Da Reggiolo a Rio è un attimo, giusto un volo transoceanico e il sussurro di una proposta non troppo decente.
Reggiolo-de Janeiro è l’ultima tentazione di questo gioco senza frontiere, che è diventato il calcio. Bosman aveva abbattuto quelle territoriali, la FIFA sta cercando di abbattere quelle razziali, Carlo da Reggiolo, magari, abbatterà quelle culturali.  
La notizia è vecchia di un paio di giorni, vecchissima, vista la velocità supersonica a cui viaggia oggi la comunicazione globale. Eppure, ancora se ne parla, ancora stimola dibattiti e post, commenti al bar e asserzioni salottiere. 
È una di quelle notizie che generano un iniziale sussulto di stupore, per poi declinare verso la graduale metabolizzazione: Carlo Ancelotti sarebbe stato contattato dalla federazione brasiliana, per prendere il posto di Tite, dopo il Qatarazo di questi giorni.
Certo, immaginare il manierato allenatore dal sopracciglio inarcante alla guida dei figli della ginga non è esattamente un facile esercizio di logica applicata al calcio. 
Parrebbe, prima facie, una specie di ossimoro, l’invincibile possanza d’un coniugio imperfetto. 
Ancelotti è quanto di meno brasiliano possa esserci. È la mazurca che si mescola alla samba, la nebbia che si confonde col sole, il parmigiano reggiano sulla moqueca baiana, il leader calmo in mezzo a un popolo toda joia toda beleza.  
È un verso dì Martha Medeiros recitato in italiano. 
È apparentemente come il mare d’inverno di ruggeriana memoria: un concetto che il pensiero non considera. Un pensiero che però stuzzica le menti più frizzanti (e meno frizzantine) del pallone. 

Stiamo infatti parlando di Carlo Ancelotti, una delle migliori intellighenzie del calcio mondiale. Lui lascerebbe che le gambe danzanti dei suoi si levino sulle punte (e sui tacchi) a ritmo di samba, nel sottofondo però d’un remix romagnoleggiante. Lui lascerebbe il sole in tasca ai brasiliani, ma non li farebbe mai bruciare. Lui, buongustaio a tavola come in campo, “il formaggio sul pesce proprio no” (altro che sopracciglio inarcato!), però un pezzo d’italianissimo parmigiano DOP magari lo utilizzerebbe per uno dei suoi discorsi motivazionali alla lavagna tattica, spiegando a chi indossa la maglia verdeoro che un italiano può anche essere l’allenatore del Brasile, senza che ciò voglia dire snaturare l’originalità del loro calcio felice ...“Lentamente muore chi non trova grazia in se stesso”, chioserebbe.

Ancelotti allenatore del Brasile è un concetto che il pensiero non considera, sì, ed è anche poco moderno. 
Già li vedo gli avanguardisti che storcono il naso. Sempre così al cospetto d’un ultra sessantenne dal phisique non du role e dal tatticismo per niente esasperato; sempre così nei confronti di chi ai 6 secondi per la riconquista della palla preferisce qualche secondo in più, perché la squadra si riorganizzi e stia bene in campo; sempre così nei confronti degli allenatori che fanno più risultati che filosofia, che preferiscono essere più pragmatici che geometrici, che si affidano ai calciatori prima che a uno schema, che vanno al sodo e non al saldo di statistiche, parametri e algoritmi.
Loro, seguaci del calcio 3.0, “evitano una passione, preferiscono il nero sul bianco e i puntini sulle "i"piuttosto che un insieme di emozioni”. Loro, adepti dell’ortodossia guardioliana, alla guida del Brasile ci vedrebbero meglio un Dorival, un Rogerio Ceni o un Fernando Diniz, che guardioliani non lo sono, ma vincenti e brasiliani purosangue sì; oppure, perché no, lo stesso Pep in persona.
Ma Ancelotti… 
Carletto, da buontempone di provincia, va al sodo e vince. Vince in ogni parte del mondo. Perché ha allenato e allena in giro per il mondo: delle serie, fuga di cervelli e d’allenatori (una serie tutta italiana, da sempre in onda sui nostri  schermi). 
Ad ogni modo, fuggiasco o rifugiato calcistico in terre dorate, Carlo Ancelotti vince ovunque. Vince dal Manzanarre al Reno, passando per le alpi e l’Inghilterra (le piramidi magari no, anche se Salah non gli dispiacerebbe). 
E lo farebbe pure in Brasile, che pure mai ha avuto un commissario tecnico straniero: altro tabù da sfatare, altra abitudine obsoleta in un’era di iper globalizzazione, anche, calcistica; del resto, “lentamente muore chi diventa schiavo dell'abitudine ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi, chi non cambia la marcia, chi non rischia …”. 

