Certi Amori fanno dei giri immensi e poi finiscono - "Maurizio, parlo a te: eri il mio condottiero, depositario di valori che forse ancora ti appartengono, ma non sei più simbolico. Dove c'era un Comandante vedo solo un uomo molto bravo a organizzare una squadra di ragionieri". Le parole del rapper Anastasio sintetizzano il sentimento di centinaia di migliaia di tifosi napoletani. Già un anno fa, il rospo (terribile) da ingoiare della partenza dell'ex allenatore dell'Empoli, destinazione Londra. "Il nostro campionato non merita un allenatore di questo calibro" dicevano alcuni tifosi; "Se ne va da tutto questo marciume (vero o presunto, ndr.)" hanno pensato altri; "Va in una squadra con un presidente che non ha problemi a spendere, al contrario di qualcun altro"; "Comunque, le porte per lui a Napoli saranno sempre aperte".

Sembra passato un secolo, e in effetti di cose ne sono cambiate: il giorno stesso, l'ufficialità di Ancelotti, il miglior sostituto possibile; il 10 luglio la Juve faceva il supercolpo Ronaldo; il 14 era il turno di Sarri stesso, passato al Chelsea dopo decenni di gavetta. Una favola che poi era proseguita con il "Sarriball", un sistema che sembrava aver conquistato tutti: tifosi, osservatori, Abramovitch (il mangiallenatori per eccellenza, fuori dall'Italia). Insomma, sembrava ai tifosi del Napoli che il loro condottiero avesse avuto quello che meritava, dopo anni di mezze soddisfazioni. 

Purtroppo, le favole non sono eterne, e i primi problemi non tardarono ad arrivare: le frizioni con proprietà e tifosi dopo un cammino non eccellente in Champions League; lo spogliatoio, probabilmente con più primedonne di quello di Napoli, che inizia a rigettarlo; gli allenatori di Premier che iniziano a prendere le misure del suo gioco. Insomma, malgrado la finale di FA Cup (per altro persa contro il City), il terzo posto e soprattutto l'Europa League portata a casa (bella soddisfazione: l'ultimo italiano a riuscirci era stato Roberto Di Matteo sotto la regia di Terry, dicono i maligni), si capiva fin dall'inizio della primavera che Sarri avrebbe presto lasciato i Bleus. 

Ciò che però i suoi vecchi tifosi mai si sarebbero immaginati è che, alla fine, la nuova casa del loro beniamino diventasse Torino. Alle suggestioni su Guardiola o Klopp pochi ci avevano creduto, ciononostante erano quelli i nomi che, dopo il divorzio da Allegri, solleticavano i sempre più fini palati dei supporters juventini. Sarri era la loro seconda, terza scelta. E questo ha fatto ancora più male ai napoletani: che andasse a firmare per LA Società rivale per eccellenza, dove la maggioranza dei supporters non lo volevano nemmeno, probabilmente. 

Saranno forse dei sentimentali, fuori dalla storia, la maggioranza dei tifosi del Napoli. Ed è vero che, a seconda dei punti di vista, Sarri è un rinnegato o un convertito. Pensando però al passato, fa un po' tristezza questa scena: una volta, essere l'Anti-Juventus era una cosa seria. Basta pensare a Zeman, che non avrebbe accettato un ruolo del genere nemmeno se lo avessero pagato la stessa cifra di Ronaldo; o a Cassano, che anche nei momenti migliori diceva "Mai alla Juve, non sono un soldatino". Non so dire se, a rendere tutti più "lucidi" e "professionali" sia stato il fatto che girino molti più soldi, cifre alle quali è più difficile dire no; o che le realtà di provincia siano sempre più depauperate delle proprie risorse, che spesso il rischio fallimento non permetta di avere dei quadri societari (presidente incluso) stabili, e dunque meno attrattive per un giocatore o un allenatore. In più, l'ultima volta che uno scudetto ha preso una strada diversa da Torino o Milano era il 2001, un'era calcistica fa. Fatto sta, però, che una volta (fatta eccezione per Inter e Milan) queste cose non erano all'ordine del giorno. E, spesso, si vedevano allenatori sulla cresta dell'onda dire "No, io non vado alla Juve, perché credo nel progetto, perché amo la città e questo vale più di uno scudetto".

