“Quando si diventa tifosi del calcio?” e “Perché si diventa tifosi del calcio?”, sembrerebbero la stessa domanda, formulata semplicemente in due modi diversi. Ma, in effetti, non è così.

Molto spesso ci si avvicina “al pallone” in tenera età. Lo si fa in seguito ad un’epifania o per trasporto di amici, della famiglia, del contesto ambientale o culturale.
Per spiegare il “perché”, invece, dobbiamo irrimediabilmente spostarci su un altro campo, quello delle emozioni. Se il calcio riesce a suscitarci qualcosa allora cominciamo a seguirlo, parallelamente, se guardare ventidue uomini correre dietro una sfera non provoca contrasti si va altrove. Sul terreno delle impressioni non possiamo non fare riferimento a chi, nella pratica, si prodiga a favore delle sue condizioni d’esistenza: i giocatori. Se questi ultimi non attirassero su di sé le attenzioni che gli rivolgiamo, nulla avrebbe senso di esistere: né il calcio, né il tifo.
Tra loro, è inutile nascondercelo, chi maggiormente cattura l’occhio dei bambini e dei ragazzi, sono i giocatori offensivi, quelli che segnano, dribblano, che hanno il 10, le cui gesta sono replicabili sui campetti di provincia, in oratorio, per strada. Sono i giocatori dei quali vuoi le magliette, che influiscono sia sul “perché” che sul “quando” si diventa tifosi.
L’epifania è questa. Da piccolo vedi Ronaldo e ne rimani folgorato, vuoi imitarlo e magari ti appassioni all’Inter. Col passare degli anni abbiamo assistito ad amori sbocciati grazie ai vari Maradona, Van Basten, Del Piero, Totti, Baggio, Messi. Sono emozioni.

Gioco forza, però, per ogni appassionato di calcio arriva la maturità. È un apice che si raggiunge dopo aver vissuto il calcio quotidianamente, essersi sporcato di aspetti tecnici, tattici, valori umani per lo più traditi. È quel momento in cui si ha una conoscenza più ampia del panorama calcistico, dei vissuti, delle storie, delle leggende.
I grandi giocatori fanno ancora il loro effetto ma perdono di forza trainante, colpisce in maggior misura la narrazione che avvolge un uomo o una squadra.

La storia, ad esempio, potrebbe essere quella di De Rossi e del Boca Juniors. Una persona e un sistema che sono, allo stesso tempo, calcio e qualcosa di più. Vogliamo usare la parola totem.
L’ex capitano della Roma e la squadra argentina sono concezioni, modi di vedere e vivere lo sport. Due insiemi di valori che uniti danno vita ad una realtà così potente che non può non suscitare interesse in chi è all’apice della sua passione calcistica.
Capitan Futuro agli Xeneizes è, è stata, una favola per adulti, un sogno che si avvera, qualcosa che avremmo voluto vedere e che abbiamo visto, qualcosa che avremmo voluto raccontare e potremo farlo.
È un fatto che ristabilisce un equilibrio emotivo, essenziale ad ogni narrazione.
La tristezza di vedere un uomo d’onore, nato non predestinato, liquidato dalla propria squadra del cuore alla quale il cuore lo ha dato, mitigata dall’approdo di questo a Buenos Aires. Un locus calcisticamente ameno, una città mistica.

La Bombonera, lo stadio che tutti vorremmo vedere una volta nella vita, che diventa la nuova casa di un alieno. Sì un alieno, perché De Rossi, visto da chi è all’apice, non può essere considerato alla stregua di un giocatore normale. In un mondo in cui i giocatori si etichettano come professionisti, per non legarsi ai valori di club o di tifoseria, di una città, si muovono come fossero delle semplici pedine di un gioco da tavolo, non lasciando vuoti o troppi spazi da colmare, né dolori, se non di bilancio, De Rossi si integra venendo da un altrove ignoto. 
Un pianeta lontano, dove giocare con un’altra maglia diventa un peso da sopportare, dove si scende in campo fasciati, stracciati, e, senza scuse, si forniscono prestazioni di alto livello, dove in tarda età si trova una forza dei nervi che ti rende tra i migliori in campo sempre anche solo per dedizione. Un pianeta lontano in cui esistono ancora i leader carismatici e non solo tecnici.

De Rossi non lo abbiamo mai amato per le sue giocate, per i tunnel, per un sombrero. È stata un’emozione matura quella che ci ha legato a lui, poco istintiva, molto consapevole. In lui si è appagata la nostra ricerca di ascendenza, abbiamo rintracciato l’estrema raffinatezza delle sue letture difensive, la sacralità tattica, l’ermeneutica di un ruolo, quello di mediano che si risolve in una naturale e verticale impulsività.

Abbiamo trovato tutto ciò che non poteva essere reperito altrove e la sua fine non poteva che sembrarci un’ingiustizia, una storia senza finale da film americano o dolceamaro.

Poi sono arrivati gli azul y oro, i mai retrocessi, il calcio argentino, quell’ecosistema che conserva i segni delle origini di questo sport, in cui la passione per lo stesso sport ha qualcosa di atavico, un fascino esotico, viscerale.

Quell’ecosistema spirituale ha deciso di inglobare quell’uomo, vedendo in lui la sua stessa portata. 
Così De Rossi è andato al Boca e, a noi maturi, il calcio ha concesso un finale giusto.

Ora Daniele ha smesso ma a noi va bene. Muchas graçias Tano!