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Consumando del tempo prezioso...
Nero, marrone, rosso, arancione, giallo, verde, blu, viola, grigio, bianco, oro, argento... Sarti, Burgnich, Facchetti; Bedin, Guarneri Picchi; Jair, Mazzola, Domenghini, Suarez, Corso...
Non hanno nulla a che vedere tra di loro, queste tiritere, se non che sono impresse nella memoria, perché allora usava così e la memoria era sempre caricata e messa alla prova di continuo. La prima veniva utilizzata in elettronica per tradurre, dai colori impressi sul corpo, i valori di alcuni componenti (normalmente le resistenze, ma anche i condensatori, alcune volte) e, ad occhio, nel tempo di uno sguardo, sceglievi da quelli che avevi davanti quella giusta. La seconda, quasi un mantra, se eri interista, ti serviva a riempirti d'orgoglio quando la squadra scendeva in campo, perfino quando era in declino e con alcuni nomi non più presenti. Serviva a prepararti a rievocare partite di cui avevi ascoltato la radiocronaca e ne avevi creato una sequenza di immagini nella testa, un film, quasi sempre bello, per il sussultare emozionato della voce del cronista che, forse, anche lui subiva il fascino dei ricordi e voleva vedere e offrirti un supporto per immaginare ancora. Perfino quando leggevi sul giornale la cronaca, allora più puntuale, perché quasi mai le partite venivano viste se non allo stadio, ti immaginavi tutta una storia di finte, di corse, di tiri, di parate che volevi che costituissero la ricreata realtà affinché ti facessero partecipare al gioco, suscitando gioie e tristezze.
In questi giorni in cui mi manca anche il calcio, rimedio, tra una lettura e l'altra, seguendo qualche finale di champions del passato, recuperata in quel grande marsupio di Eta-Beta che è internet. Poi, osservando dalla finestra i prati fioriti e gli alberi rivestiti di verde, mi prende un po' di nostalgia per le passeggiate rilassanti fuori porta, anche se, al contrario che in Sicilia, qua è una sequenza ininterrotta di paesini separati tra loro da qualche strada di distanza o da pochi chilometri di prezioso verde, sempre più assediato e sempre messo in condizione di soccombere.
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A passeggio con la fantasia
Le rogge, una volta numerose, sono sparite alla vista dalla strada principale e i pescatori solitari, che ne seguivano il corso, devono esserne impazziti dal disorientamento. Il nastro di asfalto ne occulta il letto, incanalato in qualche struttura cava di cemento: sbucherà altrove per brevi tratti da dove vedrà la luce per essere imprigionato di nuovo e liberato in un differente altrove che, probabilmente, affiancando i campi gli permetterà di ritrovare il corso d'acqua madre o uno estraneo, oppure si perderà, questa volta naturalmente, in qualche torrente sotterraneo, dopo avere, tra alberelli e arbusti di sambuco, carichi di infiorescenze bianche o bacche nere, e macchie di rovo, che protendono i loro frutti, neri o rossi, a seconda del grado di maturità, rimandato grato, in riflessi veloci, un chiacchiericcio mormorante che sembra diventare sommesso con le prime ombre della sera, forse con l'attenuarsi di alcuni sensi di chi vi passeggia di fianco. Quasi sempre ripide, nel loro taglio, ai lati, lungo il percorso ne incontri spesso qualche pendenza più leggera che ti permette di avvicinarti all'acqua in sicurezza e, in altri, ponticelli in pietra e legno, che ti permettono di cambiare il sentiero al lato e magari allontanarti seguendo una curiosità a cui ti hanno indotto i colori che spezzano la distesa di verde intorno, perché qualsiasi cosa merita la tua attenzione quando passeggi per campi, soprattutto quelli incolti.
