Io vivo la società costantemente, un po’ per studio, un po’ perché non riesco mai a stare fermo e un po’ perché, stando con i miei amici, ascolto le loro opinioni, le loro idee e, a loro insaputa, trascrivo tutto ciò che è trascrivibile nel mio archivio portatile: la memoria. Amici, ma anche persone che non conosco.
Ad esempio, sul tram, un mezzo che prendo spesso per andare in facoltà universitaria – almeno fin quando si poteva, fin quando poi tutto non è diventato telematico – ascolto anche sconosciuti. Già, perché mi metto in piedi, mi attacco al corrimano e, come un ebete ai giorni attuali, guardo il vuoto. Perché ebete? Beh, perché ormai tutti, o quasi tutti, almeno il 90% di noi, è incollato con il suo paio di occhi allo smartphone. Viene catturato in un modo tale che nessun’altra cosa riesce a replicarlo o ad eguagliarlo, eppure, ci riesce uno schermo da 5/6 pollici. Quindi, io, come quattro o cinque persone sopra il mezzo inondato da almeno un centinaio di esseri umani, ci scolliamo da tutto ciò: c’è chi legge un libro, chi parla con il compagno di scuola nel tragitto per andare a scuola, chi legge il giornale e, infine, ci sono io che guardo il vuoto. E mentre scorgo i palazzi, il marciapiede, la gente che passeggia sfrecciare alla velocità del tram, ascolto ciò che quelle quattro o cinque persone hanno da dire. Tra queste, c’è chi parla di calcio. Una volta c’è chi elogia il suo idolo, altre chi non è soddisfatto della terna arbitrale, altre che criticano la propria squadra per aver disputato una partita al di sotto delle aspettative, altre che sono fiere della prestazione e altre che si prendono in giro a vicenda per il derby appena giocatosi. Insomma, chi più o chi meno, parla di calcio. Viva la gente che parla di calcio. Ed io, da buon ebete che mi ritrovo, ascolto, elaboro e deduco. La mia deduzione? Il calcio è cambiato, e di noi, che cosa ne rimarrà?

Tecnologicamente migliori o umanamente peggiori?

