Ok, come al solito la raccomandazione è di non andare avanti se siete tipini che si annoiano facilmente (questo lo scrivo per farvi sentire in colpa con voi stessi e stimolarvi orgogliosamente a proseguire). Ormai il vostro lavoro principale l'avete già fatto e mi siete stati utilissimi per conteggiare una visualizzazione che mi regalerà l'illusione che avete letto questa cosuccia fino alla fine. 

Vi avviso che, ad un certo punto, mi autodenuncio di un reato che, penso e spero, non dovrebbe essere più perseguibile. Questo potrebbe portare comunque, la vostra coscienza immacolata ad angosciarsi, o, al contrario, la vostra predisposizione per il crimine potrebbe portarvi a domandarmi consigli per potervi macchiare dello stesso reato. Purtroppo, anche volendo, non posso esservi d'aiuto: quel pezzo di mondo in cui ho vissuto per un certo periodo uno spicchio di vita, quello delle mie vacanze estive dal lavoro, degli anni '70, non c'è più. C'è qualcosa che pretende di averne preso il posto, in modo spigliatamente moderno, ma ha un altro sapore... pur se legale.

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U pani ri casa

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Il luogo...
Se arrivate dalla parte sud-ovest della città e risalite per la circonvallazione, dovrete prima costeggiare, in salita, le mura, e il confine alberato, della grande Villa Comunale (villa Vittorio Emanuele). Arrivati in cima a quella salita, una volta ci si poteva ritrovare, girando a destra e incrociando la via Roma, parallela alla circonvallazione per tutto il tratto che confina con la Villa Comunale, dopo essere passati davanti al vecchio Ospedale, ormai in disuso, e alla chiesa di San Francesco d'Assisi, e girando ancora a destra, invece che andare verso il centro della città, davanti all'ingresso principale di quel bel giardino pubblico, dopo essere passati davanti all'ingresso dell'ultimo dei cinema rimasto a difendere la categoria, tanto attiva negli anni '60 e '70 dell'ormai secolo scorso, diventando un consueto e moderno multisala: il Politeama. Forse perché, in verità, nacque come teatro agli inizi del 1900 e, ancora adesso, mantiene una buona rappresentazione autunno-invernale, cosa di cui non ho mai potuto approfittare, tornando a casa, a Milano, prima che la stagione teatrale abbia inizio. Bello ed elegante, è uno degli edifici civili del comune e vale la pena spendere qualche minuto per osservarne la fattura, non lasciandosi distrarre ed inebriare dall'invito del verde, e dalla promessa di frescura, oltre il cancello del giardino pubblico.
Adesso non potete più distrarvi perché, giunti in cima alla salita, a destra vi trovereste un divieto di accesso che vi costringe a proseguire ed a seguire la circonvallazione che discende a valle, in modo repentino, per poi risalire, con delle curve che costringono gli autobus e i pochi camion autorizzati a transitarvi a fermarsi e a manovrare, se si fronteggiano andando in direzioni opposte, a causa anche delle molte macchine, che negli anni della mia infanzia erano vere rarità, e quasi sconosciute in quel quartiere popolare, ed oggi se ne stanno parcheggiate con impudenza a bordo strada, nonostante i divieti di sosta non siano invisibili ma i marciapiede un po' sì, o quasi, con la loro esigua larghezza.
Risalendo, in cima a quest'altra salita, conquistata con le marce basse del cambio delle autovetture o mettendo, per me piacevolmente, a discreta prova le proprie gambe, come faccio io, in giro a piedi, con la mia macchina fotografica ad accompagnarmi nello zaino, vi trovate nel quartiere San Giovanni e da lì potete ridiscendere la collina, uscendo dai confini urbani per incrociare la superstrada Gela-Catania, o le vecchie statali, o risalire verso la parte più alta della città, dove potete osservare parte del panorama cittadino e la piazza del comune dall'alto, dominando anche la bella scalinata e godendo della facciata e del sagrato della basilica di Santa Maria del Monte, passando prima a fianco dei ruderi di un vecchio castello (dei Genovesi), dove fu incoronato re di Sicilia Giovanni II di Aragona. Il dominio della cattolicissima Spagna, oltre che arricchire la lingua dialettale di nuove parole, aveva dato un duro colpo all'economia e alla cultura cittadina contrastando le attività, fin lì floride, della comunità ebraica e decretandone l'espulsione dalla Sicilia nel 1492. Va bene, non sono uno storico e, quindi, prendete ogni mia nozione o mio giudizio con le pinze, perfino abbastanza lunghe. D'altro canto, ho già parlato della via Iudeca, la larga via che dalla valle degli orti veniva in aiuto a via  Canaletto per raggiungere il centro della città. Lì risiedeva la comunità ebraica.