La ricchezza naturale che ti si offre, se sai coglierne il messaggio colorato, è davvero varia. Dal giallo delle piantine di colza inselvatichita, rigogliosa, carnosa e ancora tenera, da raccogliere nelle diramazioni dal fusto centrale e da consumare lessata con un filo d'olio e uno spicchio d'aglio ridotto in minuscole fettine, al medesimo colore del crescione dei campi, oramai quasi sparito, da queste parti, a causa delle coltivazioni intensive e cariche di erbicidi, che ammazzano anche parte della fauna, ma che una volta cresceva energico e quasi accaparratore, nel distendere la sua parte basale per terra, prima di ergere un fusto da cui regalarti le sue gustose cime. Al bianco dei fiori della complicata borsa bel pastore, perchè normalmente minuta come struttura e che richiede pazienza infinita per raccoglierne in buona quantità da riempirne un piatto. Al giallo seducente, da povera regina dei campi, del tarassaco, di quello che diventerà una palla di semi da soffiare via, se predatori come me non ne tagliano alla base le rosette tenere, che ricresceranno in fretta, se non danneggiate alla radice, da farne insalata ma più spesso consumata cotta con acqua da lasciarne in parte, anche per farne zuppa, magari con legumi, o da saltare in padella, gratificandoti sempre con quel suo amaro gradevole. Alla malva, che mi ricorda l'orto, da bambino, quando riuscivo a fare colazione con pane raffermo ammorbidito in una zuppa di quelle piantine che, ricche di mucillaggini, a tanti sembrano scivolare alla masticazione ma che mi gratificano il palato anche da adulto, quando posso. E potrei andare avanti senza dimenticare neppure la comune ortica, da cui prendere solo le tenere cime e la benevolmente infestante erba porcellana, discreta e mimetizzata, da consumare in insalata da sola o aggiunta, con le cimette dalle foglioline carnose, ad altre insalate verdi o, meglio ancora, alle insalate di pomodori. La rucola selvatica, ricca di profumo e sapore, che la cugina coltivata neppure avvicina lontanamente o l'alliaria, saporita e dal leggero profumo di aglio o, ancora, l'erba cipollina, cresciuta sulla sponda ombreggiata del piccolo corso d'acqua. E smetto perché altrimenti la nostalgia si fa sapore e quel sapore ritorna nostalgia, non potendo soddisfare le papille gustative che potrebbero irritarsi ai consueti sapori che, per quanto buoni, sono più abusati e più normalizzati.
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Il pullman "stravagante"
La strada percorsa tante volte, da giovane, era differente rispetto ad oggi. Uscivi da Milano, passando intorno al vecchio stadio di San Siro, che era sito in periferia, a cui lanciavi sempre uno sguardo pieno di gratitudine e ammirazione, togliendo il naso dal libro che stavi leggendo in quel momento o smettendo un attimo di cianciare rumorosamente con chi ti stava intorno, o, se eri arrivato all'ultimo momento, mentre ballavi attaccato ai sostegni di quel vecchio e sgangherato autobus di linea, che era stato acquistato dalla società che trasportava noi dipendenti in sede, e che come allegra penitenza toccava a noi giovani ritardatari che avevamo perso l'altra corsa, con un pullman nuovo e forse più rassicurante, ma meno allegro. Spesso, nonostante che il metrò o la filovia mi avessero depositato in perfetto orario alla meta, attendevo quell'ultima corsa, evitando anche i pullman stracarichi di dipendenti di una grossa società con sede poco distante dal centro ricerche in cui operavo io e che, per un accordo tra le due aziende, potevamo utilizzare anche noi. Credo che anche gli altri, di quel gruppo, facessero, in gran parte, così.
Quella specie di corriera, senz'altro meno stravagante di quella descritta da Steinbeck, ma piena di vitalità e rumorosa di voci tese a sovrastare il rumore di un motore generoso ma affaticato dalla sua vecchiaia meccanica, dei gemiti di ammortizzatori ormai arresi alle buche e alle altre irregolarità di quel vecchio asfalto abusato ancora da trattori che, spesso, ci tenevano sul filo di costose trattenute salariali per ritardo, ad accrescere l'eccitazione di quella corsa da animale sfiancato ma volenteroso. Una conversazione tenuta praticamente da tutti e con tutti, tenuto conto del volume delle voci e di quel consueto arrangiamento meccanico ad accompagnarne la melodia, corrotta dalle voci strozzate improvvisamente dal volteggiare di chi si reggeva ai sostegni o dal tentativo in non finire disteso in mezzo al corridoio, per i fortunati seduti, ad ogni manovra o frenata, sempre ansimante e mai sicura, anche per sovraccarico di peso sul vecchio impianto, e con l'alternativa, che non sembrava poi così remota, di finire in uno dei fossi che vi erano ai lati della strada, quando una leggera sbandata ci portava sullo sterrato.
