Inseguire un sogno, lasciarsi trasportare dal vento che soffia tra le foglie: osservare le stelle, rimuovere ogni pensiero dalla mente, essere un flusso di magia penetrante tra le rocce, come se si potesse oltrepassare ogni barriera; credere nella possibilità di accendere una stella nel cielo attraverso la propria vita è qualcosa di speciale, accessibile soltanto a chi nonostante la paura riesce sempre a gettare il cuore oltre l’ostacolo.

Ma talvolta i sogni possono diventare anche oscure prigioni, catene dalle quali diventa quasi impossibile divincolarsi, ancorandoci ad un morboso attaccamento ai desideri, quelli che assumono i connotati di vere e proprie ossessioni: l’unica chiave per liberarsene è il sorriso amaro di chi riesce ad accettare la sconfitta, magari guardandola dritta negli occhi con uno sguardo pieno di orgoglio ma in sé anche sofferente, con le lacrime che bruciano come il fuoco di una passione, la quale sembra però spegnersi sotto la grandezza del mare delle difficoltà. Arrendersi non sempre è un errore, ci sono momenti in cui bisogna chinare il capo ed uscire di scena a testa bassa, per poi chissà tornare, con una cicatrice in più sul petto e uno strato di umiltà in più da reggere sulle proprie spalle.

Nel calcio moderno è diventata ormai pratica comune quella di puntare il dito verso le figure più deboli, creando una sorta di desertificazione dei valori umani, in cui non c’è protagonista che venga risparmiato dagli sputi altrui: un clima arido e privo di speranze avvolge i destini di ragazzi impreparati ad affronatare la maestosità delle loro responsabilità, che sembrano trasformarsi in onde anomale capaci di spazzare via qualunque istinto difensivo.

È un pò quello che qualche anno fa è accaduto all’Inter, in uno dei periodi maggiormente tristi della storia del club nerazzurro, quello delle disfatte subite in casa per mano di formazioni di medio-bassa classifica e delle continue polemiche verso calciatori e allenatore: uno dei più bersagliati in assoluto di quella disgraziata compagnia è proprio Andrea Ranocchia, difensore centrale giunto a Milano con una valigia colma di sogni e fantasie, tramutatesi ben presto in una sequenza devastante di incubi tutti da vivere sul terreno di gioco. Il ragazzo di Assisi viene quasi subito catapultato nel bel mezzo della mischia, all’interno di una società totalmente confusa nelle proprie idee, aggrappata al talento e al carisma di certi uomini chiave: il primo capitolo della guerra psicologica scatenata contro il giovane difensore ex Bari inizia con il match dei quarti di finale di Champions League contro lo Schalke 04, in cui Andrea si rende protagonista di uno sfortunato autogoal in quella che rappresenta tutt’oggi una delle disfatti più fragorose dell’intera storia nerazzurra. Un 5 a 2 subito in casa, ecco cosa riporta il biglietto da visita del primo Ranocchia interista, colpevole di aver disputato una prestazione totalmente da dimenticare: ma col passare del tempo quel numero lì sembra accrescere esponenzialmente le proprie dimensioni, trasformandosi in un vortice che avvolge la psicologia di questo ragazzo, forse reo di non avere abbastanza veleno tra i denti per vendicare i torti subiti da quel pubblico che invece avrebbe dovuto incoraggiarlo.

Passano gli anni e la situazione non fa altro che peggiorare, infatti neanche la fascia di capitano affidatagli sembra guarire le ferite di un'anima che appare stanca e assente, mai concentrato per due partite consecutive, mai abbastanza per reggere una tifoseria esigente come poche, dalla quale non proviene altro che una marea di fischi: così Andrea decide di andarsene via, lasciare all’Inter quella valigia piena di speranze ormai spente, per cercare altrove l’affetto e la credibilità sparita dal suo nome impresso sulla maglia nerazzurra; alla notizia del suo momentaneo addio, io stesso mi sentì sollevato, ma non riuscivo a comprendere quanto invece fosse stata un’enorme ingiustizia quel saluto, poiché con Ranocchia ci lasciava un vero amante dei nostri colori, uno che avrebbe sputato sangue pur di farsi amare da quelli che bensì lo avevano detestato.

Una breve parentesi in Inghilterra però non basta al classe 1988 di Assisi per essere riscattato dall’Hull City, e in tal modo egli è costretto a tornare alla base, dove i dirigenti della società di Corso Vittorio Emanuele iniziano quasi subito nella ricerca di una nuova destinazione su cui collocarlo, magari anche in maniera definitiva: nel frattempo all’Inter giunge un certo Luciano Spalletti, un esperto che di calcio se ne intende, il quale decide inspiegabilmente di trattenerlo, e chissà il motivo sarebbe interessante domandarlo direttamente a lui.

La clamorosa scelta del tecnico toscano riaccende pertanto le speranze di questo ragazzo che scopre nell’umiltà e nel sacrificio le sue principali doti caratteristiche: mai una parola fuori posto, mai un gesto sopra le righe, egli diventa ben presto l’esempio di come il duro lavoro possa portare ad eccellenti risultati, anche se questi non sono sempre visibili al pubblico; di fatto il centrale ex Bari vede davvero raramente il terreno di gioco se non in allenamento, e ciò non gli lascia che rivedere quella valigia portata con sé ormai diverso tempo prima.

Recitare un ruolo da protagonista... per scrivere il proprio nome nella storia?

O magari limitarsi a conquistare un posto da titolare?

Chissà quali aspirazioni e quali pensieri abbiano avvolto la mente di quest’uomo, divenuto tale attraverso un lungo percorso stracolmo di critiche: probabilmente però alla fine la scelta è stata quella di continuare a regalare il proprio impegno alla causa nerazzurra, accettando anche i limiti che ne hanno contraddistinto la carriera, senza incatenarsi all’ossessione dell’essere perfetto.

Nella serata dei sedicesimi di Europa League nel match di ritorno contro gli austriaci del Rapid Vienna, Spalletti gli ha concesso l’occasione di dimostrare anche al popolo nerazzurro, quanto egli sia profondamente legato al prato del Meazza, tanto da riuscire a segnare con un pregevole gesto tecnico tipico di un attaccante, lasciandosi andare poi ad un’esultanza piena di commozione: attrubuisco un significato particolare a questa rete, non solo per la bellezza del tiro al volo, ma soprattutto per l’urlo liberatorio subito successivo, come a rappresentare quella che sembra essere una meravigliosa rinascita, realizzatasi attraverso un sogno che adesso è diventato a tutti gli effetti realtà.

A volte un desiderio può significare anche depressione, poiché con i modesti mezzi di cui si dispone non si riuscirà mai nel raggiungerlo, ed è proprio qui che bisogna essere capaci di reagire e voltare pagina: rifondare dalle fondamenta, ripartire così dall’anno zero della nostra vita può dunque dimostrarsi essere un'efficace medicina, giacché c’è ancora una speranza su cui poggiare i piedi.