotto sono gli anni che separano quell'estate d'inizio millennio dalla prossima del 2019. Già il 2001. Ricordi indelebili, mai nenanche impolverati da tre lustri di esultanze mutilate: Don Fabio che urla "dilettanti" e prova a stampare un calcio nelle terga di un tifoso impazzito che, insieme a qualche centinaia di "colleghi", aveva invaso il campo qualche minuto prima del fischio finale di Roma-Parma. Diciotto, che per i satanisti è tre volte 6 ma per il tifoso giallorosso è il minuto in cui il figlio di Roma sbloccò quella partita poi finita 3 a 1. Come ogni anno la città è tutto un brusio scettico, catastrofista o, per dirla in romano stretto, "mainagioista": <La rosa c'è, peccato per Malcolm>; <hai comprato tanto ma senza ninja e Alisson...>; <Pastore non è una mezzala...>;  <Se vabbè... quelli c'hanno Ronaldo!>. Tutto vero, tutto giusto. La storia della Roma la conosciamo da Turone al 26 maggio, passando per Grobbelaar. Fatemi un favore, se incrociate il brusio fate un sospiro lungo lungo e poi rispondete: diciotto.