Il bello del calcio è tutto nel 4-0 di Liverpool-Barcellona. La semifinale di ieri è una di quelle partite che mandano in estasi tifosi, appassionati, addetti ai lavori, il mondo del football tutto. Il campo che ribalta verdetti già scritti e ottusi scetticismi su alcuni protagonisti, Anfield che canta a squarciagola per tutta la serata. Insomma, c’è tutto il materiale necessario per dare idee e lavoro a Romanzo calcistico.

Ma in quest’analisi andiamo per gradi e cominciamo da dove conta, dal campo.
Sul terreno di gioco non c’è stata storia. Le due squadre sono scese in campo coi consueti 4-3-3. Il Liverpool ha schierato la difesa titolare, a centrocampo Wijnaldum, uno dei protagonisti della serata, partiva dalla panchina (lo sostituiva Henderson come mezzala), mentre nel tridente d’attacco c’era solo Mané dei tre tenori. Le pesanti (solo sulla carta) assenze di Salah e Firmino sono state tamponate da Klopp con gli inserimenti di Origi e Shaqiri.
Il Barça invece è sceso in campo col suo undici del momento. Prima di menzionare qualsiasi aspetto di natura tecnico-tattica occorre partire dalla testa, il propulsore delle ambizioni, delle motivazioni, della fame e della voglia di riscatto. Su quest’aspetto di primaria importanza, il Liverpool è sceso in campo con ben altra attitudine rispetto ai colleghi catalani. Il 4-0 è merito dell’entusiasmo dei Reds, della loro fame e della loro voglia di vincere che li ha portati a massimizzare ogni grossolano errore dei Blaugrana, il cui approccio ha fatto da contraltare a quello degli Inglesi. Ci si può permettere di ripetere un errore mortale come quello commesso nella passata stagione contro la Roma? Assolutamente no. Ed è giusto che i Catalani paghino ancora una volta il prezzo più salato.

Partendo dall’approccio, non si può non evidenziare la mollezza dei Catalani, subito al tappeto dopo sette minuti. Una sciabolata partita dalla retroguardia dei Reds viene respinta verso la propria difesa con grave sufficienza da Jordi Alba, il quale finisce per consegnare la palla a Mané, che serve l’inserimento di Henderson, sul quale la difesa catalana è parsa disorganizzata e poco convinta. Dalla respinta sul tiro del capitano inglese fa tap-in Origi. I Blaugrana non trovano la reazione all’immediato svantaggio, palesando un atteggiamento poco convinto. Le iniziative sono tutte concentrate nelle isolate accelerazioni palla al piede di Messi, chiuse tutte dalle ‘gabbie’ o dai raddoppi che sono mancati all’andata. La Pulga è stato l’unico a provarci, sebbene tutte le sue conclusioni fossero dirette verso l’esterno della rete oppure fra le braccia del mai domo Alisson.
Detto questo, il primo tempo scivola via con un relativo equilibrio fra le due squadre, nonostante il gegenpressing del Liverpool abbia frustrato ogni tentativo d’impostazione o di ripartenza del Barcellona.
La svolta è nel secondo tempo: la riscossa porta il nome di Georginio Wijnaldum, subentrato al posto del terzino sinistro Robertson. Wijnaldum si piazza come mezzala mancina nel 4-3-3 di Klopp e la fascia sinistra è presidiata dall’inesauribile eclettico Milner. Con l’Olandese sale visibilmente il ritmo del Liverpool. La manovra è più fluida che mai, l’azione passa rapidamente dai centrali ai terzini per poi tornare nel cuore del campo, da dove vengono ripetutamente innescati gli scatti in profondità degli avanti di Klopp, abilissimi ad inserirsi alle spalle della difesa catalana, allargandone le maglie.
Il Barcellona va in bambola, non riesce più a produrre una risposta alle azioni dei Reds e finisce per subire la doppietta di Wijnaldum nel giro di due minuti, dal 54’ al 56’. Due reti che fotografano l’inadeguatezza della difesa del Barcellona, con due mancati interventi sull’inserimento in area di Wijnaldum (nella prima rete) e sullo stacco successivo (sul secondo gol). La cosa che più ha colpito è stato il mancato stacco di Piqué, ben piazzato in area assieme ai compagni. Il gol finale di Origi su corner di Alexander-Arnold chiude la contesa, e rappresenta la frittata perfetta del Barça, perché condensa in sé l’immagine di un Liverpool concentrato fino alla fine, pronto ad approfittare di qualsiasi spiraglio per vincere il match e portare a casa la finale.

Da questa rimonta storica, emozionante e vibrante per chiunque, il Barcellona ne esce con le ossa rotte, distrutto e asfaltato dall’ennesima, grande rimonta subita della sua storia più recente.
In questa semifinale sono mancati tutti gli attori, tutti i campioni che conosciamo e che all’andata erano stati capaci di fare la differenza. Non mi accanirò su Messi, anche perché non lo merita e non è giusto delegargli le responsabilità di altri dieci compagni. Sarebbe errato non dire che il diez argentino è stato l’unico a provarci per tutto il match, l’unico a incaricarsi di dare uno sbocco alla manovra dal basso, l’unico a cercare percussioni nella retroguardia di Van Dijk & Co. e l’unico a provare conclusioni insidiose. Per il resto sono mancati tutti gli interpreti, tutti insufficienti, a partire dalla difesa horror, da bollino rosso. A questi livelli non si può scendere in campo con l’atteggiamento visto ieri sera. I Blaugrana tornano a casa dopo l’ennesima batosta umiliante, da campioni di quel calibro non è lecito aspettarsi scivoloni di questo tipo. La lezione dell’anno passato non è stata colta.