Su quel vecchio autobus di linea, con occupato pure il posto privilegiato che un tempo era il trono del bigliettaio, neppure esso tanto sicuro al traballare della corsa, nascevano amicizie e storie romantiche tra i componenti di quella masnada giovane e rumoreggiante. Non ricordo, invece, che vi si fossero insinuati astii covati ad invelenire le giornate, se non le dispute tra tifoserie, neanche quelle tanto accese, il lunedì, a meno che non fosse un lunedì successivo al derby o un venerdì in attesa sempre del derby, ma, la forte componente femminile e una parte del tutto disinteressata al calcio circoscrivevano ad un gruppetto ben preciso, a cui appartenevo anch'io, quell'esclusivo rumoreggiare sportivo. Poi, in gruppuscoli si viveva anche un'amicizia fuori dal lavoro o ci si trovava, durante gli scioperi, a picchettare gli ingressi con una giocosità un po' irriverente nei confronti di quelli che più seriosamente ci catechizzavano invano sui percorsi per la strada delle conquiste sindacali e civili, perché o erano cose che avevi già dentro, a farti muovere, come la solidarietà con chi stava peggio di noi, al lavoro e nella società in generale, o non vi era nulla da fare, meno che meno avvicinarci con citazioni, che per quanto dotte e profonde, erano meno avvinghianti della situazione in sé. Giocosità dovuta anche al piacere di ritrovarci insieme, noi, di quella "comune" del vecchio autobus di linea riconvertito, che in ditta eravamo dispersi in tante attività differenti.
In quei due anni, prima che mi trasferissero ad una sede più grande, più moderna e attrezzata, ma un po' meno affascinante di quella piccola e immersa nel verde, dove spendevamo lunghe passeggiate, per le quali, a volte, sostituivamo il pasto in mensa con dei panini, quel vecchio autobus è stato il luogo più divertente dove consumavo due spicchi della mia vita quotidiana. Perfino le giornate più impegnative venivano a sfumarsi in quel bailamme dove eri circondato da giovinezza e allegria e dove, perfino confidando le frustrazioni che a volte, da ultimo arrivato, dovevi fronteggiare, te le vedevi restituire deformate in caricature divertenti dei fatti e non potevi non riderne, a vederle così depotenziate della loro carica maligna.
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Giornali e Giornalisti...
I giovani "compagni" avevano in mano "l'Unità" e dibattevano di tutto e con tutti sull'attualità politica, mentre io cercavo con azioni persuasorie, minacce varie e destrezza, di appropriarmi di una delle loro copie perché vi era un maestro della scrittura e dell'ironia che aveva scelto lo pseudonimo di "Fortebraccio" e ogni giorno mi deliziava le meningi con i suoi trafiletti sempre taglienti. Gente di altri tempi che accosterei tranquillamente ad un altro gentiluomo, di idee politiche ben distanti, ma identico in quanto a freddure e battute fulminanti, come l'avvocato Peppino Prisco, amato da noi interisti e da qualche buongustaio della dialettica appartenente anche ad altre tifoserie. Ricordo che una volta definì Fanfani "l'uomo dalla fronte inutilmente alta", strappandomi una risata tanto improvvisa quanto incompresa da chi mi stava vicino.
Allora, pur vivendo a Milano, e non a Roma dove veniva stampato, preferivo leggere "Paese Sera", magari accompagnandolo, nei giorni con sentimenti più rivoluzionari, o a "Il Manifesto" o al "Quotidiano dei Lavoratori", pur essendo io su posizioni sostanzialmente più moderate e indipendenti, ma, allora, nel quartiere popolare in cui vivevo, tra le vecchie case di ringhiera, si formavano veri e propri gruppuscoli di giovani intellettuali, legati anche alla Statale di Milano, che venivano a fare propaganda e ad organizzare la lotta per il diritto alla casa, ad esempio, e con cui dibattevo le mie immancabili perplessità e i miei dubbi. Alcuni di loro avevano certezze che io non possedevo, ma mi piaceva starli a sentire e imparavo sempre qualcosa di nuovo, non riuscendo mai, però, ad appropriarmi di quelle certezze. Ancora oggi, i miei dubbi mi stimolano a cercare, mentre le belle utopie sono rimaste umane utopie, anche se sempre affascinanti.
