"Io voglio che Jess combatta e voglio che vinca
Perché l’ho vista giocare ed è bravissima
Io dico 
che nessuno ha il diritto di fermarla”.
(Dal film Sognando Beckham)

L’incipit di questo post (o, se preferite, l’attacco), che prova a  raccontare il rapporto tra il cinema e il calcio era un altro.
Lo abbiamo cambiato in corso d’opera. Perché abbiamo scoperto che alle Giornate degli autori -Notti veneziane- sarà presentato in anteprima, l’8 settembre a Roma, Milano e Torino e dal 15 settembre al cinema un film delizioso: s’intitola Las Leonas  - Le Leonesse - Prodotto da Nanni Moretti (Sacher Film), è diretto da Isabel Achàval e Chiara Bondi; il film racconta la storia di giovani donne, emigrate nel nostro paese, che si ritrovano a giocare insieme sul campo di calcio Vis Aurelia a Roma. Sono moldave, peruviane, ecuadoriane, capoverdiane, marocchine, cinesi. La maggior parte di loro arriva dall’America Latina e dall’Est dell’Europa, ci sono anche alcune italiane. Hanno nomi bellissimi, Bea, Elvira, Ana, Melisa, Joan, Vania, Siham che evocano suggestioni e atmosfere di paesi lontani.
Divise in squadre partecipano al campionato internazionale di calcio a 8 che si chiama come il film Las Leonas.
Anche le squadre hanno nomi che riecheggiano le struggenti melodie della musica dei ‘mariachi’: Paraguay, Estrellita Juvenil, Peruanas En Roma, Club Colombia, Sud America, Corazon Latina. Lavorano come badanti, donne delle pulizie, tate dal lunedì al sabato con orari impegnativi e uno stipendio che le aiuta a vivere, ma certamente non consente molti ‘extra’. Il legame con la terra d’origine non si è mai spezzato, è fatto di tenerezze, affetti e, in qualche caso, amori che sono comunque trattenuti dal filo della memoria, dai ricordi che, come spesso accade, aiutano a tirare avanti.
Ma ci sono anche ricordi dolorosi che le protagoniste hanno raccontato alle due autrici del documentario.

UNA DOMENICA DA LEONAS
La domenica è il giorno delle leonesse. Si scende in campo per liberare l’anima e il corpo nella gara, nella sfida, nella competizione  che innescano la carica di libertà che nei restanti sei giorni deve essere trattenuta. Nel corso delle interviste che Chiara Bondi e Isabel Achaval hanno fatto ad alcune delle Leonas, emergono duri frammenti di vita.
Elvira e Joan raccontano la loro infanzia difficile, il cui doloroso ricordo prolunga i suoi effetti, ancora oggi, nel corpo e nell’anima. Poi i sogni. Non mancano mai. Vania è stata calciatrice professionista, ma non per molto tempo. Ana invece sognava di giocare per una grande squadra di calcio femminile. Queste ragazze hanno in comune la tenacia, la voglia di farcela e, soprattutto, non hanno mai pensato, anche per un solo attimo, in momenti difficili che agli inizi della loro avventura italiana non sono mai mancati, di arrendersi.
Siham è una carica di simpatia umana, possiede un entusiasmo coinvolgente  che resiste ad ogni avversità e un sorriso contagioso. Le due autrici hanno scandagliato l’anima di queste ragazze e annotato sogni, rimpianti, ma anche le fatiche e le difficoltà quotidiane. Il tutto poi lo hanno trasferito nelle sequenze suggestive del film, che hanno colto “correttamente lo slancio vitale nel senso di una lotta feroce, instancabile, luminosa”.
Ci congediamo dalle Leonas riportando una bella recensione del film di Bondi e Achaval, che non sappiamo a chi attribuire, ma è tratta da una rivista di cinema. “Il calcio come metafora di libertà e arricchimento spirituale, proprio così. Il calcio come valvola di sfogo per rimpianti e frustrazioni. Il calcio come fatica, dolore ed eccitazione incontrollabile. Il calcio come collante sociale, veicolo di aggregazione e incisività. Il calcio nella sua forma più pura, il gioco, una formula ombrello che tiene insieme tante cose diverse. C’è tutto questo in Las Leonas, un documentario intelligente, perché la sua carica politica non ha gusto ad ostentarla. Si limita, si fa per dire, a posizionarsi di fronte a un certo tipo di realtà e a raccontarla nella maniera più onesta, tirando fuori tutto quello che è possibile estrarre da questo intreccio di sport e vita, il bello e il brutto, senza santini o il gusto della provocazione facile“.