E il Brasile, visti gli ultimi mondiali, sembra proprio una nazionale che muore lentamente. Forse è proprio arrivato il momento che sia la federazione a cambiar marcia e non Neymar? Forse il povero gatto non c’entra niente? Forse, un po’ di sano pragmatismo reggiano è proprio quello che necessita ai profeti naturali del tacco e punta? E muoia, calcisticamente muoia “chi non si lascia aiutare, chi passa i giorni a lamentarsi della propria sfortuna o della pioggia incessante” (no, quello era Mazzarri).

E poi, Carlo brasiliani ne ha allenati! Sa come prenderli, come districarsi tra saudade e carnevalate, come farli rendere al meglio. Sa come farli vincere. Non è un caso, se ha ricevuto l’endorsement dall’ultimo vero fenomeno del calcio brasiliano, di soprannome e di fatto. E con lui Ronaldo ha vinto. Era la stagione 2007/2008, Ronaldo approdava al Milan, spezzando il cuore dei tifosi interisti, che mandò poi in frantumi con quel gol nel derby e quell’esultanza mani alle orecchie. Quel Milan vinse una Supercoppa europea e un mondiale per club. Non era certo il miglior Ronaldo, anzi era l’ante litteram del dirigente ciccione dei giorni nostri, ma resta il fatto d’essere stato l’ennesimo brasiliano che con Ancelotti in panchina ha vinto.                             E ha vinto Dida. Ha vinto Kakà. Ha vinto pendolino Cafu, ha vinto Marcelo, ha vinto Thiago Silva, ha vinto Leonardo, ha vinto Serginho, ha vinto anche un dimenticabile Ricardo Oliveira, ha vinto Casemiro e, con lui, gli ultimi martiri del Qatarazo, Militao, Rodrigo e Vinicius. 
Persino Rivaldo, un extraterrestre sbarcato a Milano che del nostro calcio non ci ha capito granché, ha vinto 3 trofei in rossonero con Ancelotti in panchina (e lui spesso di fianco): Champions League, Supercoppa europea e Coppa Italia. E.T. si è invece dichiarato contrario all’eventuale ingaggio del mister italiano… “chi non fa domande sugli argomenti che non conosce, lentamente muore”… d’invidia. 
Hanno vinto, i brasiliani allenati da Ancelotti hanno vinto. 
Tutto questo non significa che, con Ancelotti al timone, la nazionale sudamericana tornerà matematicamente a vincere (nel calcio non v’è nulla di matematico, il calcio è un’opinione), però ci dice molto della carriera di questo paffutello allenatore, ennesima eccellenza italiana che tutto il mondo c’invidia. 
E che noi invece ci ostiniamo a non scritturare, per cambiare il copione della nostra nazionale. Roberto Mancini mi perdonerà, ma “lentamente muore chi non capovolge il tavolo”, non licenzia l’allenatore che ha mancato la qualificazione ai mondiali e non chiama Ancelotti alla guida della nazionale italiana. 
Galliani lo convinse davanti a un buon vino e del culatello; aggiungiamoci del purè ed è fatta! Lo mettiamo sulla panchina azzurra. Sì, mettiamolo lì e al Brasile ci penserà Cristo redentor e qualche d'un altro entrenador.
Reggiolo de Janeiro non suona affatto bene. 
“Evitiamo la morte a piccole dosi”, ché star fuori dal mondiale per otto anni di fila significa aver già ammazzato il calcio italiano, significa aver già vissuto i peggiori anni della nostra vita.