È successo la scorsa settimana in occasione del GP di Formula 1 degli Stati Uniti e del derdy di Milano, e accadrà nuovamente questa sera con la concomitanza del Gp del Messico e del big match tra Napoli e Roma: per poter assistere ad entrambi gli eventi live bisogna necessariamente armarsi di un secondo dispositivo, come uno smartphone o un tablet, o per i più fortunati addirittura di un secondo televisore. Non c'è scampo. E quella che di primo acchito potrebbe sembrare una seccatura, una mera eccezione, in realtà, a pensarci meglio è una abitudine vera e propria per i più. Una routine alla quale siamo talmente abituati che quasi non ce ne rendiamo conto. Eppure le statistiche a riguardo parlano chiaro, e indicano che è ormai consuetudine gustarsi un evento sportivo utilizzando in contemporanea un secondo device, oltre alla televisione naturalmente. Alzi la mano chi di voi durante la partita della propria squadra del cuore non abbia mai dato un'occhiata al proprio smatphone, ad esempio per rispondere ad un messaggio, per scriverne uno, per guardare l'ultima foto postata su Instagram da un amico e così via. L’Italia, in questa speciale classifica digitale, occupa i primissimi posti. In sostanza vuol dire che mentre osserviamo i tocchi di Modric, i dribbling di Ronaldo, i gol di Higuain, le prodezze di Insigne, l'ultima magia di Messi, le schiacciate di Paola Enoglu, la discesa folle di Kitzbuhel o i tocchi felpati di Roger Federer siamo tutti pronti a postare, chattare, o twittare le nostre considerazioni. O, per i più evoluti, creare una storia sul proprio profilo Instagram che resterà visualizzata per 24 ore, prima di autocancellarsi e sparire nell'oblio.

Se in Italia ci fosse una vera cultura sportiva, una formazione di un certo spessore, tutto ciò si tradurrebbe in un'opportunità straordinaria: avere a disposizione un'enorme piazza virtuale in cui discutere, scambiare opinioni, condividere esperienze per provare a crescere e migliorarsi. Invece accade tutt'altro, spesso l'opposto. In un calcio moderno ormai privo di ideali e votato unicamente al business era una cosa prevedibile. Una realtà, purtroppo, alla quale siamo talmente abituati da scambiarla per normalità. Perché esistono pochi veri appassionati e milioni di tifosi, o pseudo tali, ai quali interessa solo urlare al complotto se la propria squadra non vince, puntare il dito contro l'arbitro di turno, inveire contro il proprio allenatore, lanciare anatemi verso i giocatori. E dei complimenti alla squadra avversaria neanche a parlarne. E delle considerazioni tecnico-tattiche o del piacere di un duetto tra l'Illusionista e la Pulce frega ben poco, o al massimo interessa per il tempo di un Instagram Stories. Tutto ciò nonostante la maggior parte dei tifosi sia, o sia stato un praticante, anche solo a livello amatoriale; motivo che dovrebbe spingere a emozionarsi per un recupero in scivolata di Chiellini, entusiasmarsi di fronte ad una punizione telecomandata di Ronaldo, o a inginocchiarsi davanti al talento di Leo Messi. Quando invece nel dio pallone se non gioca la propria squadra (per cui tifare) o l’odiata rivale (per cui tifare contro), deve proprio esserci un Clasico tra Real e Barcellona, pubblicizzato fino alla nausea da Dazn, perché si scelga quella visione piuttosto che un Masterchef, il GFVip o l’Isola dei (presunti) Famosi.

Ma se fosse solo per questo si ci potrebbe pure passare sopra, sorvolare, far finta di niente e magari apprezzare quei pochi capaci di andare oltre il semplice risultato, capaci di apprezzare un gesto tecnico, una soluzione fantasiosa, da qualsiasi latitudine provenga. I social, purtroppo, hanno cancellato tutto questo e creato quelli che vengono definiti “leoni da tastiera”, cioè pseudo appassionati che, nascondendosi dietro un improbabile nickname, o approfittando del fatto che una discussione virtuale rende tutti più coraggiosi, fanno fioccare insulti verso chiunque. Nessuno escluso. Una atleta donna veste in maniera un po' troppo succinto, ecco subito che viene additata come meretrice; un pilota commette una scorrettezza in pista, ecco che diventa il peggiore dei criminali da punire con l'ergastolo. Per non parlare di quello che viene scritto sulle tifoserie avversarie. Nemmeno i giocatori più amati rimangono immuni. Ed è un attimo arrivare alla bestemmia dopo che la propria squadra ha perso nei minuti finali. Ormai è un proliferare assurdo che i social accettano perché diventare troppo severi nelle policy educative comporta perdita di follower, like, cuoricini. Business, insomma.

Per questo non meraviglia più di tanto lo sfogo di Alberto Malesani di settimana scorsa. Secondo l'allenatore delle 3 coppe in cento giorni ai tempi del Parma la colpa è del web. Per uno a cui la figura dell'opinionista sembra una contraddizione, perché criticare gli altri tecnici non fa per lui, il web è diventato un luogo innominabile. L'allenatore lontano dal mondo del calcio dal 2014, quando venne esonerato dal Sassuolo, si è sfogato a suo modo, senza filtri – un po' come era il suo modo di vivere la partita a bordo campo – in una lunga intervista al Corriere dello Sport. “Il calcio si è dimenticato di me. I social mi hanno rovinato”. Una frase dal senso oscuro per centinaia di influencer, blogger e aspiranti tali. Malesani si è sentito sbeffeggiato e deriso dal popolo del web, che tante volte ha trasformato le sue frasi esuberanti in conferenza stampa in veri e propri tormentoni (come dimenticare il suo “non sono mollo... mollo che, ma che mollo” ripetuto all'infinito), la sua immagine in meme. Questa ironia social – che ammettiamolo a tutti noi ha strappato un sorriso – in realtà, e forse un po' inaspettatamente, ha ferito quell'uomo apparentemente burbero, ma in realtà molto sensibile. Un uomo che prova ora a farsi una ragione per questa inattività, che si sente ancora un allenatore e magari un giorno tornerà a fare ciò che ama di più: allenare. Quel giorno farà pace con il calcio e magari anche con i social.

Il tutto senza dimenticare che i social restano comunque una grande opportunità per chiunque voglia dire la propria opinione e confrontarsi con una fetta sempre più grande di altri appassionati. Occasione, un tempo, ad appannaggio esclusivo degli addetti ai lavori. Del resto è risaputo che l’Italia è una Repubblica costituita da 60 milioni di commissari tecnici. Chicchessia può dire la propria, essere più o meno capace, più o meno brillante, ma comunque condividere il proprio background di esperienze. Basta ricordarsi che sono semplici opinioni di appassionati e come tali vanno prese, ed evitare soprattutto di dare il cattivo esempio, usando espressioni offensive o insulti. Perché si abbassa sempre di più l'età degli utenti che ne sono protagonisti. In tal senso mi auguro che i più esperti possano aiutare i più giovani a crearsi una cultura sportiva più consistente, che permetta di giudicare con maggiore buonsenso e di comportarsi con più educazione, sia quando si scrive su Facebook, si posta un tweet, si chatta, che quando si scende in campo.