Con tutt’altro umore vanno in finale i Reds. La squadra di Klopp gira, alla grande. L’entusiasmo e la personalità degli interpreti è valorizzata dalla sapienza del direttore d’orchestra e da tifosi straordinari, il cui amore non si può non menzionare. Scene come quelle di ieri, a fine partita fanno commuovere: l’abbraccio fra i supporters e i loro beniamini dopo questo match storico, giocato in un’atmosfera da sogno, è fra le cose più belle di questo sport. I giocatori del Liverpool hanno ripagato nel migliore dei modi i propri tifosi, gente ansiosa di assistere a una partita il cui risultato non era già scritto, come alcuni dicevano; gente ansiosa di assistere ad uno spettacolo dopo una giornata di sacrificio, di lavoro, magari con i propri figli, vogliosi di sognare e gioire coi propri idoli, come hanno potuto fare.
Il Liverpool di ieri sera, il Liverpool di Klopp, è tutto questo. Potrà non aver vinto qualche finale, potrà non avere gli stessi trofei di Ancelotti, Guardiola o Mourinho, ma da anni regala grandi emozioni a tutti quelli che amano davvero il calcio. Sarà la sua personalità simpatica e bizzarra, sarà il gioco spettacolare ed elettrizzante che mettono in campo le sue squadre, fatto sta che quest’uomo è in grado di emozionare e appassionare, dà il pane di questo sport. Fra i suoi meriti va annoverata anche la capacità di saper scegliere il club con il giusto progetto da valorizzare. Perché se nel giro di tre anni e mezzo, dal suo arrivo nel Merseyside, è riuscito a centrare tre finali europee, è riuscito a vincere una partita di questo livello, con una rimonta del genere, senza i suoi giocatori più decisivi, significa che c’è la miglior organizzazione possibile, dal punto di vista tecnico-gestionale. Il suo club avrà pur allargato i cordoni della borsa per comprargli i calciatori richiesti, ma le scelte sono state fatte con oculatezza, con criterio. Dal 2015 sono arrivati giocatori a sua immagine e somiglianza, forti di temperamento, resistenti, rapidi e – quando necessario – tecnici. E se ne vedono i risultati. Sono esemplificativi i casi di Mané e Van Dijk. Entrambi, prima di approdare in tempi diversi al Southampton, erano stati svezzati tatticamente in squadre caratterizzate che giocavano col gegenpressing, come il Red Bull Salisburgo di Schmidt e Rangnick (dal quale proveniva Mané) e il Celtic di Ronny Deila, un tecnico norvegese ispirato dal Borussia di Klopp (Van Dijk giunse a Glasgow nel 2013). Inoltre quest’estate è stato messo riparo ad alcune lacune emerse l’anno passato e, grazie ai nuovi acquisti, Klopp può anche pescare gli adeguati rimpiazzi ai titolari dalla panchina. E’ stato preso un vice-Salah di livello, Shaqiri, e sono stati trattenuti due centravanti, Sturridge e Origi, due ottimi rincalzi di Firmino. In più è stato acquistato uno dei migliori portieri al mondo, il brasiliano Alisson, che ha sostituito Karius. La vicenda del portiere tedesco, tanto criticato dopo la finale di Kiev, ha rappresentato l’ideale della filosofia kloppiana, che somiglia molto a quella di Zeman. Come il tecnico boemo, anche Klopp tende a dare fiducia incondizionata a chi s’impegna ed è professionale: una filosofia che è alla base della crescita professionale di giovani calciatori e non solo, ma che spesso – se è portata alle estreme conseguenze – diventa controproducente, quando all’atleta mancano alcuni mezzi per giocare in determinati contesti o livelli. Quindi questa mentalità è sia alla base della valorizzazione dei talenti (Verratti, Insigne, Immobile, citando i più recenti di Zeman, e Alexander-Arnold, Gotze, Lewandowski, citando alcuni di Klopp) sia alla base di alcuni errori di valutazione (Goicoechea sta a Zeman come Karius sta a Klopp).

E’ la vittoria purissima di un’idea di gioco, creata dall’allenatore e in cui tutti, dal primo titolare all’ultima riserva, credono ciecamente. In sostanza, possiamo dire che in finale va chi merita. Questa partita dimostra ancora una volta l’insensatezza delle tesi di alcuni detrattori di Klopp, pseudo-giornalisti, pseudo-esperti o pseudo-opinionisti che considerano il tedesco più fortunato che bravo. Così fortunato che la sua squadra arriva Così fortunato che – alla fine di questa stagione – avrà disputato più finali europee di Guardiola e lo stesso numero di quelle di Mourinho. Si può affermare che finora sia stato più sfortunato che fortunato, perché ha raccolto molto meno di quanto meritasse. Klopp bravo e sfortunato. Gli facciamo il più grande in bocca al lupo per questa finale, a prescindere dall’avversario che affronterà. P.S.: errare humanum est perseverare autem Padovan.