Caro Pavel, 

entrambi dobbiamo molto a questi colori, a questa squadra, a questa città. Qui siamo diventati uomini e calciatori più forti. Abbiamo imparato il valore del lavoro, del sacrificio, dell'appartenenza. Questo è il luogo dove abbiamo deciso di far crescere i nostri figli: rispettosa e misteriosa, Torino è una mamma riservata ed esigente. Entrambi abbiamo vissuto prima il sole e il calore del Sud, entrambi veniamo da lontano: ma qui abbiamo versato le nostre lacrime più vere, di gioia e di disperazione. Abbiamo raccolto trofei e sconfitte, per poi, ogni anno, ripartire: sempre accerchiati, contro tutto e contro tutti. Io la Champions l'ho vinta, da giocatore, tu però hai alzato quel Pallone d'Oro che, prima dei due fenomeni, era più di casa a Torino che in Spagna. Ascoltami Pavel. Ho un debito, come te, verso questa squadra e questi colori: primo, per la vita che ha permesso di vivere, a me e alla mia famiglia; secondo, per essere andato via sbattendo la porta. So di avere sbagliato, in due o tre occasioni: gli scudetti di Capello, il ristorante e i dieci euro, la finale di Champions. Ma sono fatto così, nel bene o nel male. Mi vogliono in tanti. Ma il mio sogno sarebbe sedere di nuovo su quella panchina. La proprietà è ancora offesa? La proprietà è giovane e i giovani non sanno che il tempo aiuta a smussare gli angoli, delle persone e dei rancori. Chi è venuto dopo di me, ha dimostrato di poter fare meglio. Ora vorrei dimostrare io di poter fare meglio di lui. Non rimane molto tempo, però, per decidere: a Torino, come sai, non c'è mai abbastanza tempo...

Il Tuo Capitano, Antonio.