Sarri non è il primo e non sarà l'ultimo, ciononostante questo, è inutile negarlo, fa male. Anche perché è stato il più amato in assoluto dell'era De Laurentis. Con Mazzarri c'era un rapporto agrodolce, bravo ma mai eccellente; con Benitez, malgrado il tentativo di diventare un tutt'uno con la piazza (la presentazione come Don Raffe' è un capolavoro da museo del dadaismo), l'addio non è stato troppo sofferto. Con Sarri è diverso, è stato il Masaniello di cui la piazza aveva bisogno, così anticonformista, polemico, fumantino. Una persona nel quale il tifoso poteva riconoscersi.

Qui Roma - Un'altra città in cui si sente il peso di questo svuotamento è Roma, sponda giallorossa. I tifosi avevano capito, già da gennaio, con un mercato pari a zero, che sarebbe stato un anno difficile. É inutile ripercorrere tutte le tappe di questo psicodramma, dall'esonero di Di Francesco alla mancata qualificazione in Champions, passando per la gestione del "Sor Carletto" Ranieri. È il 26 maggio (data nefasta per i colori giallorossi) a segnare il punto di non ritorno. "De Rossi se ne va" "Dai, non è possibile, ti pare che in piena contestazione la società fa una mossa così suicida?". 

E invece... Il 26 maggio De Rossi chiude la sua carriera da romanista, dopo 18 anni alla Roma, 19 con le giovanili. Una società come quella giallorossa può fare le sue valutazioni tecniche, ma stupisce il tempismo della scelta. "Spero di tornare in una società dove Francesco abbia più potere". Ed il 17 giugno, puntualmente, Francesco se ne va. De Rossi, per un periodo della sua carriera era stato un giocatore divisivo, Totti mai: provate a dire a un romanista anche mezza parola di traverso sul Capitano (quello originale, non il politico), ma poi non dite che non vi avevamo avvertito. 

La proprietà, è vero, è cambiata da 8 anni. Il "problema" è che i tifosi sono rimasti gli stessi: quelli che nell'ultimo anno dell'era Sensi si immaginavano una Roma stile Athletic Bilbao, con una formazione interamente fatta in casa, con giocatori romani (che poi sono proprio quelli che non se ne vanno di fronte ad offertone). Però, si diceva ai tifosi che questo sistema non funzionava, che la squadra precedente (che in quanto a sentimenti non era seconda a nessuno) aveva vinto pochi titoli, che il nuovo modello era fatto di business. Otto anni dopo, otto allenatori dopo, il piatto piange. Fra l'altro è curioso che fra gli ultimi sette, 3 siano ex allenatori ritornati nella Capitale (Zeman, Spalletti, Ranieri), uno il vice allenatore promosso (Andreazzoli) e un altro un ex calciatore (Di Francesco). La Lazio, che pure è vista dall'alto in basso dai romanisti, ha messo da parte qualche Coppa Italia (che non si butta mai, soprattutto in tempi di magra come questi), con una politica meno di ampio respiro, ma anche meno presuntuosa. E senza consulenti e uomini ombra come Baldini, dirigente valido, ma sempre più ingombrante e divisivo. Le teste dei suoi avversari ora "rotolano" fuori da Trigoria: di Totti e De Rossi abbiamo già parlato; Massara (una vita da eterno precario per il braccio destro di Sabatini) sembra destinato al Milan; Ranieri vuole continuare ad allenare, ma non a Roma. 

In tutto questo caos, il tifoso poteva attaccarsi alle due bandiere Totti e De Rossi. Florenzi "Bellodenonna" è un buon giocatore, ma non ha il carisma dei suoi predecessori; Pellegrini idem, e in più sta alla Roma da relativamente poco. Per il resto, tutti sono precari a Roma: la squadra ogni giorno è smontata e ricomposta (anche l'anno della semifinale di Champions, che pure doveva cambiare qualcosa). Un supporter non fa in tempo ad affezionarsi ad un giocatore, che quello ha già preso la via di Londra, Liverpool o addirittura Torino e Milano (e questo fa veramente male). Un ciclo continuo, a cui ci si sta abituando, ma ci si intristisce: nella Juve, due dei titolari sono ex romanisti, venerati dalla curva l'estate prima del loro trasferimento. Nel Liverpool, Alisson e Salah hanno appena vinto la Champions. Marquinhos è al PSG da anni, e non sfigura quando chiamato in causa. Nainggolan, Politano e (a momenti probabilmente Dzeko) all'Inter. Questo è difficile da spiegare. I tifosi sono in rivolta, e si può capire il perché. Una volta della Roma i detrattori dicevano che era la vincitrice del "Titolo d'agosto". Questo, in realtà, è sempre stato un complimento: voleva dire che c'era entusiasmo, che anche se non aveva vinto nulla, i tifosi c'erano sempre stati. Adesso, invece, nubi nere si addensano su Pinzolo, sede del prossimo ritiro estivo, orfano delle bandiere. Buona fortuna a Fonseca, ne avrà bisogno

