Scritto con la mia fidanzata Alice

IL RACCONTO È TRATTO DA UNA STORIA VERA, ROMANZATA PER ADEGUARSI ALLA NARRAZIONE. ALCUNI FATTI SONO REALMENTE ACCADUTI, ALTRI SONO FRUTTO DI FANTASIA. SECONDO EPISODIO DELLA TRILOGIA BRASILIANA, INIZIATA CON IL RACCONTO SUL MARACANAZO. BUONA LETTURA!

Sono Kaina, ho 7 anni. Vivo nella Cicade de Deus, a Rio de Janeiro. Amo la mia città e amo tutto il Brasile. Anche se, beh… è un po’ pericoloso girare per I vicoli della mia città. Forse non solo un po’. Proprio ieri hanno sparato a Jersinho, il proprietario del negozio di frutta, dove vado con spesso con mamma per fare la spesa. Perché? Non ha voluto dirlo, siamo tutti accorsi, ma lui era steso per terra, ancora sconvolto da ciò che era accaduto. Non aveva mai fatto nulla a nessuno. La sua unica sfortuna? Essere nato fra i deboli, i poveri. Anch’io, sono debole e povero. Me lo dice sempre Alemano, il figlio del capo della banda che governa la nostra favela. La mamma dice di non rispondere, perché dice potrebbero succedere cose molto brutte. Ma io, cosa ho fatto?

Oggi Alemano mi ha dato un pugno, al volto. Perché? Non gli ho dato la caramella che gli spetta ogni giorno, perché è il capo. Nemmeno Joao e Andrè gliel’hanno data, ed entrambi hanno incassato il colpo, senza rispondere. Venuto il mio turno, avrei voluto contrattaccare. Non è giusto che lui possa avere una caramella al giorno, e noi no. È un bambino anche lui, o sbaglio? Tornato a casa, la mamma mi ha messo un pezzo di cipolla sul livido: dice che fa bene, e io mi fido, nonostante faccia malissimo. Racconto a mamma l’ingiustizia, ma lei, sospirando, spostando il suo sguardo verso il sole calante, il magnifico sole calante di Rio, mi dice “Kaina, un giorno gli farai vedere, ma non è oggi quel giorno. Né domani, probabilmente.” Io vivo sempre nella speranza, è l’unica cosa che ci rimane, per andare avanti. Domani andrò dalla zia per aiutarla a riordinare la casa: la scorsa notte una banda di ragazzini si è introdotta in casa sua, ma non è riuscita a rubare niente. Di contro, l’ha messa completamente sottosopra. Anche la zia… forse è vero che la forza, la forza brutta, è l’unico modo per farsi rispettare…

Mi sono svegliato, di notte. Uno sparo, sordo, proveniente dalla camera della mamma. Mi volto verso la finestra, o meglio, il buco nel muro: la luna è a metà del suo percorso. Saranno le una, massimo le due, penso. Grida. Grida. Grida. Mia mamma sta gridando, di terrore. Sento un secondo sparo. Un flebile lamento spira dalle sue labbra, quasi impercettibile. Ma io lo sento, lo sento chiaro. Chiaro come una folgore nel pieno della notte più buia. Tagliente, come una coltellata al petto. Mamma! Corro subito in cucina e vedo delle ombre muoversi: appena mi notano, si dileguano nel buio della favela. Steso, a terra, il corpo di mamma: mi avvicino a lei, è ancora viva! Cerco di chiamare soccorso, do voce alle mie giovani corde vocali, ma lei, dolcemente come se mi stesse cullando, mi chiama a sé “Kaina… Kaina mio… creatura mia… sca… scappa dalla zia. Ritorneranno… questa stessa notte, per prendere ciò che cercano. Ricordati che la mamma ti vuole… bene… Kai… na” Mamma! Mamma! Ma… ma… mamma… ti prego, svegliati… dimmi che ci sei ancora. Scoppio in lacrime, come non era mai accaduto. Il suo vestito si bagna di calde lacrime, le mie. Il suo cuore batte ancora, ma piano, piano. Sempre più piano. Premo la mia testa sul suo petto. Io non ti posso lasciare mamma. Morirò con te, difenderò il tuo corpo. Tu mi hai dato la vita, ma non sono stato io a deciderlo. Ma adesso posso decidere di rimanere con te. Prima dell’ultimo, stanco, respiro, mi dice “Scappa…” e il suo grido si perde nel buio della notte più oscura della mia vita. La casa ancora rimbomba dei suoni strazianti di pochi minuti fa. Devo scappare. Scendo in strada, confuso, con le mani insanguinate, ancora calde, mentre mamma è in casa. Morta. Mi guardo attorno, è buio. Cerco di trovare un punto di riferimento, per raggiungere la casa della zia. Non è lontana, ed avrà sentito gli spari. Non si sono nemmeno preoccupati di silenziarli. Ancora nessuno accorre, le strade sono deserte ed io, unico, lascio dietro di me una scia rossa, infernale. Un lampione, che illumina a intermittenza, mi fa capire che sono arrivato finalmente. La zia è appoggiata con la spalla allo stipite, freddo. Sta piangendo. Appena mi vede, sussurra dolcemente il mio nome, accompagnandolo a quello della sua sorella appena morta. Lei sa tutto. E mi stava aspettando, per accogliermi ed educarmi. È sola, ma felice. Eppure avrebbe tanto voluto un bambino, mi diceva spesso la mamma. E non me lo dirà mai più. Adesso quel bambino sono io. Se c’è qualcosa che in me appartiene ancora all’infanzia.