Ma vi ho portato impropriamente in giro, per il troppo entusiasmo di percorrere con la mente quei luoghi a me cari.
Vi riporto indietro, questa volta facilmente e con poca fatica, dato che si torna indietro, in discesa, fino a dove la via Circonvallazione incontra via Canaletto, trovandosi all'altezza della valle degli orti. Lì, all'angolo del blocco di case sulla destra, risalendo per andare verso la Villa Comunale, e prima di passare davanti all'immenso parcheggio che è stato costruito di recente, rubando spazio alle vecchie terrazze degli orti, ormai disuso, vi è qualcosa che può sembrare un vecchio catoio non utilizzato. Anonimo e desueto adesso quanto affascinante e molto frequentato negli anni della mia infanzia. Pochi, tra i nuovi abitanti di quel quartiere, tra cui quelli che vivono adesso la loro infanzia, nel pericolo di una strada con marciapiedi stretti e un traffico ininterrotto, sanno che quello era il mulino del quartiere. Certo, un edificio vecchio e quasi rugoso, a immaginarlo umano e su una sedia al sole davanti casa, a rimuginare su un passato tanto vivo quanto lontano, in questi tempi frenetici e forse dimenticabili.

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Il mulino...
Il mulino era, a quei tempi, un punto vitale, dove si approcciavano persone, alcune, faticosamente, a piedi con il proprio sacco di grano e altre con muli, o altre cavalcature, asini o, rari cavalli, carichi di più sacchi
, perché magari al servizio di chi, in centro, produceva e vendeva anche il pane. Allora il pane veniva preparato in casa. Durava una decina di giorni scarsi prima di diventare raffermo e utilizzabile solo con zuppe di verdure e legumi, per questo ne veniva preparato solo in quantità adeguata affinché venisse consumato al meglio e nulla venisse sprecato. Certo, adesso che il pane è un bene di consumo tanto consueto da poterne buttare, ammuffito o immangiabile, dopo appena un paio di giorni, quella fatica può sembrare uno spreco di risorse di tempo e energie incomprensibile, se non si ha una certa età e non si è mangiato quel pane, ancora caldo e acconciato con olio, pecorino, acciughe, pepe e pomodorini essiccati tenuti sott'olio, o già più asciutto accompagnato dalla povera quantità e semplicità, rispetto a questi tempi, di companatico.
Non tutti avevano la disponibilità di un forno in casa, normalmente a dividersi lo spazio con la stalla, e alcuni ne facevano attività, arrotondando i pochi guadagni, con chi glielo impegnava per il breve periodo della cottura. Io ricordo che spesso si utilizzava quello di una zia. Vicino al forno teneva le fascine di arbusti secchi e legni più grossi, portati dalla campagna con i muli. Me li ricordo, quando nel tardo pomeriggio, tornavano dalla campagna con fascine di legna da ardere e frutta e verdure di stagione, con i muli a cui venivano attaccate delle grosse ceste di canne intrecciate, belle ed insolitamente eleganti, per l'uso spartano a cui erano destinate, con la parte superiore un po' arrotondata e meno pericolosa ai tagli, intrecciata in vimini, arbusti asciutti ma flessibili, di cui non so molto, con la stessa tecnica utilizzata per costruire i panieri, ma senza, ovviamente, i manici, anch'essi in vimini.
Vicino al forno, mia zia, bidella, raccoglieva anche parecchi libri che, non più utilizzati a scuola, erano destinati al macero ed erano stati recuperati perché utilissimi per appiccare e far divampare bene il fuoco. Spesso, passavo ore ed ore, alla poca e discreta luce che entrava da una finestrella vicino alla porta, a leggere, seduto per terra, dopo avere rovistato per trovare qualcosa di interessante, come vecchi libri di italiano che sunteggiavano opere importanti traendone dei brani significativi e, ebbene sì, anche qualche libro di religione che mi creava non poco raccapriccio per le immagini dei santi martirizzati nelle maniere più crudeli, almeno quanto i poveri umani passati, per l'altro verso, sotto la Santa Inquisizione, che per fortuna, allora ignoravo. Tutto pur di sollecitare la fantasia. I libri di lettura delle medie erano quelli più belli. Più ricchi di storie di quelli che avevo alle elementari e interessanti quasi quanto i fumetti.

