“Sto per morire”.

È l’unico pensiero che ho avuto per molti minuti durante quella tragica – che sarebbe potuta essere catastrofica - notte.

Io insieme ad altri miei amici ci eravamo messi in marcia, con me alla guida, alla volta di Torino per vedere la finale di Champions League in Piazza San Carlo. A me non era mai capitato di vedere una finale in un luogo così affollato ma sentivo la necessità di andarci perché in caso di vittoria sarebbe stata una festa indimenticabile.

Arriviamo alle 16.00 circa e ci posizioniamo a pochissimi metri dal monumento a Emanuele Filiberto di Savoia. Praticamente nel cuore della piazza. Le ore passano e ci raggiunge un mio amico torinese, con il quale ci eravamo messi d’accordo per vederci direttamente lì. Arrivano le 20.00 circa e inizia il collegamento. Nel frattempo la piazza si è riempita, capiamo subito che è eccessivamente piena, e in più ci sono decine, se non centinaia, di venditori ambulanti, intenti a smerciare bottiglie in vetro di birre che vengono poi depositate, una volta finite, sui ciottoli della piazza perché chiaramente non ci sono pattumiere nelle vicinanze e la possibilità di muoversi è praticamente pari a zero.

La partita inizia, i cori anche, l’entusiasmo è altissimo. Sfortunatamente il Real Madrid passa subito in vantaggio con un gran gol di Cristiano Ronaldo. Cala il gelo tra i migliaia di tifosi juventini lì presenti. Dopo qualche istante ripartono i cori e la Vecchia Signora pareggia al 27’ con una marcatura bellissima di Mario Mandzukic, uno dei beniamini. La piazza esplode, le spinte e le urla sono incontenibili. È tutto veramente bellissimo. Finisce il primo tempo sull’ 1 a 1 e le sensazioni sono comunque positive perché i bianconeri meriterebbero qualcosa di più ai punti. Al ritorno dagli spogliatoi il Real Madrid è tambureggiante, mette continuamente in difficoltà la porta di Buffon, fino al tiro deviato in rete di Casemiro. Nonostante la rete subita, continua ad esserci fiducia tra i fans, che va a morire nel momento in cui CR7 realizza la zampata del 3 a 1. Lo sconforto è tanto e la frase più ricorrente è la seguente: “cazzo non possiamo perderle tutte…”.

I mugugni continuano anche nei minuti successivi. Entra Cuadrado e si riaccende un piccolo barlume di speranza.
Ecco, Cuadrado, l’ultimo frame che ricordo di quella finale. Dopo poco istanti si alza un rumore stranissimo, mai sentito prima, come se dei bufali stessero correndo per la prateria, e ci mettiamo qualche secondo per realizzare che quei buffali erano degli esseri umani spaventati da qualcosa che venivano verso di noi. In un amen mi ritrovo per terra, con uno dei miei amici che, davanti a me in stile “effetto domino”, è precipitato sulla mia gamba: “Giovi alzati che se no me la rompi”. Nel tentativo di sollevarsi appoggia la mano per terra e si taglia con una delle tante bottiglie di vetro che ci circondavano. Proviamo a scappare, cerchiamo di capire cosa sta succedendo, ma entrambe le cose sembrano impossibili. Tutti parlano di un attacco terroristico, alcuni urlano che ci sono stati degli spari, altri che c’è stata una bomba. Proviamo a scappare ma non riusciamo perché le persone che vogliono fare come noi sono troppe. Troppe. Stiamo bassi, chiediamo ad altri ragazzi cos’è successo. Nessuno sa nulla. Dopo circa cinque minuti siamo fuori da questa “trappola per topi” chiamata Piazza San Carlo.