Noi ragazzini della favelas dobbiamo crescere velocemente. E non dobbiamo essere mai bambini, perché I deboli muoiono, qui. Mia mamma la chiamava la legge del più forte, perché vincono e vivono sempre e soltanto i più forti. Ma non mi hai mai educato per diventare il più forte, ma ad essere me stesso. “Non voglio tu vada per la strada seminando panico, che ognuno ti guardi e tema per la sua vita, che io stessa venga considerata come creatrice di un criminale. Kaina, pensa sempre con la tua testa.” La zia, dal canto suo, ripeteva le medesime cose della mamma. Non volevano un cattivo in famiglia, un potente, ma preferivano io mi divertissi con i bambini, perché un giorno, tutto il bene fatto mi sarebbe stato ridato. Come anche il male che avrei fatto. E se il mondo funziona così, bisogna cercare di fare solo del bene.

Ciononostante, sono veramente pochi i momenti in cui mi posso divertire. Uno di questi è quando vado a scuola. Incontrare I miei amici, anche quelli più distanti, chiacchierare prima, durante (facendo arrabbiare così le maestre) e dopo le lezioni, ricordando gli scorsi anni e pensando al proprio futuro, e apprendere nuove curiosità, scoprendo ogni giorno che al mondo non vi siamo solo noi, ma milioni di altre magnifiche creature, simili a noi. Ma quest’anno non sono ancora andato a scuola, benché sia già febbraio. Da quando si è trasferito a Vila Cruzeiro, qua vicino, l’Imperatore, la gang che governa le due favelas ha chiuso tutte le scuole, che sono diventate luogo di crimini e di spaccio, mascherato da semplice chiusura per rinnovamento edilizio. Ma chi è l’Imperatore? Mia mamma lo chiamava così, sempre. Non si può nominare, diceva. Chiunque avesse fatto il suo nome, chiunque si metta contro di lui, viene portato in un luogo che nessuno conosce a da lì non esce più. Solo la zia mi ha detto chi è l’Imperatore, ma mi ha pregato di non parlarne mai con nessuno: la sua identità deve rimanere segreta, ma lei lo ha saputo dal cugino dell’Imperatore, il padre di Alemano.

