Anzitutto c’è da chiarire come la Supercoppa Italiana da più di 20 anni, in più di una edizione, sia stata giocata all’estero e non sempre in Paesi Cattolici o comunque di cultura strettamente occidentale. Questo perché è per il momento una delle poche opportunità che ha il calcio Italiano di mostrarsi da vicino a Paesi extra-europei (che rappresentano un enorme potenziale economico) e ovviamente tale aspetto comporta degli introiti economici sia diretti che – soprattutto – di indotto nel breve e medio termine.

L’edizione di quest’anno sarà giocata in Arabia Saudita, Paese particolarmente ricco e anche sviluppato dell’area medio orientale. Uno degli elementi su cui diventa doveroso soffermarsi è che già da molti anni l’Arabia Saudita è il maggior partner commerciale italiano nell’area mediorientale grazie a decine di importanti aziende italiane che esportano e operano in loco, con nostri connazionali che lavorano in Arabia e nessuno di tali rapporti è stato interrotto per i motivi di diversità culturale, sociale e normativa che in questi giorni sembrerebbero invece rappresentare uno scandaloso e insormontabile scoglio, per il quale secondo molti il calcio dovrebbe invece comportarsi diversamente da tutti gli altri ambiti di business. Perché al business del calcio si chiede di rinunciare a queste vetrine quando invece negli altri settori nessuno si pone tali questioni morali? Questo, signori cari, cercare di boicottare proponendo assurdi “scioperi del tifoso” è bigottismo allo stato puro.

Ora, è ovvio ed evidente che per noi Occidentali, che abbiamo lottato decenni (forse secoli, per certi temi) per raggiungere il nostro attuale livello di Stato di diritto, di tutele, di parità, il fatto che in certe aree del Mondo le donne non abbiano gli stessi diritti degli uomini ci fa impallidire, ci fa sostanzialmente disgustare. Ed è giusto che sia così: perché in effetti lo è, disgustoso. Però il calcio è un business come gli altri, e come gli altri business se vuole sopravvivere o addirittura svilupparsi deve seguire ed accettare le logiche del mercato. E portare certe partite nei Paesi Arabi è una di queste. Ovviamente c’è un costo, come per tutti gli investimenti, e in questo caso tale costo è di natura anche etica.

A questi aspetti di natura economica dobbiamo anche aggiungere che nessun cambiamento importante avviene rapidamente. L’Arabia Saudita, nei tempi più recenti, ha fatto alcuni passi in avanti verso una maggiore evoluzione sociale e culturale: non scordiamo che solo pochi mesi fa ha legalizzato la patente per le donne. Ma si tratta di vincoli che non possono essere cambiati dal giorno alla notte; e la stessa Arabia Saudita, nelle ultime settimane, è già stata teatro di altri eventi sportivi internazionali, cosa che rappresenta una volontà di cambiamento al quale il nostro calcio può, anzi deve, portare il proprio contributo. Può sembrare paradossale, ma è proprio grazie alla presenza del nostro calcio che, col tempo, le cose potranno cambiare così da aumentare sempre più i diritti delle donne in aree in cui storicamente sono deficitari. Se non siamo presenti noi Occidentali a dare il giusto esempio questo processo evolutivo non avverrà mai, per il semplice fatto che non esisterebbero riflettori del mondo puntati su questi Paesi e verrebbe quindi a mancare il motore principale necessario a questo tipo di cambiamento.

Chiudo con il passaggio più importante: a quanto pare pochissimi sanno (perché purtroppo spesso si esprimono idee senza avere le informazioni a riguardo) che le donne potranno entrare da sole alla partita senza nessun accompagnatore uomo, come scritto erroneamente da chi vuole strumentalizzare il tema: la nostra Supercoppa sarà ricordata dalla storia come la prima competizione ufficiale internazionale a cui le donne saudite potranno assistere dal vivo.

Quindi, come sempre, meglio avere le idee chiare e poi, eventualmente, sparare a zero; perché non sempre la prima impressione è quella giusta.

 

Matteo Capitoni