Sono numerose le teorie riguardanti i motivi che portarono alla caduta dell’impero romano. Una in particolare, viene dall’eminente parere del professor Umberto Galimberti, psicoterapeuta e filosofo contemporaneo, di cui ho grande stima. In svariate interviste da lui rilasciate, ha spesso raccontato un aneddoto risalente al periodo in cui insegnava storia al liceo. Ve ne riporto una citazione. 

Sui libri di storia c’era scritto che i popoli e le culture cadevano per corruzione dei costumi. Quello che dicevo ai miei studenti era - non tenete conto di queste baggianate, guardate invece la storia economica - niente di più falso. Oggi sono perfettamente convinto che quei libri, che davano la corruzione dei costumi alla base della decadenza dell’impero romano, avevano ragione. Una società cade per corruzione dei costumi. -- Umberto Galimberti

Rompo subito gli indugi sostenendo come, nel mio modesto parere, Galimberti ci veda giusto. Per quanto l’economia sia importante e influisca pesantemente sulla storia e l’evoluzione di un popolo, il suo destino si basa su qualcosa di molto più profondo, di cui l’economia è mera conseguenza. E questo aspetto sono appunto i costumi, così come la visione del mondo e la concezione di scopo. A dimostrarlo, l’incredibile differenza tra le culture di questo mondo le quali, nonostante la maggior parte abbia oramai un sistema economico globalizzato e occidentalizzato, trattono e vedono l’economia in maniera completamente differente. Volendo, potrei andare ancora più nel profondo facendo numerosi distinguo sulle visioni dell’economia che hanno le aziende nostrane, ma rischierei solamente di annoiare il lettore. Preferirei piuttosto andare al sodo, sostenendo come la decadenza in corso di un settore come quello calcistico non sia dovuto solamente per motivi economici, ma soprattutto culturali di base. In altre parole, la concezione stessa che abbiamo di questo settore, dei suoi obiettivi e di come essi si cerchi di raggiungerli. 

Soprattutto in questo periodo post, o forse sarebbe meglio dire trans-covid dato che non ne siamo ancora fuori, si è parlato di come il calcio sia sull’orlo del fallimento dal punto di vista economico. Vero, su questo non c’è alcun dubbio. Oso però spingermi un pochino oltre, asserendo come il calcio non stia fallendo, ma sia già fallito e che non c’è modo di salvarlo, se si considera l’aspetto economico come causa principale di tale fallimento. Se infatti è vero che l’economia non è ingenerata, ma si muove anch’essa da un’origine pregressa, ovvero la cultura, allora la nostra attenzione non può focalizzarsi sull’aspetto economico, ma sulla sua stessa origine. Quali sono infatti i problemi del calcio oggigiorno, in particolare di quello italiano? Se volessimo elencarli brevemente troveremmo: 