Questo misterioso uomo è Adriano Leite Ribeiro, un famosissimo ex calciatore. Ha giocato per Roma e Inter, due squadre italiane. Anche Ronaldo ha giocato per i nerazzurri. Lo so perché è il mio giocatore preferito, e sì, io amo il calcio. Come tutti I ragazzini della mia età che vivono alla Cicade de Deus, che, da quando hanno chiuso le scuole, è diventata una sorta di campetto da calcio: ogni vicolo, ogni singolo tratto di terreno è buono per giocare, basta avere con sé un pallone, o qualcosa che possa rotolare. Abbiamo formato una squadra di calcio, la Esperanca, e giochiamo contro altre squadre di altre favelas, nel miglior campo che abbiamo: si trova a poca distanza da casa mia, vicino alla casa di Jersinho, il fruttivendolo. È in cemento, con alcuni buchi enormi in alcune parti. Mi sono già slogato la caviglia un paio di volte, ma che ci possiamo fare! Ogni anno paghiamo al capo della favela centinaia di reais, che dovrebbero servire a mantenere le nostre abitazioni, le strade, il campo, a garantirci l’acqua potabile e l’elettricità, ma nulla di tutto ciò che ci era stato promesso, ad oggi, è arrivato... Ma questi sono problemi da grandi, mi diceva la mamma. Io all’inizio le ho creduto, ma non potersi lavare per giorni non riguarda solo i grandi. Essere costantemente sotto fuoco nemico non riguarda solo i grandi. Siamo noi bambini, noi, piccoli e indifesi, a pagarne le conseguenze. Una settimana fa è morto David, uno dei miei compagni di squadra, ferito in uno scontro a fuoco in piazza. Non volevano uccidere lui, ma si è trovato in mezzo. Quella era la sua colpa. Stava semplicemente passeggiando con il suo cagnolino, Spicy, un meticcietto color peperoncino trovato pochi giorni prima. Si era subito affezionato, ma, come la vita mi ha insegnato, sin troppe volte, la felicità va coltivata e sfruttata sino in fondo, per poi non avere il rammarico di non aver fatto il massimo. È morto anche Spicy, qualche giorno dopo. Solo, vicino al corpo del suo padrone, gettato in un cassonetto. Nessuno era andato a dargli degna sepoltura: era orfano di entrambi i genitori, mentre gli zii lo avevano rifiutato perché “senza prospettive calcistiche”.

Per questo, mi sono arrabbiato. Ne ho parlato con la zia, una volta, in cucina. Stavo facendo merenda, mentre mamma era a casa, a riposarsi. Le avevo accennato di questo fatto, e lei ha cercato di chiudere velocemente il discorso. “Kaina, non posso permettermi di giudicare l’educazione e le scelte di un’altra famiglia”. Ma io sono troppo curioso e testardo, e una risposta così non mi sarebbe mai bastata. “Zia, non dirmi queste cose. Lo sai meglio di me che non è giusto. E te lo dico perché: noi bambini possiamo fare quello che vogliamo, della nostra vita. Non abbiamo deciso noi di essere bravi a calcio, e nemmeno di andare a vivere da qualcuno che non ci accetta per quello che siamo.” La zia rimase allibita, e non seppe dire di più. Non proferì parola fino a quando me ne andai per tornare a casa, visto che era tardi ormai. Avevo perso la percezione del tempo, sperando che la mamma non si fosse preoccupata. All’uscio mi disse “Kaina, hai ragione. Ma tienila per te stesso, per calmare la tua anima buona. Un giorno, cambierai il mondo.”.

Qui in Brasile, noi ragazzini sembriamo nati solo per giocare a calcio: quando uno è scarso, automaticamente non è più degno di stare nel gruppo, e viene allontanato, bullizzato, picchiato. O va in porta. Che lo voglia o no. Questo succede spesso negli altri gruppi, per esempio in quello di Alemano: nel nostro, invece, dove cerchiamo di essere più uniti, nessuno è escluso. Solo chi non rispetta le regole lo è, o chi insulta i propri compagni, o i suoi genitori. Noi non dobbiamo giocare a calcio, noi possiamo farlo. Ma le nostre famiglie, spesso, sperano che noi facciamo solo quello: non è il mio caso, per fortuna, perché la zia mi spinge sì a giocare, ed è la mia prima tifosa, ma soprattutto a studiare, che reputa la cosa più importante. Perché studiando saremo più forti dell’ignoranza, che oggi ci lascia in balia di persone malvagie e senza scrupoli, come Alemano e la sua famiglia. Per fortuna che ho il calcio, che riesce a colmare il vuoto che si trova in me, dopo la scomparsa della mamma. Ho cominciato a giocare sempre con maggiore frequenza, non abbandonando lo studio, però: la zia ogni giorno riesce a ricavare due o tre ore per insegnarmi il portoghese e la matematica. Dopotutto, lei è un insegnante in pensione, che ho la fortuna di avere in famiglia. Perché qui in Brasile, la cultura costa cara ed è privilegio dei ricchi. Per questo noi poveri rimaniamo poveri.

