Boh, non so se anche questo debba inserirlo nella categoria "Diario dall'isolamento" o lasciarlo come normalissimo scritto.
Vediamo. Comunque è lungo e probabilmente stancante per chi si annoia facilmente. Non è un thriller e, quindi, inutile farlo scorrere in fretta per leggere solo il finale e capire se il colpevole merita una lettura più approfondita o meno...
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Un'altra giornata un po' così...
Nel piccolo parco che si vede dalla finestra solo due amici a spasso: una signora, il cui viso è nascosto parzialmente da una mascherina, ed un cane che, probabilmente, si chiede come mai non vi siano, come sempre, gli altri amici suoi in giro a scodinzolare o abbaiare di gioia, nell'incontrarlo. Cos'è successo? Se è bello che dalla strada adiacente non provenga il solito rumore continuo e fastidioso di quelle cose imbattibili nella corsa, perché da giovane qualche volta ci ha provato ad azzannarne la coda misteriosamente fumante, tornando indietro abbacchiato e sconfitto, un po' ne sente la mancanza come un vuoto inspiegabile e, le cose inspiegabili gli fanno paura. Lui, abituato a catalogare tutto in odori, forme e atteggiamenti che parlano, minacciosi o amichevoli, e a cui rispondere con altrettanti atteggiamenti, non ama il vuoto, l'assenza...
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icardi... juve... inter... icardi...
I bollettini di guerra mi hanno sfiancato. Cerco la tranquillità fuorviante delle parole di uno degli innumerevoli libri presenti sul mio ebook reader, ma quel senso di inquietudine mi distrae.
Proviamo a parlare di calcio ma, l'interlocutore mi guarda come se fossi un marziano e, in questo momento, un po' mi ci sento anch'io, mentre il suono "Icardi torna all'Inter, magari per finire proprio alla Juve..." si disperde nell'aria e cade, depositandosi come la polvere invisibile che, quando sono a casa mia, colleziono, con facilità, un po' ovunque. Meglio tornare ai bollettini di guerra e a fissare stravolto lo schermo alimentando una paura sempre più presente, cercando di approvvigionarci di generi alimentari per resistere in questo incubo della società globale tanto veloce e universalmente amata, di un amore quietamente scontato e banale però, che cercare di ricordare cosa voglia dire e in quale lingua quel suono che quell'idiota (io, intendo) emette: "icardi... icardi... icardi... juve... inter... icardi... icardi... icardi..."
I morti oggi sono... Mi torna in mente la paura che alimentavano allora, parlo di quando ero ragazzino ovviamente, parlando della bomba H e dell'apocalittico scenario post guerra nucleare immaginato, della scottante guerra fredda o di quelle più scottanti mantenute ben calde con tanti ragazzi, possibilmente di colore, trasformati in carne da macello e ritornati a casa inerti, con la vita lasciata altrove, lontano dai loro poveri quartieri. L'umanità è questa, mi dico. Ma l'umanità sei anche tu, mi rispondo. Che cazzo hanno ottenuto le tue manifestazioni della pace? ...e quella flower generation che ti ha preceduto, passandoti di fianco, come ad una sfilata, quando non eri pronto a buttartici in mezzo? Che poi, qua in Italia erano ancora i bei tempi della (amata) commedia all'italiana e, anche qui, si scimmiottò tutto, cercando di copiare solo i colori vistosi e parodiando le idee che vi stavano dietro. Neppure quelle tanto centrate, a dire il vero, man mano che venivano interpretate, come al solito, con troppa elasticità.