UN SOGNO COLLETTIVO
“Il cinema è un sogno vissuto collettivamente “ ha scritto Vincenzo Consolo in una postfazione alla sceneggiatura di Nuovo Cinema Paradiso di Tornatore. Come il calcio. Una partita di calcio, in uno stadio, gremito di spettatori, ribollente di emozioni e passioni (pensate a un derby Milan–Inter) è un evento che possiamo paragonare a  un blockbuster, ovvero pellicola di grande impatto popolare che registra incassi record al botteghino. Il Milan, negli ultimi tempi, ogni volta che gioca in casa, mette in scena un blockbuster di almeno 70 mila spettatori. Così ci siamo capiti. Ma la vera similitudine tra cinema e calcio l’abbiamo ravvisata in una riflessione di Italo Calvino: Cinema vuol dire sedersi in mezzo a una platea di gente che sbuffa, ansima, sghignazza, succhia caramelle, ti disturba… il cinema è questa gente, più una storia che succede sullo schermo”. Una partita di calcio è la stessa gente più una storia, che succede sul campo di gioco.
Storicamente calcio e cinema, in Italia, hanno percorso strade diverse ma, in alcuni tratti, analoghe. Negli anni tra la fine dell’'800 e gli inizi del ‘900 nascevano le prime case cinematografiche e si formavano le prime squadre di calcio. Cinema e calcio, nel nostro paese, si sono sviluppati lungo un itinerario parallelo, ma quasi mai convergente. Due realtà di grande impatto emozionale: passioni, sogni, gioie e delusioni. Entrambe perseguono lo stesso obiettivo: lo spettacolo! Sono però due mondi paralleli confinati nei loro ambiti. Diverso, e  più proficuo,  invece il rapporto con la TV. Sin dal suo avvento la televisione si è rivelata il media più idoneo alla narrazione dello spettacolo calcistico. Proviamo ad analizzare le ragioni di questa supremazia.

COLLETTORE DI SOGNI
Prima di essere soppiantato dalla televisione il cinema è stato “un collettore capace di ogni sorta di contaminazione – ha scritto Gian Piero Brunetta, autore di una pregevole storia del cinema neorealista italiano – e combinazione tra generi e livelli e soprattutto di assolvere nuove funzioni nei confronti del pubblico”. Chi ha visto laCittà delle donne” di Fellini rammenterà la scena della sala cinematografica, dove il regista riminese ricorda “come il cinema segna e ha segnato, per più di una generazione, l’ingresso collettivo sia ai paradisi proibiti dell’Eros, sia ai domini privilegiati dell'arte e della cultura”.
Federico Fellini gli italiani li ha ‘narrati’ bene nei suoi film. Ha raccontato i suoi ardori, le sue sconfitte. Ci ha ’spiegati’ con la nostra innocenza e le nostre miserie. Negli anni del dopoguerra, gli ‘italiani di Fellini’ sognano. Lo fanno con tenerezza. E’ un’Italia che ha un cuore grande e sogni piccoli. Fanno venire in mente quella pagina della Recherche di Marcel Proust che descrive, con il tratto dell’incisore, delle persone che stanno con il naso appiccicato sulla vetrina di un ristorante di lusso per vedere cosa succede oltre quella parete di cristallo e sognano di infrangerla per entrare e partecipare al sontuoso banchetto.
Siamo nell’Italia del 1948 e calcio, cinema e canzoni aiutano il paese a dimenticare orrori e sofferenze di una guerra le cui ferite sono ancora visibili nelle città. Il campionato di calcio ha ripreso e l’Italia torna a dividersi e ad affratellarsi in nome del Torino - il mitico squadrone granata  la cui leggenda andrà a spezzarsi l’anno dopo a Superga - ma anche di Milan, Inter, Juve, Pro Patria, Lucchese, Livorno, Triestina, Modena e Salernitana. Il cinema parla soprattutto ‘inglese’ nel senso che sono le pellicole e gli attori di Hollywood a fare da viatico all’american dream formato Italia: Rita Hayworth, Tyrone Power, modelli incontrastati di seduzione e divismo.  
Era un  paese che pigiava forte sui pedali della ricostruzione, del lavoro e del riscatto e, al di là della facile metafora, i suoi simboli si incarnavano nelle figure di Coppi e Bartali.
Questo, in estrema sintesi, certamente imperfetta, l’itinerario storico dei due mezzi caratterizzato da contiguità di contenuti e portatori di emozioni, ma, come ha detto Carlo Verdone ”il calcio al cinema non rende, a meno che non ci siano nella trama spunti poetici”. Ma ci viene spontaneo aggiungere, anche sociali o rappresentativi di un’epoca, di una stagione, come vedremo.