Da quando è stato creato il calcio tante cose sono cambiate. Ma d’altronde c’era da aspettarselo, niente rimane invariabile. Tutti ci evolviamo, mutiamo e cambiamo, niente rimane statico e fermo sui propri passi. Persino il nostro pianeta cambia continuamente, figuriamoci se non cambia uno sport inventato da noi mammiferi. Anche se a cambiare sono gli elementi associativi, ciò che compone la scena di un atto fantastico. L’obiettivo, però, rimane uguale: prendere la palla e buttarla nella porta avversaria. Ma ciò che lo rende speciale, sono i numerosi fattori circostanziali che compongono questa sinfonia meravigliosa. Fattori che vedremo gradualmente, ma che è bene essere consapevoli che esistano e che sono loro che danno colorito a quello che è l’obiettivo rimasto invariato nonostante i secoli trascorsi. Uno di questi diversi fattori è proprio l’arbitro. Eh già, una persona che fa da mediatore deve pur esserci, altrimenti sarebbe una bolgia continua. Già a volte lo è, ma senza un’istituzione che possa dettare le regole in campo, sarebbe il delirio. Nulla potrebbe essere gestibile senza l’ausilio di una figura di mezzo: senza una costituzione, un codice penale, un codice dei diritti, insomma, senza tutto ciò, noi cittadini saremmo allo sbaraglio e, ognuno di noi, farebbe di testa propria; senza un conduttore nei salotti televisivi o telepolitici che medi una conversazione – talk show – nessuno capirebbe nulla e non arriverebbe nessun messaggio a casa; senza un rispetto delle regole, senza un’istituzione con più poteri di qualcun altro regnerebbe il caos. Insomma, nel bene o nel male, che sbagli o meno, serve. E l’arbitro è quella del settore calcistico. Oltre a lui, però, ce ne sono altri: quarto uomo, assistenti di porta, guardalinee, insomma, chi ne ha più ne metta, ma tutto per rendere perfetta – o quasi – la partita. Con il tempo, però, la portata tecnologica è aumentata a dismisura. Gli arbitri vedono essere coadiuvati da un microfono il quale permette di comunicare fra loro. In questo modo, essi non si sentono più soli, ma vengono “ripresi” nel caso sfuggisse loro qualcosa. Poi ecco che viene introdotta la goal line technology in grado di superare l’occhio umano e avvisare l’arbitro se la palla abbia valicato la linea di porta. Una svolta incredibile, capace di mettere a tacere tutti gli errori visti in precedenza. Gli errori passati rimangono, è vero, ferite dovute ad imprecisioni che sono valse più di tre punti non si sono rimarginate, ma è stata un’introduzione capace di eludere tutti i potenziali sbagli futuri. Infine, eccoci arrivare ai giorni più recenti che vedono l’introduzione del VAR, che tutti noi conosciamo e di cui non necessita di alcuna spiegazione. Tutto estremamente bello sì, ma in questo modo si è ucciso qualcosa di umano. Ovviamente il mio è un commento, una descrizione del cambiamento a cui tutti, anche noi, siamo stati ormai abituati. L’arbitro, ormai, si è avvalso di uno strumento potentissimo che ha messo fine anche a quello che poteva considerarsi dubbio. L’ultimo residuo di umanità è rimasto nella scelta, cioè lui stesso, potrà decidere se andare al VAR o meno; lui stesso potrà decidere se fidarsi del suo istinto o affidarsi alla tecnologia; lui stesso, ad ogni partita, deciderà se far vincere la tecnologia, l’innovazione o rischiare delle sue capacità, lasciare il beneficio del dubbio, giocandosi il tutto per tutto, affidandosi all’attesa che potrà celebrarlo a fine match o criticarlo, se non insultarlo. Tutto questo aiuta, è importante, ma la perfezione è un bene o un male? Ormai non sappiamo nemmeno se esultare subito ad un gol per paura che l’arbitro, non sicuro della sua scelta, torni sui propri passi, utilizza il VAR e, magari, lo annulla. Giustamente, certo, ma lo annulla. Ed è brutto vedersi annullare un’emozione, è terribile. Però, allo stesso tempo, sarebbe distruttivo piangere per un gol preso e disperarsi ancor di più perché l’arbitro non è intervenuto: “Ma come, adesso che hai la possibilità di correggerti non lo fai?”. Quando scegliamo la nostra compagna di vita, quando raccontiamo tutto al nostro migliore amico o amica che sia, quando vediamo il nostro amico a quattro zampe scodinzolare per casa, tutto ciò, lo abbiamo scelto o lo sceglieremmo per la sua presunta perfezione o consapevoli dei difetti, degli errori e degli sbagli che farà? La perfezione fa acquolina a chiunque, ma quando la tocchiamo per mano non ne saremmo mai sazi e ci stuferemo anche di lei. Forse anche la perfezione possiede tratti di imperfezioni. Quindi, tecnologicamente migliori o umanamente peggiori?

Tifoserie digitali o digitalmente tifosi?