Boh, che sto scrivendo? Dove vado a parare? Allora perché non ci metto dentro anche gli anni disseminati di siringhe ad ogni angolo e perfino delle situazioni ridicole e imbarazzanti in cui ti trovavi, magari quando cercando di salire sulla R4 beige, e non blu come avevi ordinato all'inizio, che aveva sostituito la tua 500L usata, sempre beige, quasi cercassi un grigio che mi attenuasse la figura rendendomi poco visibile, come un geco a caccia di falene vicino ai lampioni che vedi dalla finestra in Sicilia, la sera, più o meno tardi, quelli che tanto spaventano le tue sorelle, chissà perché e chissà perché non riescono a rendersi invisibili a loro, quasi che la paura acuisse la loro vista in modo iperbolico, da supereroi... bene, dove eravamo rimasti? Alle figure barbine... sì, come quando, andando verso la mia R4 parcheggiata a fianco del muro della stazione ho visto qualcuno inginocchiato vicino alla ruota posteriore della macchina parcheggiata dietro la mia. Visto che non si era ancora alzato, neppure dopo che, nel tempo necessario occorrente con l'invidiabile agilità di quei tempi, mi ero infilato dietro il volante, salendo dalla parte del passeggero, 'ché l'altra parte era quasi appiccicata al muro, ero sceso per andare ad offrire il mio aiuto di automobilista solidale e mi ero trovato un ragazzo più o meno della mia età con un ago infilato in un braccio ed ero rimasto con la mia offerta di aiuto gelata in bocca e bloccato per qualche secondo. Di fargli la predica manco a parlarne: farmi mandare affanculo da uno mezzo partito sarebbe stato umiliante... ma anche di andare avanti con l'umana solidarietà, offrendomi di tenergli la stringa che gli era servita come laccio emostatico o quella specie di ciotolina metallica e l'accendino con cui si era preparato il biglietto per quel viaggio, mi sembrava inopportuno e, forse con la bocca ancora aperta e con negli occhi una devastante sconfitta, feci dietro front accartocciando la mia disponibilità e riponendola là da dove l'avevo estratta.
Era una pandemia anche quella. Ci si era buttata anche gente che conoscevi. Figli di parenti acquisiti, amici e amiche di amici e amiche. Andare a consolare chi è estenuato più da una vita di incertezze che dalla definitiva sorte certificata da un medico nel freddo buio di un portone, perdere un figlio per droga e ritrovarlo per la sua morte.
L'abbiamo superata? In un certo senso sì. Si è evoluta. Oggi si sniffa e ci si impasticca, molto più discretamente che nell'urgenza di un buco fatto ovunque si può, per quanto ne sappia, ma la malattia, quell'inquietudine dovuta all'insoddisfazione sociale di voler toccare per mano la possibilità di essere dio, per quanto minore, ma non se stessi, e precipitare nell'inferno di una vita di dipendenza, fatta di minuti sbriciolati e sbriciolabili, esiste ancora. Ma poi mi dico: che accidenti ne sai tu di paradisi e di inferni, che non ci credi neppure? E allora, mi infilo virtualmente nella R4 beige degli anni ottanta e mi allontano, dirigendomi verso il presente.
Eccomi di nuovo qua. "icardi... icardi... icardi... juve... inter... icardi... icardi... icardi..." Boh! ma a me, in questo momento che mi importa di questo suono che oggi non mi dice nulla? Proviamo con "lukaku... lukaku... lukaku... lukaku..." Niente!!!
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L'uomo delle parole...
Sono andato a rileggermi alcune pagine scritte da Gianni Mura e presenti in rete, così, perché volevo consolarmi dicendomi che quel che è scritto rimane e, quindi, me ne posso appropriare in qualsiasi momento. Quel senso di mancanza che ti prende dopo e ti raggiunge alla distanza è peggio. Non l'hai affrontato al momento, a caldo, lasciando sfogare una parte di dolore per te a cui hanno sottratto la ricchezza di un pozzo di parole a cui dissetarti a volontà.
Avevo scritto che per me era esaustivo l'articolo scritto da SoulKitchen ma, alcuni commenti dell'amico blogger, che hanno arricchito di molto e più umanamente il suo articolo "ufficiale", mi hanno stimolato la voglia di investigare un po' su questa mia attenzione sovraccaricata di aspettative riguardo gli articoli di Gianni Mura.
Un po' codardo, o forse meno attento all'uomo di quando lo fossi per il narratore, non ho mai pensato/aspirato/sognato di poterlo avvicinare per poter discutere dei suoi articoli, come invece SK avrebbe sognato, perché, come spesso mi capita, l'appagamento della lettura mi dà l'idea che aggiungere altro potrebbe incrinarne il piacere, scoprendo, magari, che lo scrittore è altra cosa dall'uomo e non all'altezza delle parole scritte e lui, da quel punto di vista, per quanto mi riguarda, era uno che stava molto in alto. I suoi scritti non erano confinati nell'ambito dell'informazione ma della cultura più ampia.
Dopo le parole di SK, mi è scattata la voglia di indagare la persona per capire anche un po' me stesso. Cosa poteva esserci in comune da fare scattare una sintonia con le cose che diceva, oltre che come le esprimeva, cosa comunque non secondaria. Così, voracemente, sono andato a leggermi le cose scritte da chi lo conosceva perché gli stava vicino, per appropriarmi di pezzetti di un'intimità mai avuta, oltre il confine delle parole, con l'uomo che quelle parole scriveva.
