Immaginate di riavvolgere improvvisamente il nastro della vostra vita, e notare in tal modo come una moltitudine di aspetti siano stati modificati nel corso degli anni: dall’aspetto fisico, con l’inevatibile effetto provocato dallo scorrere del tempo, alle esperienze che delineano nuovi tratti del carattere, con migliaia di dettagli incastrati l’uno con l’altro, figli dell’appartenenza a quella che ad ogni modo rimane pur sempre la stessa persona. A taluni ciò potrebbe provocare di conseguenza una profonda nostalgia di periodi in cui la vita assomigliava meno ad una corona di spine, ormai saldamente incollata al capo come al voler ribadire che quelle non sono altro che sbiadite fotografie; ad altri al contrario potrebbero succedere reazioni diverse tra loro per stravaganza o fantasia, guidate però da un unico comune denominatore, un qualcosa che lega da sempre l’uomo alla terra su cui poggia i piedi: l’interminabile lotta per la vita, quella “struggle for life” di cui parlava Charles Darwin nella sue teoria dell’evoluzione, ciò che ha generato il mondo per come lo conosciamo ormai oggi, una realtà dominata dai più forti. Come illustrato dalla filosofia darwiniana, pesantemente criticata in particolare dal cattolicesimo del tempo, ogni forma di vita presente sulla superficie terrestre è stata protagonista di un’estrema competizione per sopravvivere, in cui l’unica soluzione per restare in corsa è quella di adattarsi alle circostanze esterne; la nostra era racconta invece di un uomo non più costretto dall’ambiente a cambiare abitudini o connotati, ma nonostante ciò comunque felice di regalarsi ancora un’esistenza in cui la competizione gioca un ruolo determinante seppur in modo differente. Sin dai primi anni di scuola iniziano roventi gare di velocità e astuzia con i compagni di asilo per accapparrarsi i giocattoli più ambiti dell’istituto, con un emergente sentimento di possesso, il quale sembra già testimoniare un principio di volersi imporre sugli altri, malgrado ciò si compia in un’atmosfera di totale innocenza: con gli anni che trascorrono la voglia di trionfare ed essere “il migliore” accresce notevolmente, la fiamma della competizione inizia ad ardere nel profondo del cuore di ogni individuo che decide di mettersi in discussione, rischiando anche un esito inaspettato.

Nel calcio come nella vita, un sano spirito competitivo sta alla base di ogni sfida, e quando gli animi si scaldano come nella rovente Madrid dei "colchoneros", tale sentimento si trasforma in una sorta di mantra su cui affidarsi per accrescere la concentrazione: leader assoluto di una filosofia che non lascia spazio ad alcun mezzo termine è proprio l’argentino Diego Pablo Simeone, meglio conosciuto come el Cholo per i propri lineamenti fisici e caratteriali, egli è allenatore e capo carismatico di quella fortezza denominata Atletico de Madrid.

Un protagonista dallo stile inusuale per il timone di una società dalle ambizioni importanti, ma capace di calarsi alla perfezione nel ruolo che conduce all’interno di una realtà calda come quella madrilena, la quale non perde occasione per regalargli fiumi di ovazione, venerandolo come un Dio sceso in terra: impossibile tenerlo a bada per 90 minuti, Simeone è una vera e propria furia all’interno dell’area tecnica, dalla quale spesso viene fuori per strigliare i suoi, oppure per aizzare la folla come in un’arena dell’antica Roma; un soggetto unico nel suo genere, letteralmente inimitabile per l’energia che trasmette ad ogni singolo spostamento d’aria che lo coinvolge, il tecnico argentino assomiglia ad un uragano impersonificato nella sua figura umana, atletica e vorace come una pantera pronta ad azzannare gli avversari. Un animo selvaggio racchiuso nella sagoma del suo abito in tinta nera come la paura di chi è costretto ad affrontarlo, in più occasioni egli ha dimostrato di non temere affatto le critiche altrui per un modello di gioco statico e povero di idee in fase di manovra, poiché per l’allenatore albiceleste non esiste altro obiettivo che essere efficaci portando a casa la vittoria, alla faccia di ogni esigenza di estetica reputata dunque superflua.

Descrizioni a parte, mi reputo un sincero sostenitore della filosofia calcistica di quest’uomo, il quale secondo il mio modesto parere, riesce a trasmettere molto di più che una semplice condizione di compattezza difensiva alla propria squadra, poiché esistono anche barriere oltre cui la tattica non potrà mai giungere: Simeone attraverso il proprio modo di essere riesce a trasformarsi nella linfa vitale di ogni suo giocatore, guidandone i movimenti come se avesse un joystick tra le mani e stesse giocando alla playstation, egli diviene il filo rosso che collega strategicamente ogni singolo dettaglio, collocandolo a posto giusto e nel momento giusto, a testimonianza di quanto sia fondamentale l'intesa con i suoi ragazzi in campo.

Malgrado sia un dispiacere ammetterlo, mi sento però in dovere di condannare alcuni suoi comportamenti espressi durante il match disputato contro la Juventus negli ottavi di Champions League, come l’esultanza in seguito alla rete messa a segno dal difensore centrale José Gimenez, un gesto plateale ed estremamente sopra le righe, che il Cholo nonostante la propria esuberanza, avrebbe potuto anche risparmiarsi nel rispetto dell’avversario: la sua natura esasperatamente combattiva non dovrebbe prendere il sopravvento sul valore della lealtà sportiva, un qualcosa di imprescendibile al di sopra anche di quello che può rappresentare la vittoria.

Che si tratti però soltanto di una questione di stile?

Può darsi, anche se nel post gara sono prontamente arrivate le scuse da parte del tecnico argentino, il quale ha specificato si trattasse di un gesto eseguito a caldo e nel pieno della trance agonistica: “errare è umano, perseverare è diabolico” affermava il buon Sant’Agostino, ma chi potrebbe scommettere sul fatto che non lo rifarebbe ancora?     

Insomma miei cari lettori, certe abitudini non cambiano mai...