Fuggiamo. Corriamo. Ogni tanto gridiamo. Perdo due amici nella fuga e grazie a Dio riesco a stare con il terzo perché ho lasciato tutto in Piazza: telefono, portafoglio, chiavi di casa e chiavi della macchina (guidavo io, come detto all’inizio). Proviamo a chiamare a casa ma le linee sono intasate. “Sparano”. Corriamo. Ci nascondiamo all’interno di una Chiesa. Forse non l’idea migliore in caso di attacco terroristico di matrice islamica. Perciò decidiamo di spostarci. Il mio amico sanguina, ha un taglio molto lungo sulla mano. Facciamo irruzione in un ristorante dove non sanno nulla dell’accaduto. Entriamo in un bagno “fuori servizio”, che invece funziona, per medicarci. Il direttore ci fornisce una marea di fazzoletti ma non bastano. Dopo qualche minuto cerchiamo di capire il risultato della partita ma nessuno sa niente. Cerchiamo nuovamente di chiamare a casa e questa volta ci riusciamo. Come dire a mia mamma che probabilmente mi ritrovo nel mezzo di un attacco terroristico? A questa viene un infarto. Fortunatamente la prende meglio di quanto potessi immaginare, forse la mia voce l’ha rassicurata; nel mentre mio papà, insieme a quello del mio amico, salgono in macchina, con le chiavi di scorta della mia auto. Cantù (Como) – Torino in un’ora o poco più quando ce ne vorrebbero un paio. Che situazione. Noi riusciamo a rintracciare telefonicamente il nostro terzo amico, quello che era venuto da casa con noi, il quale era rimasto nei pressi della piazza e che ci era tornato quasi subito, capito che nessun atto terroristico era in corso di svolgimento.
A quel punto decidiamo anche noi di tornare verso Piazza San Carlo – tutti ci confermano che non è successo niente. Mi butto subito alla ricerca dei miei averi, soprattutto delle chiavi della macchina. E lì ho visto delle scene che non auguro a nessuno: ossa fuori dalla pelle, lembi di carne, persone a terra in condizioni gravissime e sangue. Tantissimo sangue. Rosso ovunque. Trovo il mio zaino, che ora ancora oggi utilizzo, ma niente marsupio con dentro portafoglio, chiavi e cellulare. Gli strozzini avevano già razziato tutto. Ero senza parole. Però l’immagine che non mi toglierò mai dalla testa sono le fila di scarpe ammucchiate nei vari angoli della piazza. Scarpe ovunque. Dopo più di un’ora di ricerca mi rassegno e capisco che non avrei mai più ritrovato i miei oggetti personali. Perciò decidiamo di spostarci in Piazza Castello mentre aspettiamo l’arrivo dei nostri genitori, dove c’è più luce e meno persone. Lì incontriamo il nostro amico torinese che tutto sommato se l’è cavata – fortunatamente – come noi. Ci avviciniamo verso un’ambulanza e il ragazzo che si era tagliato va a farsi medicare. Sono passate più o meno due ore dall’inizio del tutto. Dopodiché andiamo verso la macchina, luogo d’incontro con i nostri genitori, e scopriamo che Asensio ha realizzato la quarta rete e che Cuadrado, proprio lui, era stato espulso.

Vorrei dire che la storia è finita qui. Partiamo per tornare a casa, con mio padre alla guida perché non ho più la patente. Arrivato a casa mi faccio subito una doccia poiché ero completamente insanguinato. Ma continuo a perdere sangue – accadeva da 5 ore – da una delle due ferite. Vado al pronto soccorso e ci sto lì dalle 4 alle 7 circa: mi mettono 8 punti, 3 su una ferita e 5 su un’altra, e in più mi fanno una lastra perché sospettavano una frattura alla caviglia sinistra. Fortunatamente – l’ho detto spesso – nulla di rotto, semplice lussazione e una settimana di stampelle per non sforzare la gamba.

Dopo quasi 24 ore sveglio, mi accingo a dormire. Senza un telefono e senza la possibilità di rispondere a tutti quelli che mi avevano scritto su WhatsApp. Posto uno stato su Facebook e ricevo oltre 300 mi piace (mi sono sentito Chiara Biasi) e più di 1000 messaggi in 80 chat. Nella tragedia sfiorata ho veramente realizzato quanta gente mi vuole bene.
Mi ero ripromesso di non guardare mai più quelle immagini ma non ce l’ho fatta e la reazione è stata quella di un bambino dell’asilo quando si vede costretto a lasciare la mamma: una valle di lacrime.
Devo ammettere che ancora oggi ho paura quando sento rumori strani in luoghi molto affollati e mi vengono gli occhi lucidi se ripenso a quella lunghissima notte che mi porterò dentro per sempre. Purtroppo.

Quelli che hanno vissuto questa mia stessa tragedia devono ritenersi dei miracolati. Io lo sono.