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Su "la Repubblica" del 22/3, Michele Serra gli dedica un ritratto: "Il suo romanzo popolare".
Inizio a leggere e mi fa sentire un verme, perché inizia fugando da subito i miei timori e affermando che "tra Gianni e la sua scrittura non c'era nessuna distanza". Già potrei chiudere qui quello che volevo scrivere e cancellarlo dalla memoria del computer: se l'uomo era cosa unica con quello che scriveva è già chiaro del perché lo ritenessi tanto speciale da aspettarne le parole. Se l'ampio respiro di ciò che scriveva, e gli ampi spazi culturali che ogni suo scritto toccava, si rifletteva nella curiosità dell'uomo, che altro cercare?
In quest'articolo Serra afferma che leggerlo era come incontrarlo, a sottolinearne la genuinità, e che questo lo colloca più vicino agli artisti che agli intellettuali in genere o ai giornalisti. Sentimentale e timido, tanto da difendersi con atteggiamenti burberi e ruvidezza di giudizi, anche per mascherare un coinvolgimento emotivo. Nello scrivere nessuna concessione agli fronzoli né alla bellezza posticcia, ma che "quello che preferiva non dire in prima persona" lo faceva dire a poeti e chansonniers che citava di continuo. "Con lui se ne va, quanto a memoria poetica, la Biblioteca di Alessandria... Gianni era sempre dentro il suo racconto... si indignava per i soprusi, si commuoveva per i gesti nobili, si emozionava per le grandi imprese... c'era umanità in ogni sua cellula... lo deludeva, dei nostri tempi, l'inumanità... perché faticava a ritrovare, nei tempi nuovi, quegli elementi di amicizia e di convivio - oso dire di fraternità e amore... una cosa importante da dire è che gli amici (tanti) e i lettori (tantissimi) possono ben dire di aver conosciuto lo stesso Mura"
Così, ci accomuna lo scontato appartenere di fatto a quella sinistra ormai démodé, a detta di quella moderna (autodefinizione), parolaia e un po' cazzara (tanto simile alla destra cazzara, nei metodi e nei luoghi comuni), che è arrivata a coprire anche qualche ruolo altissimo delle istituzioni, come quello della Presidenza del Consiglio dei Ministri, per poi precipitare di nuovo nel suo nulla autodefinito progressista. Quella sinistra démodé, insomma, per cui l'antagonista non era il povero cristo di destra, magari filofascista per chissà quale motivo, ma chi quel povero cristo cercava di schiacciare con soprusi e prepotenze, perché i valori sono quelli che ti distinguono e un perdente e un umile angariato, quello è, senza porsi tanti altri fronzoli di contorno per schierarsi. Le analisi le fai dopo, se te ne resta tempo e voglia. E lui si schierava, forse pure un po' romanticamente, e trovava anche tempo di fare analisi, magari racchiuse in una battuta fulminante. E come non amare il fatto che non si schierasse per gli ultimi solo a parole o perchè fa moda, o perché si è ascoltato il De André più ispirato (perfino Salvini cita e dice di amare De André, ma ve lo vedete Faber amare lui e le sue azioni politiche?), scoprendo che era condirettore del periodico di Emergency o collaboratore di quella rivista pro diseredati come Scarp de tenis.
Oltre quella cosa che sentivo accomunarci, scopro altre cose, minori, piccolissime e inaspettate. Che amasse i "gialli" di Manuel Vázquez Montalbán, come me, me lo aspettavo, quasi banale pensarlo, ma che mi trovassi davanti un Gianni Mura che apprezzava quelli di un autore un po' sbiellato come Stuart Melvin Kaminsky, di cui ho quasi tutto quello che è stato tradotto e pubblicato sui Gialli Mondadori, è una sorpresa. Non di grande valore ma lo è.
Così come non amare quella quasi foto che, a firma Antonello Catacchio, sul Manifesto, lo descrive ad incontrarsi per la prima volta con Gianni Brera, in campagna "tra oche di nome DeGaulle, a raccogliere uova..." e non pensare di starsene lì, da parte, silenziosi e immobili, ascoltare quelle due persone, per cui già il trovarci un loro articolo valeva la pena di comprare un giornale, scambiarsi, invece di informazioni professionali, indicazioni di trattorie e informazioni su sostanziosi piatti della cucina popolare che amavano tanto.