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I granai e i "cannizzi"
Vabbè, parlavo del mulino. Li ci potevi acquistare anche la farina, se non potevi procurarti il grano ma, normalmente, si comprava il grano da un agricoltore che si conosceva e che teneva il raccolto in una stanza alta ed asciutta, il granaio, dentro un alto e largo cilindro di canne intrecciate, molto robusto e poggiato su una piattaforma in legno, con una finestrella  in basso, a cui si appoggiava il sacco da riempire e pesare. Adoravo il suono frusciante, quasi un chiacchiericcio indistinto e allegro, di quella cascata di chicchi che andava a intrufolarsi nel sacco, quasi prendendo vita dopo tanto riposo. I cannizzi, questi silos chiamati così per il materiale utilizzato, erano imponenti e ne avvertivo, inconsciamente, l'importanza nella vita sociale del quartiere. D'altro canto, i granai, come ogni altro luogo dove riunirsi a cospirare in santa pace, lontano dagli adulti, erano posti affascinanti per noi bambini, in cui ripiegavamo a fantasticare quando non si era in giro a sprizzare energia in giochi che prevedevano rincorse, nascondini, guerre tra indiani e soldati. In quell'ultimo gioco il mio ruolo era quasi sempre quello di indiano, perché trovare un ramo per simulare un arco o trovare un paio di legnetti da legare a mo' di ascia era alla mia portata, a meno che qualcuno non mi prestasse una delle pistole avute in regalo in qualche festa, giusto perché vi era abbondanza di poveri indiani. Capitava raramente e il fatto di dover sempre confrontarmi con soverchianti forze nemiche, non in numero, ma in armamenti, forse è il motivo che mi ha portato ad essere un pacifista convinto, anche se, purtoppo, non sempre non violento quanto vi è stato da difendere qualche diritto messo in discussione con la forza.

Anche mia madre, con il suo sacco di grano, andava a mettersi in coda al mulino. Ricordo che, di fianco alla costruzione, era stato creato il letto per un ruscelletto. L'acqua, che acquistava velocità dalla discesa da cui sbucava, non aveva difficoltà a muovere una gigantesca, per la mia statura di allora, ruota. La stanza, affollata di persone in attesa, profumava di farina che, d'altronde, si depositava in pulviscolo ovunque, segnando pure i nostri passi sul pavimento e mi faceva fantasticare pure su quello passando con le mie piccole calzature su orme appartenenti agli adulti, cercando di immaginare a chi appartenessero dei presenti, insomma: cazzeggiavo su tutto anche allora.  Ne trovavo così naturale la presenza che mi sembra ancora adesso che ne fosse componente essenziale e che non venisse rimossa puntualmente, a fine giornata, con le scope di saggina in uso allora. Non ricordo se gli scarti venissero restituiti a parte, alla consegna della farina macinata, perché la crusca la ricordo come  parte essenziale di un pastone da dare agli animali, assieme a  scarti di verdure e non so che altro, tanto che se ne poteva acquistare a parte, anche se non andavi a farti macinare il grano.

