Allenare una nazionale è la stessa cosa che allenare una squadra di club? La risposta è banale: assolutamente no.
L’allenatore di club lavora sul quotidiano, vede i suoi calciatori tutti i giorni per tutto l’arco della stagione sportiva; il cosiddetto commissario tecnico, al contrario, monitora i calciatori passibili di convocazione per tutta la stagione, senza possibilità di allenarli se non per i periodi in cui giocano le nazionali e il tutto culmina con le manifestazioni più importanti in cui sono coinvolte le nazionali, competizioni di carattere continentale o il mondiale.

Dal mio punto di vista, tra i due, spetta al commissario tecnico il ruolo più gravoso: egli deve infatti avere la capacità e la sensibilità di saper selezionare la miglior espressione del calcio nazionale e allo stesso tempo imbastire una squadra che sappia armonizzare e valorizzare questa espressione, possibilmente senza escludere nessuno; tutto questo anche a costo di mettere da parte le proprie convinzioni tattiche, riuscendo a elaborare una formula che non tagli fuori nessuno (o il meno possibile).

Non è un caso, a mio avviso, che siano pochi i casi di grandi allenatori che sono stati anche grandi commissari tecnici o vice versa: i primi nomi che mi vengono in mente sono quelli di Marcello Lippi e Vicente Del Bosque che però già da allenatori furono dei grandi “padri nobili” capaci di guidare i gruppi che hanno allenato non solo con le idee tattiche ma anche con il carisma e la capacità di valorizzare tutti, dal primo all’ultimo, gli effettivi che avevano a disposizione.
Perché il CT, per come la vedo io, più che un allenatore deve essere un ottimo selezionatore, con ovviamente nozioni calcistiche, ma non necessariamente intriso di dogmi tattici che spesso limitano un bacino d’utenza ampio come quello di una nazionale. 

In questo senso mi piace parlare di Jorge Sampaoli, CT dell’Argentina che sta affrontando il mondiale in Russia; allenatore che peraltro stimo moltissimo: erede naturale di quell’idea di calcio nata dalle teorie di Marcelo Bielsa, si è fatto strada con merito prima alla nazionale cilena e poi nella stagione trascorsa al Siviglia. Tutto questo fino alla chiamata nella nazionale argentina: il sogno di una vita che si realizzava ma, allo stesso tempo, la grande responsabilità di guidare una squadra che, nonostante il grandissimo potenziale che ha espresso negli anni, ha raggiunto ben pochi trofei.

Sampaoli si è insediato sulla panchina albiceleste, mettendo subito in chiaro che avrebbe voluto costruire un gruppo sulla base delle sue idee di gioco, anche a costo di sacrificare calciatori di elevato spessore tecnico. Ha quasi subito affermato, ad esempio, che Messi e Dybala sono pressoché incompatibili dal suo punto di vista e che difficilmente avrebbero mai giocato insieme con lui; ha stilato la lista dei mondiali escludendo Icardi, che stava attraversando un periodo di grazia all’Inter e questo suo credo si è tradotto poi nella prima formazione schierata in questi mondiali. Formazione in cui non figuravano ne’ Dybala ne’ Higuain a favore invece del giovane e inesperto Meza. 
Il risultato finale è stato più che deludente: nulla di compromettente, intendiamoci, ma di sicuro in Argentina si sarebbero aspettati un inizio diverso; così come in molti si sono chiesti come mai, sull’uno pari, Higuain abbia giocato solo i cinque minuti finali mentre Dybala non abbia nemmeno sporcato gli scarpini; “scelte tecniche”, più che legittime per un allenatore, un po’ meno a mio avviso per un commissario tecnico.

Per fare un altro esempio sempre attinente al mondiale in corso d’opera, mi viene in mente la rumorosa esclusione di Nainggolan ad opera del CT del Belgio Martinez; anche in questo caso parliamo di una “scelta tecnica” che, tuttavia, a mio giudizio, ha penalizzato la squadra che si è vista privata di un calciatore importante come il Ninja a favore di altri meno decisivi; infine, come non citare l’esclusione di Sanè da parte del pur bravissimo commissario tecnico tedesco Loew. In questo caso parliamo di una nazionale stra colma di talenti come quella tedesca: tuttavia, anche stavolta, non convocare un Sanè reduce da una stagione stratosferica, sacrificandolo sull’altare delle “scelte tecniche” è atto autolesionista.

Fare il CT, come già detto in precedenza, non è un lavoro per tutti gli allenatori perché richiede anche l’umiltà di chi, anche sacrificando alcuni suoi credo, sa rendere la squadra che allena la massima espressione del calcio nazionale, senza escludere nessuno dei punti di forza che esso rappresenta. Poi vabbè, c’è anche chi, nostro connazionale, si permetteva il lusso di non convocare Jorginho e Balotelli perché non affini al suo gioco, ma qui non stiamo neppure parlando di allenatori bensì dilettanti allo sbaraglio.