Sul Fatto Quotidiano, Leonardo Coen (ho sempre trovato curioso e un po' inquietante la somiglianza del suo nome con quello di un cantautore tra i pochi che tanto mi piace ascoltare) ne ricorda la memoria, cosa comune in tutti quelli che parlano di lui, non solo infallibile ma anche vastissima (come non provare un grande senso di invidia?) e l'amore per le parole e i giochi relativi che le coinvolgono e dove era imbattibile e sullo stesso giornale, appena citato, Andrea Scanzi scrive che "Gianni aveva cuore, talento, ego, spigoli, genio e generosita. Per molti era “l’unico erede di Brera”. Lo pensava anche lo stesso Brera. Mura ne parlava con quell’affettuosa deferenza con cui si parla dei maestri. Eppure ho sempre pensato a Gianni (Mura) come solo e soltanto a Gianni (Mura): aveva il suo stile, la sua musica. La sua utopia. Per chi ha amato la letteratura sportiva, e per chi ha creduto anche in tempi non sospetti che lo port potesse essere epica, Gianni é stato un amico. Un faro. Un compagno di strada e di sogni..." e ha ragione, spesso l'abbiamo ingabbiato, noi che amavamo Brera, in quella definizione, non estremamente stretta ma penalizzante, perché lui era altro, non un prolungamento ma un arricchimento. Eppure, il suo primo articolo da giovane giornalista diventò carta straccia per mano del suo direttore che gli ricordò che gli aveva chiesto un articolo di Gianni Mura e non uno di Gianni Brera.
E continua "... la sua prefazione al mio Canto del cigno, nella quale mi rimproverava di innamorarmi sempre della “bellezza fredda” (VanBasten, Edberg, Fossati); i tanti consigli enogastronomici; le nottate a1 Club Tenco. Gianni era un pantagruelico per Dna e per vocazione: un vorace prodigioso di cibo, Vino e aneddoti. Risate, giochi di parole (adorava gli anagrammi) e Vita Vissuta. Incontrarlo, soprattutto se eri a inizio corsa, significava ritrovarsi nel bel mezzo del paese dei balocchi... Gianni era l’amico che ti raccontava quello che credevi di sapere già, solo che lui te lo raccontava molto meglio. Aveva lo sguardo buono dei burberi incazzosi... E' stato un gigante. Lo resterà."
E Gianni Ziliani il giorno dopo, sempre su quelle pagine, aggiunge tra le altre cose belle: "...Un Tirannosauro imprigionato in un pollaio: questo si sentiva il timido, silenzioso, burbero, generoso Gianni Mura. Che nell’era della tv che divora i giornali, e poi dei social che ingurgitano tutto, non ha rinunciato mai, nemmeno per un secondo, a battersi per la sola cosa che amasse forse piu di se stesso: la parola scritta. La parola scritta a regola d’arte, con l’inchiostro della competenza e del sentimento, la parola scritta contro la parola detta, urlata, berciata."
Antonio Dipollina, su La Repubblica del 23/3, inizia con "Stuart Kaminsky. Era più di trent’anni fa e una specie di scintilla scoccò davvero con Stuart Kaminsky. Giallista della Florida, pubblicato nei preziosi Mondadori settimanali, delizioso nelle sue storie dolcemente noir e umanissime, che erano americane della Guerra o sovietiche prima del Muro. Dissi a Gianni che mi piaceva Stuart Kaminsky e iniziò una lunga storia... Entrambi riconoscevamo a Ed McBain una caratura superiore, nel genere, ma se ti piaceva Kaminsky stavi in una cesta diversa, piu interessante forse, chissà, ma comunque curiosa... Per dire che ci sarebbe stato tempo per scoprire che Gianni Mura coltivava passioni di lettura, musica, visioni a cui non potevi attingere, che certi poeti che conosceva a memoria lui ormai non li recuperavi piu, che il repertorio di canzoni francesi o milanesi, uguale — o di letteratura di altissimo rango che maneggiava con facilita assoluta, ormai non ce l’avresti mai fatta..."
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E per chi non lo conosceva affatto aggiungo qualche altro ricordo...
