Dire la parola romanticismo è dire arte moderna – cioè, intimità, spiritualità, colore, aspirazione verso l’infinito, espressa con ogni mezzo artistico a disposizione. Charles Baudelaire

Le parole sopracitate del più famoso poeta maledetto della storia sono parole che definiscono il “Romanticismo”, inteso come movimento artistico. Eppure, senza correre il rischio di estrapolarle e decontestualizzarle, sembra possano essere utilizzate per definire qualsiasi cosa ci torni “romantica”: una situazione, un’emozione, una figura, un calciatore. Dario Hübner, ad esempio.

“Una volta eravamo undici operai che lavoravano insieme per l’industria squadra. Non solo in campo, ma soprattuto al di fuori: un gruppo di amici, prima che colleghi. Oggi invece mi sembra spesso di vedere undici industrie”. Dario Hübner

Cos’ha il calcio oggi di intimo, spirituale, di colorato? Forse più niente. Siamo abituati costantemente ad assistere a parate spettacolari di stelle che si somigliano, dove i campioni appaiono così lontani che viene da immaginarli di un altro pianeta, abitanti di una dimensione eterea. Ci fanno appassionare per le loro prestazioni, per le vittorie, per i grandi gesti ma, quando la partita finisce, di loro non ci resta che una pagina Instagram, specchio di una vita che non ci appartiene, riflesso del Dio Denaro.

Uomini vicini

Tendiamo, così, spesso a legarci umanamente a personaggi minori o vagamente estranei a quel mondo, i pochi che ne restano. Talentuosi, certo, ma, appunto, più umani: come può esserlo una bandiera o un giocatore di provincia. Uomini ai quali ci sentiamo spiritualmente più vicini, intimi.
“Io certe volte dovrei fare come Dario Hübner. E non lasciarti a casa sola a consumarti le unghia”. Hübner, Calcutta C’è una canzone di Calcutta dedicata per intero a Dario Hübner, centravanti che ha abitato le scene importanti del calcio italiano sul finire degli anni 90’ e agli inizi del 2000. Un centravanti che aveva un mezzo artistico a sua disposizione, ovvero il gol, ma che conquistò il cuore degli appassionati semplicemente restando Dario Hübner, restando a casa, restando sulla terra. Ecco che Dario Hübner è stato, ed è, uno di quei pochi ai quali sentirsi intimi: una figura romantica.

Carriera di provincia

Centravanti, abbiamo detto, di provincia. Le sue squadre sono state il Cesena, il Brescia, il Piacenza, tante altre di categorie inferiori, come il Cavenago d’Adda dove ha giocato la sua ultima stagione da professionista a 44 anni.

Si è messo in mostra a Cesena in B, che era già grande, aveva 29 anni. Nel 1996 conquistò il titolo di capocannoniere della competizione e attirò le attenzioni del Brescia, che lo portò in A con sé l’anno dopo. 1997, il suo esordio rischiò di oscurare quello del Fenomeno Ronaldo. Era la prima giornata, Inter-Brescia, il brasiliano era arrivato da Barcellona ma la partita la sbloccò Hübner che freddò Pagliuca con una rapace girata in area. Ci pensò Recoba, poi, a salvare i nerazzurri, ma quel momento nessuno lo può cancellare. 

Nessuno può cancellare i suoi 300 gol segnati in carriera, la classifica marcatori di A vinta a 35 anni insieme a Trezeguet nel 2002, il record condiviso con Protti di aver dominato le classifiche dei marcatori dalla C1 alla A.  

Dario, oltre le statistiche

Nessuno può cancellare le statistiche, ma potrebbero anche farlo e noi ci ricorderemo di Dario comunque. 

Ci ricorderemo di Corioni, ex Presidente del Brescia, che disse: “senza grappe e sigarette sarebbe il numero 1”. Perché Dario ha sempre amato fumare, un pacchetto di Marlboro al giorno. Si sapeva, anche, ad esempio che Dario amasse bere una grappa a sera, dopo cena, poi si andava a dormire perché alle 7 del mattino successivo c’era d’accompagnare la figlia a scuola. Per queste abitudini è sempre stato demonizzato, anche ingiustamente perché era semplicemente uno di noi e non lo nascondeva come, invece, tanti suoi colleghi che lasciavano gli accendini nel suo beauty case per non farsi beccare e facevano l’alba a bere in qualche locale senza farlo sapere. 

Uno di noi per il quale il calcio era un lavoro, come quello del fabbro fatto fino a 16 anni, qualcosa che gli piaceva fare, lo faceva divertire e sentire fortunato senza dimenticare le cose semplici, senza mai perderle di vista durante la sua carriera, senza dare per scontato gli affetti.

Il “no” alla Premier

Nella canzone indie che abbiamo citato si fa, ad esempio, riferimento ad una scelta presa da Dario all’apice delle sua carriera. Tatanka, come amavano chiamarlo i tifosi che vedevano in lui le movenze di Chris Chavis un wrestler WWE di quei tempi, ebbe un’offerta dalla Premier, un’ offerta importante, quella della vita. La vita, però, gliel’avrebbe cambiata. La moglie di Dario era di Crema e allora la risposta fu un rifiuto al campionato più importante al mondo per trasferirsi a Piacenza, a pochi chilometri dalla sua amata.
“Ho sempre messo davanti alle mie scelte la famiglia, i soldi sono importanti però non indispensabili. A me bastava stare bene, dove mi apprezzavano e vicino casa”. Dario Hübner

La parola “romanticismo”

L’amore che viene contrapposto alla carriera, è qualcosa di quasi cavalleresco. Banali e, magari, nocivi piccolissimi e fugaci piaceri della vita che non abbandoni per sembrare qualcun altro, per conquistare la simpatia di chi potrebbe farti arrivare un po’ più su, sono vezzi da uomini normali. Il blasone dei grandi club barattato per l’affetto e l’apprezzamento dei tifosi di provincia è un privilegio che paghi a caro prezzo. Ma in Dario Hübner, che oggi compie 53 anni, c’è tutto questo. Tutto ciò che ci piace.

In Dario Hübner c’è l’importanza di tenersi strette le cose che contano davvero in un mondo dove non conta più niente. C’è un calciatore che ha preferito la vita, la sua però, e che per questo ci ha sciolto il cuore, raggiungendo livelli di epica e mito che non possiamo sottovalutare. La semplicità che condiziona.
È arte moderna, oramai antica: intimità, spiritualità, aspirazione verso l’infinito. In poche parole, romanticismo.