Il giorno successivo ad una sconfitta più sonora di quel che non dica il risultato finale, ci si aspetterebbe che gli articoli sull’Inter trattassero i motivi della débâcle e di come Conte abbia clamorosamente fallito a completare un percorso che l’urna di Nyon aveva delineato come meglio non si potesse desiderare, ponendo davanti all’Inter il solo Leverkusen come ostacolo, forse, più complicato.
Ci si sarebbe attesi di leggere qualche commento sull’impalpabilità di Lautaro, sulla presenza di Gagliardini in campo e Eriksen in panchina, su Candreva e Moses che hanno contribuito al tentativo del Siviglia di perdere tempo negli ultimi 10 minuti con almeno due rimesse laterali battute con ancora più calma di quelle gestite da Banega e soci.

E invece, siamo tutti a parlare per l’ennesima volta di un allenatore, innamorato di se stesso come pochi altri, che ha sì portato l’Inter un pelino più avanti rispetto alle aspettative, ma poi ha fallito tutto il fallibile e che si è di nuovo contraddistinto per un’intervista post partita che si fa fatica a decidere se definire più imbarazzante o isterica.
Giusto per intenderci, coi 12 milioni che si porta a casa ogni anno, Conte è l’allenatore più pagato in Italia ed uno degli allenatori più pagati in Europa. Se le cifre ed i compensi dati ai professionisti hanno una logica - e di solito ce l’hanno - il dato dovrebbe significare che Conte sia stato preso per fare un qualcosa di più rispetto a colleghi, anche di livello, con cachet più modesti. Per dare una mentalità e per vincere, certo, ma anche per curare una serie di aspetti ulteriori.
Ebbene, con la sua uscita di ieri sera Conte è sembrato lamentarsi del fatto che gli sia stato chiesto di fare tutto, di occuparsi di ogni singola cosa, arrivando a domandarsi se nella scala delle priorità il calcio non stesse prendendo il posto che dovrebbe appartenere alla famiglia. Il paradosso è che letto così il piagnisteo di ieri sembra mettersi in contrasto con quello del post-Atalanta, che era stato interpretato dai più come il riflesso delle frustrazioni di Conte che avrebbe voluto contare di più nella stanza dei bottoni.

Ricapitolando gli obiettivi che un allenatore da 12 milioni, la mentalità manca. Altrimenti certe partite di campionato perse o pareggiate in rimonta si sarebbero vinte, non ci sarebbero state interviste assurde in cui sottolineare che i giocatori presi, perché chiesti da lui, in estate erano abituati a giocare a Cagliari e Sassuolo salvo poi far accomodare in panchina Eriksen, certamente più pratico in certi palcoscenici.
Vincere, manca. Perché se è vero che chiedere lo scudetto al primo anno sarebbe stato oggettivamente troppo, un trofeo tra la Coppa Italia e l’Europa League (giocata per aver fallito in Champions) era legittimo aspettarselo. Una volta che raggiungi e giochi la finale, la scusa del “il nostro obiettivo non era vincere già al primo anno” non regge, soprattutto se l’avversario è il Siviglia.
Occuparsi di altri aspetti manca ugualmente. Anzi, da quel che ha detto nell’intervista manca proprio l’intenzione di farlo.

Ma quindi, per quali motivi Conte pensava di essere stato preso e pagato?
La verità, confermata ancora una volta ieri, è che Conte è una prima donna che cerca i titoli per sè prima che quelli per la squadra che allena. E allora si crea il mito dell’allenatore che preferisce i Pepe, Giaccherini, Candreva agli Eriksen, che fa parlare di sé perché si dimette dalla Juventus il primo giorno di ritiro ed ora sembra andare nella stessa direzione con l’Inter, che parla per frasi fatte e che quando si perde non è mai colpa sua.
Ora all’orizzonte sembra stagliarsi l’ombra di Allegri. Non abbiate timori amici interisti che ora sembrate terrorizzati dell’ipotesi, come erano gli juventini alla notizia che sarebbe stato Allegri a sostituire il fuggitivo Conte.
Se davvero sarà Allegri, a maggio non sarà certo peggio. Anzi, potrebbe essere decisamente meglio.