La domenica e il lunedì inserivo anche "il Giorno", tra le mie letture. Giornale di sbiadite idee politiche ma con una firma pregiata, quella di Gianni Brera. Ho controllato e i tempi non mi tornano: si scrive in rete che Gianni Brera rimase a "Il Giorno" fino al 1967 ma, allora, io ero ancora in Sicilia ed ero tredicenne completamente squattrinato, come i primi anni a Milano, per poter pensare che acquistassi un quotidiano. Invecchiando, forse, comincio ad avere finti ricordi che mi paiono realtà o, magari, la sua era una collaborazione esterna.
Come al solito, il mio divagare mi fa andare avanti in modo tortuoso, come un ubriaco che è conscio di dover raggiungere una meta ma si lascia convincere a seguire le sue gambe traditrici che preferiscono percorsi alternativi a quelli che lucidamente vorrebbe la logica, però, dato che ci sono, vorrei attardarmi in questo bivio dove abbiamo incontrato Fortebraccio ancora un momento, giusto il tempo per indicarne la valenza ai più giovani. Mario Melloni, cattolico, antifascista, attivo nella Resistenza, in parlamento con la Democrazia Cristiana, nel dopoguerra, fu espulso dalla DC per aver votato contro le indicazioni di partito. Quando lo conobbi, attraverso i suoi scritti, lui lavorava già a "l'Unità" e ne aveva per tutti, sempre in modo elegantemente tagliente e mai volgare. Chissà come commenterebbe oggi i nostri tempi. Avversario di Montanelli, i due si pungolavano ma si rispettavano e stimavano. Anche quell'altro, pur se da altre posizioni, avrebbe da dire cose interessanti su questi nostri tempi.
Ritorno al presente... con fermata intermedia.
Bene, riprendiamo, avvicinandoci alla meta, anche se, forse, non è la stessa pensata all'inizio. Avere ricordato i primi anni di lavoro per quella grande azienda e quell'autobus divertentemente scalcagnato e tante delle persone che allora lo abitavano per il tempo di un viaggio, mi ha dato modo di evadere da questo isolamento forzato e portato a condividere questa Pasquetta con quella giovane ciurmaglia di quell'epoca. Di tanti, persi per strada, ricordo i visi, magari anch'essi ormai irrimediabilmente mutati, ma non più i nomi. Solo pochi appaiono in questi miei giorni e, ormai, raramente. Anche quell'autobus un giorno si fermò, a causa dell'età, definitivamente, mentre io ero ancora a lavorare altrove.
Mi avrebbero riportato alla sede d'origine ventidue anni dopo. Le strade intorno a San Siro erano ancora al confine della città ma oramai piene di ricche villette e di casermoni di case popolari, appena più in là, e già attaccate alla piccola frazione vicina. La strada aveva divorato una buona porzione di campi ed era diventata a tre corsie per ogni senso di marcia. Ai lati, quei bei fossi, contornati da rovi e sambuco, cosi pericolosamente vicini alla stretta carreggiata, erano spariti e il pullman aziendale era silenzioso e dotato di aria condizionata. I colleghi composti e immersi nei loro inespressi pensieri o ancora a rincorrere soluzioni lavorative lasciate in sospeso. Di quella sgangherata giovinezza lavorativa, che avevo avuto io, nessuno di loro ne avrebbe avuto eguale, impressa nella memoria.
Forse è bene così, e perfino meglio, e quel pullman sgangherato era solo un pullman sgangherato e l'aver fatto parte di quella chiassosa combriccola, così poco professionale durante il viaggio, quanto impegnata in molte altre situazioni, compreso il lavoro, era solo un modo di vivere parte della giovinezza, come tanti altri modi possibili ma, ritornando da questo viaggio nel tempo, mi penso un pochino privilegiato e sento le mie labbra distese in un sorriso.
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