L'eccezione Gasp-  Il quadro dipinto è a tinte fosche, ma non mancano le eccezioni, grazie al cielo: la storia più bella è quella di Gasperini, arrivato a Bergamo come "Allenatore sul viale del tramonto" e che, dopo diversi anni di buon calcio, si prende le rivincite che si merita: quarto posto, preso alla Roma e al Milan; finale di Coppa Italia, persa (con polemiche) contro la Lazio; un gruppo forte, che viene sì cambiato nei suoi titolari ogni anno, ma che ha una continuità tecnica e un senso d'appartenenza veramente forte (anche perché, parecchi atlantini, una volta fuori da Bergamo non rendono così bene).  "Roma? Sono già in una big, non potevo lasciare Bergamo" dice Gasperini. Provate a non dargli ragione...

Siamo sicuri che funzioni? - Alla fine, il modello è diventato per tutte queste realtà, per gli allenatori come per i presidenti, la Premier League. Dove "business Is business", e per i sentimenti non c'è spazio. O almeno così sembra. Poi si scopre che la PL, da tempo, vuoi per "paraculaggine" di sfruttamento dei suoi uomini immagine, vuoi per reale attaccamento, da tempo ha smesso di essere il campionato freddo e duro che ci attendiamo. Da anni, oramai, al Chelsea abbiamo "Magic Box" Zola, amatissimo dai tifosi nella sua esperienza londinese, che fa il vice allenatore. E per sostituire Sarri, dopo anni affidati a santoni della panchina, più o meno vincenti, Abramovitch (che ha appena vinto una coppa europea, cosa che ai nostri eroi non riesce dal 2010) sceglie Lampard e forse Drogba, due bandiere, due simboli su cui il tifoso del Chelsea poteva contare, in mezzo a top players sempre di passaggio. 

Vogliamo parlare di Klopp, che dice no senza nemmeno pensarci alla possibilità di approdare alla Juve o ad altre panchine più "pesanti" della sua? È vero, diranno alcuni, è più facile dopo che hai vinto la Champions. Però, poteva pensarci l'anno scorso, dopo che aveva perso la finale di Champions. O negli anni passati, quando il Liverpool (che quando è arrivato Klopp era una grande decaduta) non riusciva a emergere. Se si ha pazienza, invece, i risultati arrivano...

Se ne potrebbero fare altri di esempi, ma questo articolo è già abbastanza lungo. Però il succo è: attenzione presidenti/allenatorii, sentimenti nel calcio sono importanti come e talvolta più dei risultati social della vostra squadra. E la gratitudine verso chi ha fatto grandi i vostri club, che siano i giocatori o una tifoseria calorosa non è un gesto di debolezza. Questo i tifosi lo sanno, e lo sapevano molti dei vostri predecessori, molto meno maghi del business e con conti in banca molto meno sostanziosi dei vostri ma che, per il momento, hanno vinto molto più di voi (Juve esclusa). 

Ps. Ultimo esempio, uscendo dalla Premier, è il Real. Nel 2016, il nuovo tecnico è Zidane, che fino a quel momento era stato solo allenatore in seconda e allenatore della primavera. Prende una squadra allo sbando, la rimotiva e la porta a vincere tutto il possibile. Ironia della sorte, l'allenatore precedente era Rafa Benitez, don Rafe'. Al momento, allena il Newcastle United, al 13* posto nell'ultima PL. Pensaci anche te, Maurizio. Sicuro che le proposte che non si possono rifiutare siano anche scelte sagge? Buon lavoro, in ogni caso.