  • conti in rosso

  • mancanza di progettazione

  • stadi vecchi e in disuso

  • ingaggi sempre più onerosi

  • speculazione

  • età media dei giocatori elevata

Come vediamo, l’aspetto economico è presente in diversi di questi punti, ma non è l’unico e forse non è nemmeno il più importante. Come spieghiamo il fatto che l’età media dei giocatori sia così alta e che l’ingresso dei giovani è così difficoltoso? Perché le società non fanno progetti di lungo termine, preferendo l’usato sicuro invece che investire sulle generazioni future? E anche il fatto che i conti siano quasi sempre in rosso, è un fatto meramente economico? No, non lo è. Il problema atavico, originario, proviene piuttosto da una visione del mondo, e del calcio in sé stesso, che si è insinuata ed è diventata imperante all’interno di questo settore. Quella del risultato prima di ogni altra cosa. Se un qualcosa non aiuta a raggiungere l’obiettivo che ci si è posti nel più breve tempo possibile, allora non serve, non ha scopo, non va preso in considerazione. Il classico fine che giustifica i mezzi, anche quando questi mezzi sono assai onerosi, totalmente privi di una prospettiva futura e addirittura deleteri. Da lungo tempo questa visione è la dominante dell’intero sistema, sia che si parli delle dimensioni di vertice come la Serie A, così come purtroppo avviene anche alla base, nel calcio dilettantistico e semi-professionistico. Dovunque si guardi, il leit motiv è sempre lo stesso: fare di tutto purché si vinca e si vinca subito. Certo, il calcio è competizione e, come tale, è sistema in cui il motore principale è la ricerca del risultato. Questo è normale. Il problema vero è il come tale obiettivo venga perseguito, ovvero il mezzo. Esistono infatti numerose strade attraverso cui un obiettivo è raggiungibile, ognuna differente, con effetti, ma soprattutto conseguenze differenti. Raggiungere la vetta di una montagna attraverso una lunga, ma soddisfacente scalata non è la stessa cosa del raggiungerla con un elicottero. Fare la Madonna del Ghisallo in bicicletta è ben diverso dal farla in motorino. Vincere una partita con le proprie forze, il proprio sudore e il proprio talento, è ben diverso che vincerla pagando l’arbitro o dopando i giocatori. Non a casa ho utilizzato il doping come ultimo esempio, perché il calcio moderno, inteso come sistema, accetta un doping iniquo come l’indebitamento smodato, che pone le società e i club su piani differenti. Non tutti infatti possono indebitarsi come vorrebbero, il che significa che non tutti i club possono investire come vorrebbero. E questo porta a uno squilibrio serio, di cui però parleremo magari nel prossimo articolo.
Tornando a noi, il calcio è malato non perché la sua economia è squilibrata, questa è solo una delle tante conseguenze. No, il calcio è malato perché la sua visione, spasmodicamente indirizzata alla ricerca del risultato al di là di tutto, è profondamente patologica. Se ancora vi sia dubbio in merito, ricorro come spesso faccio alla dimensione aziendale a me nota per deformazione professionale. Si dice spesso che il calcio sia un’industria, e le società al suo interno aziende. Bene, se così realmente fosse, messa in un qualsiasi altro settore produttivo, ogni società di calcio italiana fallirebbe miseramente nel corso di un anno, se non meno. E questo non per semplici motivi economici, ma perché mancano completamente di visione. Chi rincorre solo ed esclusivamente il risultato, nel mondo dell’economia aziendale si schianta nove volte su dieci. E se la decima si salva, molto spesso è per puro caso. Le aziende, quelle belle, quelle serie, quelle con una lunga vita e che apportano reale valore nel mondo - che dovrebbe essere primario tra i suoi scopi -, sono quelle che programmano e progettano a lungo termine. Quelle straordinarie addirittura programmano oltre la vita dei loro stessi ideatori, istinto basilare del concetto artigiano. Prendete i progettisti e i costruttori del Duomo o, in epoca più moderna, della Sagrada Familia di Barcellona. Loro si misero in opera, pur sapendo che non ne avrebbero visto la fine. La loro visione andava oltre la loro stessa vita. Se così non fosse stato, il mondo oggi sarebbe assai povero. Magari dicendo ciò sono andato un po’ oltre. Nessuno pretende che i proprietari delle società di calcio pensino e programmino a 50 o 100 anni, sarebbe anacronistico. Ciò nonostante, il loro modo di operare da più di vent’anni a questa parte non ha apportato nessun valore aggiunto al loro stesso mondo, per non parlare del mondo visto in un contesto generale. E questo ha portato alla rovina, economica e morale. Prendete il calcio infantile e giovanile: una volta i campioni del futuro crescevano negli oratori, dove TUTTI avevano diritto di giocare. Chi era bravo poi faceva della sua passione una professione, chi non lo era, quantomeno si era divertito e aveva imparato a stare con gli altri. Oggi no. Oggi i “campioni” del futuro sono cresciuti da scuole calcio che cercano subito di instillare concetti finalistici in semplici bambini, i quali spesso giocano in campi con spalti ricolmi di genitori sbraitanti come bestie. Mi dispiace essere così duro, ma questa è una cosa che schifo profondamente e non riesco a trattenermi dal sottolinearla. E se giungiamo a trattare in un simile modo dei puri infanti, come possiamo pretendere che il calcio professionistico, che proviene da quella visione becera del mondo, faccia da esempio? La nostra cultura calcistica è decaduta per questo, amici miei, e l’economia non centra niente. Il crollo economico è, lo ripeto ancora una volta, solo una conseguenza e, per questo, non c'è riforma economica del mondo del calcio che lo possa far risorgere. Si guardi al Fair Play Finanziario. Di base era un’ottima idea economica, con solidi valori, anche se con armi spuntate. Non ha portato a nulla. Non lo ha fatto perché, sebbene accettato come legge, è stato inviso alla maggior parte delle società sin dal principio. Ciò perché una visione di equilibrio, di solidità e di equità non fa parte della loro visione. 

Possiamo infatti inventarci tutti gli artifizi che vogliamo, promulgare norme e indire riforme dal punto di vista economico per cercare di salvare il calcio, ma sino a quando questa cultura così decadente e priva di anima continuerà a permanere, e non sarà eradicata completamente, nulla cambierà e niente migliorerà. 

Un abbraccio

Igor