Mentiremmo se dicessimo che l’approdo di Florenzi al Valencia ci ha sorpreso. Le prime voci di un possibile trasferimento dell’ultimo romano vecchia scuola della Roma si rincorrevano già da qualche mese: il feeling mai sbocciato con Fonseca, le molte panchine consecutive, superato nell’undici titolare anche da Santon, e un malessere forzatamente nascosto. L’impressione che il rapporto potesse concludersi definitivamente l’abbiamo avuta nell’ultimo mese: quando gli è stato concesso un po’ di campo in più, come a dire ti lasciamo la possibilità di congedarti dal tuo pubblico e da questi colori.


Un addio asettico
È avvenuto tutto in maniera cosi asettica che quasi si fatica a delineare i contorni della questione. Florenzi sta volando in Spagna come chi va via da una festa senza salutare, che poi a quella festa non era nemmeno stato invitato, che di certo nemmeno si noterà il suo allontanamento. Eppure stiamo parlando del capitano della Roma, quello deputato a raccogliere l’eredità dei vari Totti e De Rossi. Stavamo parlando del capitano, perché non lo sarà più e ci lascia basiti la mancanza di dolore che accompagna il suo addio.

Una mancanza di dolore non consensuale, perché Alessandro sta soffrendo, dopo l’ultimo allenamento a Trigoria ha dichiarato: non sono emotivamente pronto per parlare. Gli stanno togliendo un pezzo di vita.

Florenzi se ne va dopo 18 anni di Roma e probabilmente sa solo lui il perché. Noi non lo sappiamo, non lo sanno i tifosi giallorossi. Forse avremmo e avrebbero (i tifosi) il diritto di saperlo. Cos’è che voleva Florenzi? Giocare di più? Essere padrone di una fascia che non presenta picchi di competitività così elevati? Voleva che Fonseca gli chiedesse scusa o che gli si fosse riconosciuto qualche merito in più solo per ciò che rappresentava?

Lui che nel 2010 è diventato prima titolare poi capitano della Primavera, firmando 15 reti stagionali e conquistando lo Scudetto Primavera. Lui che ha esordito in Serie A il 22 maggio 2011, a 20 anni, subentrando al 41′ della ripresa a Francesco Totti, il suo idolo.

Forse ha semplicemente capito che quella Roma non sarebbe stata mai più sua, forse gli altri volevano qualcosa da Florenzi. Gliel’hanno imposto quel qualcosa perché lui non sarebbe mai andato via nemmeno per tutto l’oro del mondo. E, invece, va nell’indifferenza.


Non è il solito addio di una bandiera
Abbiamo già parlato in tanti articoli di quanto sia complicato vedere andare via le bandiere, perlopiù accettarlo. È un qualcosa che appartiene alla parte più interiore del nostro tifo. Qualunque sia la nostra squadra del cuore, riteniamo a priori alcuni club e alcuni giocatori vicini per un legame indissolubile. Così gli addii rompono le logiche e ci lasciano spiazzati e proiettati verso l’incubo di quel calcio futuro privo di qualsiasi sentimentalismo. 

Spesso riusciamo a superare il trauma nella convinzione che di solito il calciatore in questione è al canto del cigno, dunque le società, anche con la morte nel cuore, hanno dovuto praticare un taglio netto per non perpetuare il dolore. Eppure il caso Florenzi è diverso, per certi versi ricorda molto quello Marchisio, per l’atmosfera nel quale si è generato, i contorni quasi irreali, il peso inavvertito.

Qualcuno potrà romanticamente lodare i giallorossi, magari ipotizzando che la Roma abbia rotto con Florenzi per vederlo felice da un’altra parte. Sarà. Siamo su un terreno scivoloso e complicato.

Alcuni, invece, potranno dire che solo perdendoci in questi discorsi non ci mostriamo che piccoli tifosi, altro che professionisti del settore. Nel mondo dello sport orientato al risultato non possono esserci ragioni di cuore. Basta pensare alla Juve, come ha gestito Del Piero e lo stesso Marchisio. Anche qui, sarà.

 

Alessandro Florenzi, lo straniero

Il fatto è che, nonostante la razionalità, vedere un figlio di Roma lasciare la città come uno straniero che ci ha passato solo il weekend è inverosimile.

È una gestione delle cose che ci lascia troppe domande. Perché Florenzi e la Roma sono arrivati ad una rottura così profonda pur sapendo l’uno cosa rappresentasse l’altra nella sua vita e viceversa? Perché Alessandro non è restato a Roma a lottare per il posto? È forse una strategia togliere ai romani quanto più hanno di familiare nell’organico? O gli stessi romani ormai in quel club non trovano più niente nel quale riconoscersi?

Alessandro Florenzi era uno di quelli che domenica cantava in curva per il derby. C’è stato con Totti, c’è stato con De Rossi, con Rudi Garcia quando quel filotto di vittorie consecutive faceva pensare alla vittoria dello scudetto. Ha giocato in tutti i ruoli pur di indossare quella maglia. Florenzi c’è stato nel buio, quando la Roma era un porto di mare. Florenzi è quello che sotto la gestione Zeman alla domanda “Corri tanto?” ha risposto “Mi pagano per quello. C’è gente che fa molto più di noi e guadagna molto di più”. Florenzi è ancora quel ragazzo che segna e poi corre ad abbracciare la nonna seduta tra gli spalti, per ringraziarla della scarpinata che si è fatta per andarlo a vedere. Florenzi è tutti i gesti che lo hanno reso capitano, rappresentante della romanità più pura, anche quando capitano non lo era ancora. 

 

Ma di Florenzi chi se ne frega

Florenzi negli ultimi 20 anni c’è sempre stato per la Roma, ma ora, mentre va via, per lui non c’è nessuno. La Roma si è tolta un peso, lo ha lasciato tutto a lui, a Valencia con i soldi, si, ma nel bel mezzo del suo lutto personale. La questione resta irrisolta.

Alla prossima la Roma avrà l’Atalanta, sarà un partita fondamentale per gli equilibri della zona Champions. Di Florenzi chi se ne frega.