Per alcuni è stata un’invenzione per altri un’umiliazione. Per colpa del Covid-19 ci hanno sostituito. Guardate gli spalti, ma fatelo adesso, perché il campionato finirà a breve. La prossima è l’ultima giornata. Ma sarà l’ultima giornata anche per noi tifosi? No, per fortuna no. Forse ritorneremo a settembre, ma mi scoccia utilizzare tale avverbio. Questa incertezza, questo tenermi sulle spine, non so a voi, ma a me dà un enorme prurito alle sinapsi. Un dubbio che rimane e permane, e tutto, per un nemico invisibile. Invisibile lui, ma visibili i danni che compie. E le tifoserie digitali? Le facce dei tifosi riempire gli stadi? Le sagome dei supporter a riempire i sedili blu e le tribune? Un danno enorme. Un danno alla nostra immagine, uno scempio al valore umano. Potrei denunciarli per copyright o per danni alla moralità. Io non sono una persona che boccia la tecnologia, ma come ogni cosa, bisogna usare una giusta dose. Se si passa troppo tempo con la fidanzatina, alla lunga può nuocere il rapporto e, i bei momenti, possono essere subito prosciugati. Si va ad uccidere una delle cose più belle: l’attesa; se si studia troppo potrebbe essere controproducente: ci si deconcentra molto più facilmente e, uccidendo i rapporti sociali, diventa una sorta di harakiri. Insomma, come ogni cosa, anche la tecnologia va bilanciata. Di fatti, con queste tifoserie, si è superato il limite, si è andati oltre il tollerabile. E se magari fosse un avvertimento a noi stessi? Un invito a tornare agli stadi? Magari un messaggio subliminale che, solo ai più intuitivi, è parso ovvio. Sì, esatto, come una sorta di provocazione. Se ci pensiamo bene siamo diventati, tutti, estremamente digitali. Prima era di prassi organizzarsi con gli amici per andare allo stadio, per vedere dal vivo la propria squadra del cuore, i propri giocatori; era di prassi portarsi il panino o prenderselo dai paninari lì fuori lo stadio, dove si parcheggiano i motorini; il panino e la birra che poteva accompagnare. E poi, con te, c’era il tuo migliore amico, pronti a condividere e spartire ogni singola emozione, catastrofica o sorprendente. Magari ci scappava anche una bella schedina. Si, quella che, prima di andare allo stadio, era d’obbligo, e speravate di prenderle tutte, quella cifra mastodontica che faceva sognare. Adesso anche quelle si sono digitalizzate. E poi, si è passati da “domenica stadio eh” a “domenica a casa tua?”, per poi rimpicciolirsi ancora e vedersela da solo. Con una birra senza panino che sostituisce il migliore amico. L’emozione non è più condivisa vis a vis ma viene mediata da uno schermo attraverso pratiche di second screen: mentre guardo la partita in televisione, attraverso il cellulare, la commento insieme al mio amico. Non ci abbracciamo più come facevamo allo stadio, vicino anche a degli sconosciuti, ma abbiamo limitato il tutto ad una reazione superficiale su Facebook o un cuore su Instagram. Adesso è possibile vederla ovunque la partita: smart tv, smartphone, pc, tablet, mediante siti pirata, insomma, di tutto. Con lo stadio - il luogo più bello - che adesso viene sostituito da tifoserie digitali, a noi, digitalmente tifosi.
Cosa ne sarà di noi? Verremo sostituiti da quelle sagome finte, dove le nostre urla coriste vengono anch’esse sostituite da audio registrati, oppure torneremo ai nostri posti con il migliore amico, un panino e una birra in mano? Quindi, tifoserie digitali o digitalmente tifosi?

Distanziamento sociale o socialmente distanziati?

Una domanda che a tratti sembrerà scontata, a tratti serverà più di una lettura per insediarsi correttamente a livello comprensivo, altre invece, facilmente intuibile. Ma un punto interrogativo più che lecito. Come scritto ad inizio articolo, a settembre si dovrebbe tornare agli stadi. Si dovrebbe, virus permettendo. Ma non sarà più come prima. Non ci sarà più la possibilità di abbracciare uno sconosciuto accanto a noi. Forse nemmeno il nostro amico, ma in quanti non lo hanno già fatto? Sì è vero, mi soffermo spesso nell’abbracciare una persona che non conosciamo allo stadio, ma non per chissà quale motivo in sé, ma perché è un’esperienza magica. Cioè, ci ritroviamo a condividere con una persona, che fino a cinque minuti prima non eravamo consci neppure della sua esistenza, un’emozione, che sia bella o brutta, ma un’emozione. Ed è una cosa meravigliosa. Adesso, invece, cosa ne sarà? Tutti distanziati l’uno dall’altro e “discriminati” su chi può andare o meno. Scapicollarti per prendere un biglietto e stare distanziato sia dal tuo migliore amico che dallo sconosciuto. Un’emozione che viene appiattita inesorabilmente. Ma magari questo nemmeno ci disturberà più di tanto, perché, tornando al paragrafo precedente, come una sorta di fil rouge, già siamo socialmente distanziati. Quante volte per pigrizia, perché si era stanchi e si voleva rimanere a casa per conto proprio, perché magari pioveva e nessuno andava di uscire di casa, prendere la macchina e raggiungere il proprio amico per vedere la partita assieme con quel tempo burrascoso, capitava di rimandare? “Ma si, facciamo la prossima volta”, oppure, “Guarda oggi non posso, facciamo la prossima settimana”, e poi magari, quella settimana, era quella del lockdown. Tutto questo è strano, eppure, forse non così sorprendente. Già eravamo socialmente distanziati prima, figuriamoci adesso con il distanziamento sociale. Quindi, distanziamento sociale o socialmente distanziati?

Lascio a voi le risposte, tra i commenti qui sotto o tra i pensieri che, chi più o chi meno, attanaglieranno le vostre menti. Un articolo fuori dalle mie solite righe. Sono sempre impegnato a fare analisi, dare opinioni che stavolta ho trascritto i miei interrogativi, i miei dubbi e le mie inquietudini qui a voi.
Quindi, cosa ne sarà di noi?