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La "maidda"...
L'impegno di mia madre nel preparare la quantità di pane per la settimana le portava via gran parte del pomeriggio. La ricordo aggiungere acqua lievemente tiepida alla farina da impastare assieme al "cruscenti" (o "crescenti", che è il lievito madre, curatissimo in ogni casa che preparava il pane da sé) in una specie di cassone di legno con una base di circa 120x60 cm e con un'altezza di circa 30 centimetri, la "maidda" (a Caltagirone "a machidda"). Poi, ne tagliava un pezzo per volta e ne modellava le pagnotte (vastedde) e le lasciava a lievitare per una notte sotto delle coperte.
La "maidda", ovviamente, serviva anche quando si preparava la pasta fatta in casa. Parte fresca, da consumare, buonissima, su piatti molto larghi (i "fangotti", oggi diventati preziose opere in ceramica, allora basilari nei disegni ornamentali e che, se si rompevano, venivano riparate da un artigiano itinerante che avvisava del suo passaggio urlando il suo mestiere e i lavori di riparazione che poteva fare) che permettevano di appoggiare la pasta, tagliata a mano come pappardelle, appena scolata dopo breve cottura, in modo che non si sovrapponesse molto, attaccandosi nonostante la salsa. Oppure, sempre fresca, come taglierini (pasta ripiegata in quattro strati, per facilitare l'operazione, e tagliata finemente a mano) da cuocere con i legumi. Parte da essiccare, passandola attraverso una macchina che dava varie forme e poi appendendola larga ad asciugare su delle corde o, perfino, sugli schienali delle sedie dopo avere posto delle tovagliette. Insomma, ovunque, si prestava alla bisogna.
La si utilizzava anche quando in campagna si facevano le grandi tavolate di parenti e le donne, dopo avere impastato la pasta nella "maidda", la ripulivano, l'asciugavano e, poi, vi versavano la pasta, a fine cottura, e il sugo per rimestarla bene e fare i piatti. Alcuni, per scherzo, ne prendevano, ancora bollente, con le dita direttamente da lì. Ricordo i pentoloni in rame, posti sui focolai in pietra, annerirsi man mano con il fumo della legna, e il profumo di quello della salsa, farsi sempre più buono e intenso all'avanzare della cottura. Erano gli stessi pentoloni con cui si preparava, in campagna, anche lo "astrattu" per l'inverno. Una salsa ristrettissima e poi ulteriormente asciugata al sole. Successivamente, veniva conservata in barattoli con un filo d'olio e poi utilizzata allungandola con acqua per preparare il sugo nel periodo in cui mancavano i pomodori freschi. Certo, di concentrato di pomodoro ne trovate quanto ne volete nei supermercati e, quindi, che diavolo sto qui a far perdere tempo, vi domanderete, magari con qualche imprecazione indirizzata nei miei confronti. Se aveste assaggiato quello, vi assicuro che capireste.

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Carbonari... per un tozzo di pane!
Vi ho narrato già di quando ritornavo in vacanza da Milano e stavo in campagna con mia madre, per la maggior parte del tempo (in "Lo straniero"). Bene, una volta alla settimana, in quegli anni settanta così straordinari e controversi, di cui abbiamo parlato anche su questo sito, dividendoci per come erano ricordati e anche per come erano stati vissuti, io e mia madre ci svegliavamo intorno alle tre e mezza, in piena notte, e, lasciati i cani a casa per non richiamare l'attenzione con il loro entusiasmo, a volte eccessivo, salivamo in città.

Lasciata la strada principale e molto frequentata, anche se non a quell'ora, ci muovevamo alla luce fioca dei lampioncini radi, al fresco mattutino che ci costringeva ad indossare qualcosa, a coprire le braccia altrimenti nude ed esposte agli immancabili refoli di una città collinare, anche se inavvertibili nel caldo diurno, e scendevamo gradini di carruggi appena più larghi di noi e ne risalivamo altri, fino a sbucare in uno slargo e, dopo esserci guardati accuratamente intorno, per vedere se vi era qualche anima viva, che ci avrebbe costretti a rifare un qualche giro di distrazione per poi riavvicinarci, picchiavamo con le nocche una porta, con un segnale, e dichiaravamo in un sospiro, a chi stava dietro la porta a cogliere il minimo rumore dall'esterno, chi eravamo.