CALCIO E CINEMA, L’ARTE DELL’INGANNO
Pupi Avati,
regista di pregevoli film, tra i quali l’ottimo Ultimo minuto, con Ugo Tognazzi, ambientato nel mondo del calcio, è in sintonia con Verdone: “Non funziona il calcio sul grande schermoha dichiarato qualche tempo fa.
Ma quali sono le ragioni di questo rapporto difficile? Diciamo subito che ci sono aspetti tecnici e ragioni storiche.
Cominciamo dai primi. Il calcio è una disciplina sportiva che fonda la sua ragion d’essere e la sua – passateci il termine – poesia  nella coralità delle azioni, nel dinamismo del gruppo: passaggi, finte, dribbling. Effetti di insieme che la TV coglie in maniera perfetta, mentre la macchina da presa non lo può fare perché, per forza di cose, deve indugiare sul singolo calciatore e questo suscita nello spettatore una sensazione di staticità.
Veniamo alle ragioni storiche. Registi e produzioni statunitensi vantano da sempre un particolare know how nella realizzazione di film ambientati nel mondo dello sport. Ma tra le discipline sportive che hanno fornito materia per le trame di queste avvincenti pellicole non c’è il calcio. Il motivo è semplice, non è lo sport più amato dagli americani. Hollywood ha sempre ignorato il soccer, come oggi in USA viene definita l’ars pedatoria. Solo nel 1981 il grande regista John Huston realizzò Fuga per la vittoria, film di cui ci siamo occupati largamente di recente nell’ambito della rievocazione della cosiddetta partita della morte, disputata a Kiev nel 1942 durante l’occupazione tedesca.
Il difficile rapporto tra cinema e calcio forse ha anche altre ragioni, oltre a quelle che finora abbiamo indicato. Un qualcosa che va oltre.
Asif Kapadia, regista inglese di origine indiana (Oscar nel 2016), nel 2019 ha realizzato un bellissimo documentario su Armando Maradona. Una riflessione sul gioco del calcio, dell’indimenticabile fuoriclasse argentino, colpisce per la sua straordinaria essenzialità e semplicità. Una meditazione che vale per qualsiasi altra forma di espressione artistica che si propone di suscitare emozioni e passioni.
Il calcio – ha detto Maradona – è un inganno. Consiste sostanzialmente nel far credere all’avversario che stai andando in una direzione e all’improvviso cambi strada”. Una teoria che vale anche per tutte le altre forme d’arte: dalla letteratura al cinema.
Cinema e calcio dunque seducono lo spettatore allo stesso modo. E l’inganno, come sappiamo, è l’arma sottile e fascinosa della seduzione.

(Segue)