Fabrizio Ravelli, sempre su la Repubblica dell 22/3 lo ricorda con "Il compagno di redazione. Zoff, Scirea, vino e poesia. Così sceglieva la squadra ideale"... "Da qualche tempo l’ultima parte della sua rubrica Sette giorni di cattivi pensieri era l’angolo della poesia. Poeti di tutto il mondo, a volte semisconosciuti. Quasi mai francesi. Troppo facile, quelli li sapeva a memoria. A Gianni piaceva la poesia, per la precisione e l’intensita delle parole, le immagini laterali, i1 soffio spudorato del cuore. Tanti anni fa, in redazione, era arrivato con in mano un librino e me l’aveva regalato un po’ furtivo. Poesie sue, di quando aveva vent’anni: Gualtiero Zanetti, suo direttore a1la Gazzetta, per fargli un regalo aveva trovato un editore. Un cimelio, un mezzo segreto. Poesie d’amore. Gianni aveva i1 cuore tenero, sotto quell'aspetto cinghialesco e dietro i1 paravento di un pudore che si fa brusco... Non ce la faceva quasi mai a dire di no, perché era buono. Non buonista, parola che non significa niente e che lo mandava in bestia. Sapeva parlare con chunque, dote che per un giornalista sarebbe fondamentale. Con una predilezione per gli ultimi... Io gli facevo domande anche sceme sullo sport, materia che maneggiavo malissimo. E lui mi rispondeva sempre raccontando di persone, tirava fuori aneddoti strepitosi, sapeva anche i nomi dei figli di certi calciatori o ciclisti. La sua memoria era leggendaria, se andava a controllare un nome o una data era per puro scrupolo. Ma ricordava tutto, dalle canzoni francesi ai menu dei ristoranti. Gianni era una grande memoria barbuta e panzuta, una nuvola di ricordi dove niente si offuscava o perdeva i contorni, e un grande cuore dentro. Per me, se e lecito dirlo, un fratello. Lo saluto qui, senza troppe cerimonie."
Aligi Pontani, sempre su la Repubblica dell 22/3 lo ricorda con "La corsa vissuta insieme nel 1991. Quella storia al Tour scritta macchina sotto un ciliegio": "Saranno trent’anni giusti, come passa il tempo Gianni, eravamo giovani, tu meno di me però avevi i capelli e la barba neri, non ti avevo mai visto e moltissimo ti avevo letto, come tutti quelli che amano lo sport. Ci avevi chiesto un passaggio, cose da matti. Io e Stefano Barigelli dividevamo macchina e spese e viaggio, era il nostro primo Tour e tu eri rimasto a piedi per non so quale assurdo incrocio del destino, e finisti sul nostro sedile posteriore: noi guidavamo, tu cercavi alberghi e ristoranti, dal finestrino c’era la Francia, la tua Francia, e ci torturavi con i tuoi cd, Brel, Endrigo, a1 massimo un Paolo Conte..."
"Quando finii di mandare il mio pezzo, faticato, sudato pure lui, uscii per andare a cercarlo. C’era questo alberello storto, eroico con la sua ombra, forse un ciliegio. Gianni aveva portato la sotto un tavolino di quelli da bettola, e una sediola sgangherata. Sul tavolo, la macchina da scrivere era assediata da bicchieri mezzi pieni, bianco, rosso, rosé. Il foglio in macchina era imbrattato con ditate di unto, residui di formaggi, salami e paté erano sparsi ovunque, e intorno a Gianni cinque o sei robusti contadini si affannavano a portargli cose da assaggiare. Una riga battuta velocemente, una sosta, un bicchiere di vino, una pacca sulle spalle, un’altra riga, un altro bicchiere, un altro salame, un’altra risata. Non avevo ma visto e mai potrò più vedere nessuno lavorare cosi. Non era infatti lavoro. Era vita, la sua vita. Il giorno dopo mi feci mandare dal mio giornale il suo pezzo, volevo capire cosa potesse aver prodotto quel baccanale. Era un pezzo memorabile, come quasi tutti quelli che Gianni ha scritto dal Tour..."
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Ho raccolto questo poco di lui non per omaggiarlo ma per regalarmelo. Ho raccolto tutto questo scrivere e ho scritto di questo raccolto come di una personale investigazione sull'uomo e mi riduco a scoprire che l'uomo è tutto nei suoi articoli e nei suoi libri, almeno per gran parte, e questo è già un bel lascito a chi soffre le assenze come me.
Spero di avere aiutato chi non lo conosceva affatto a capirne il valore e il perché chi ne ha amato i racconti si senta egoisticamente e desolatamente defraudato dal suo lasciarci improvvisamente senza.
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