È un mese, ormai, che è morta la mamma. Un mese terribile per me. Quante volte mi sarò svegliato nel sonno, alle una, o alle due, sudato in fronte, ansimante? Troppe. Impossibile dare un numero. La sua sagoma scura, urlante di dolore, straziata da dei crudeli assassini, mi perseguita nel sonno. Non sono nemmeno riuscito ad assistere ad una partita dei mondiali che si sono appena giocati, qui, nella mia città. Non riuscivo. Fiumi di turisti hanno inondato la mia terra, passando anche per le favelas. Per la prima volta ho visto la polizia proteggere anche il mio quartiere. Peccato che, oggi, che è tutto finito, la polizia se ne sia andata con le stessa velocità con la quale è arrivata. Cosa gliene può importare al Brasile di noi piccole formiche? Noi non serviamo a nulla. Siamo considerati alla stregua dei più infimi criminali, perché la nostra colpa più grande è esser nati poveri, deboli. Nascere è una colpa, qui. O sei ricco, o sei il nulla. O hai talento, o non vali nulla. Insomma, per noi non c’è spazio qui, per questo diventiamo criminali, ma la zia non vuole che io sia uno di loro: io devo essere me stesso. Il contatto con la gente mi spaventa, da quel giorno. Ho il terrore che qualcuno mi uccida, o che mi rapisca e mi porti dove nessuno mi conosce. Ma, allo stesso tempo, vorrei farla finita. Dopo la sua morte, ho perso anche l’ultimo membro della mia famiglia più stretta. Rimane solo la zia, ed anche solo il pensiero di perderla mi annebbia la mente, mi offusca la vista. Sono già svenuto un volta, per questo. Almeno, è quello che mi hanno detto i miei amici. No... non ce la faccio. Alemano è diventato più violento del solito, adesso ci minaccia persino con una pistola ogni volta che gli disobbediamo, mentre la zia non riesce più a garantirsi tre pasti al giorno, ma non mi ha mai chiesto di andare a lavorare... "speriamo Kaina, un giorno sarà tutto finito. Ma non voglio che tu lavori: sarebbe esattamente ciò che vogliono loro, la tua ignoranza. Studia dai libri che ti ho comprato, gioca a calcio con chi rimane, non attaccare briga con la gang. Kaina, tu puoi andare oltre, perché sei un bravo ragazzo. Un giorno sarà tutto finito...”

Zia, quel giorno è arrivato. Adesso ho 11 anni, e qui, nella mia favela, è arrivato, un giorno, un angelo. Un angelo umano, che ha ridato a tutti noi il sorriso, quel sorriso perduto molto tempo fa, davanti alla porta di una scuola chiusa, abbandonata. La scuola ha riaperto, completamente rinnovata, con nuovi banchi e nuovi quaderni. Finalmente posso lasciare la zia a casa, a riposarsi sotto il nostro albero di platani. Dopotutto, se lo merita. Questo angelo ci ha ricostruito il campo da calcio, completamente. Adesso non ci sono più buche profondissime, dove rischiavamo di farci male, ma solo un bel manto di erba sintetica, morbido al tatto. Adesso non ci sono più i gomitoli di calzini sporchi, ma dei veri palloni. Adesso non siamo più in canottiera, ma abbiamo delle divise, e non ci dobbiamo cambiare più davanti alla folla, ma abbiamo persino degli spogliatoio, con l’acqua corrente. Come a casa. La zia è finalmente felice. Sì, perché quel giorno è arrivato. Il giorno in cui avremmo finalmente potuto giocare a calcio tranquillamente, all’aperto, senza il pericolo di essere presi di mira dagli spari degli adulti. Nessuno spara più. Alemano e suo padre, oltre all’Imperatore, sono stati portati via, in carcere, dicono tutti. Nessuno ha più paura. Io, recentemente, ho aperto un canale su Youtube: ho già 5000 iscritti, e il numero continua a salire. Parlo di calcio, di bambini, di videogiochi, un po’ di tutto... ma l’importante è che sia sincero. Perché io sono un bravo ragazzo, come dice la zia. E cambierò il mondo. Che i potenti lo vogliano o no. Nessuno mi fermerà. Perché io sono Kaina e so cosa vuol dire vivere nelle favelas. E no, non voglio che qualcuno ci viva ancora.

In onore della libertà di scelta, un componimento scritto da me:

L’uomo che sarà
libero
di sentire
il suo cuore
è l’uomo che
oggi, muore
sotto una pioggia
di insulti.
Ma domani
saprà portare
uno scudo
e un megafono,
perché il mondo
va cambiato
e il proprio cuore
va difeso

di Federico e Alice