La porta si apriva di uno spiraglio, quanto bastava a farci scivolare all'interno, muovendoci lateralmente. Una volta entrati, andavamo a fare parte di un di un gruppetto di silenziosissime persone, ognuna delle quali con il proprio sacco vuoto in mano, il nostro era blu e cucito da mia madre con un tessuto adatto, in religiosa attesa dell'evento. Evento rappresentato dall'apertura del forno e dall'estrazione da esso del pane casereccio che, dopo qualche minuto, in cambio dell'adeguata quantità di denaro, sarebbe finito in fondo ad ogni sacco. Con la stessa circospezione, a distanza di una decina di minuti uno dall'altro, previa perlustrazione a vedere se la strada fosse ancora libera, sempre in religiosissimo silenzio, si scivolava fuori e ci si infilava per i carruggi ancora addormentati per raggiungere di nuovo la macchina e scappare con il bottino, consistente in quel vietatissimo pane fatto in casa.

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Embè?!
(Siamo al punto in cui si fa un po' di morale, attenzione!)
Cosa c'entra questo scritto con questi giorni di isolamento?
Io credo che il momento che stiamo vivendo, pur con tutta la sua drammaticità, anzi, forse proprio per questo costo che siamo costretti a pagare, non può lasciarci senza alcun insegnamento. Abbiamo vissuto un po' da cicale, compromettendo perfino le risorse che avremmo dovuto lasciare alle generazioni che ci succederanno, quasi a cuor leggero. Quasi che fosse ineluttabile questo spreco e questo danneggiamento della natura.
Abbiamo abbandonato valori come la solidarietà per rincorrere piccole supremazie personali che ci hanno arricchito, le rare volte che lo hanno fatto, solo materialmente, sacrificando affetti che avrebbero pesato moltissimo nel bilancio che ogni tanto siamo costretti a fare. Su un piatto della bilancia abbiamo posto molte cose, della cui carenza ci saremo sentiti frustrati, che erano solo un vacuo luccichio da porre sotto gli occhi degli altri affinché ci notassero e certificassero il nostro esistere. Ci hanno insegnato a crearci nemici da combattere, per sentirci più forti, mentre prima sapevamo che nulla è più forte dell'amicizia e della fraternità e, forse per questo, ne sono stati intimoriti.
Sono nato in un tempo e in un luogo dove l'avere il pane, quello buonissimo che ho descritto, costava molta fatica e, pur se non mancava, eri conscio della sua importanza e non ne sprecavi. Tempo e luogo dove anche avere l'acqua era difficile, e ancora adesso è razionata e corrente sono durante alcune ore della giornata. Quell'acqua conservata, a quel tempo, in contenitori di terracotta per averla fresca e pulita durante la giornata e negli altri contenitori per averne da lavare le verdure e da cuocere la pasta o lavare gli indumenti. Preziosissima, anche dopo l'uso primario veniva conservata anch'essa per il water, ma anche per una prima sciacquatura dei piatti, quella di cottura, e per le piante, quella senza contaminanti come il sapone.
Oggi, per fortuna e per capacità, non siamo più in quelle condizioni di povertà economica e organizzativa.
Però, vorrei dire: ripartiamo da un alfabeto che ci aiuti a ricostruire le parole per esaltare i valori essenziali e, possibilmente, sani e ripartiamo da lì a costruire ricchezze, non effimere, per tutti e non troni con diamanti incastonati per pochi. Torniamo a valori come salute, cultura e socialità da spendere a piene mani e non sacrifichiamoli per egoismi deleteri. Se il prima ci ha portato a tutto questo, il dopo non può essere lo stesso. Probabilmente, e lo penso fermamente, ci saranno molte cose da salvare e poche cose da scartare. Abbiamo fatto passi da gigante in tanti settori e questo avrebbe dovuto portarci benessere anziché disagio. Ad esempio, quando si parlava di robotizzare (automatizzare meccanicamente) il mondo del lavoro ci si spiegava che questo avrebbe liberato l'uomo dalla fatica e lo avrebbe reso più libero di vivere una vita qualitativamente migliore. Era possibile. Invece abbiamo ottenuto precarietà e insicurezza diffusa, contro l'arricchimento di pochi.
Se facciamo tesoro dei nostri errori e non lasciamo soli quelli che pensiamo che si stiano battendo, anche per noi, per un mondo migliore, forse una bella utopia come il sentirsi liberi, umani, solidali e con pari diritti all'esistenza, cesserà di essere un'utopia.