Il tema è spinoso, lo so, ma penso che un'attenta lettura delle nostre convinzioni in tema di Dio e di quelle che sono le difficoltà di professare una fede, qualsiasi essa sia, debba aprire una riflessione, sia nell'ambito sociale, sia nel nostro amato ed ovattato mondo del calcio.

Quando giocavo, non mi consideravo certo un cristiano con la "C" maiuscola. Anzi, pensavo piuttosto di essere il "pubblicano" del Vangelo, che si batteva il petto in fondo al Tempio, e che non si considerava nemmeno degno di alzare lo sguardo verso l'altare del "Santo", ovvero del Signore. Ma, avendo ricevuto un'educazine religiosa, qualcosa mi era rimasto dentro, e soprattutto il rifiuto della bestemmia come modo di espressione abituale, convinto che l'imprecazione non mi faceva  ttenere nessun vantaggio personale. Innanzitutto, più che per l'aspetto religioso, lo consideravo un fatto sociale riprovevole, indegno di un qualsiasi soggetto che rispetta il buon vivere nella nostra comunità. Mi ricordavo che quando ero ragazzo, sui tram della mia città di nascita (Torino) c'era la scritta: "Si ricorda che la bestemmia è reato". Io, sempre ligio alle leggi e, soprattutto per evitare "ramanzine" da parte di mio padre, mi ero conformato anche mentalmente a questa norma forse un po' severa, ma comunque giusta. Oggi la legge è stata abrogata, almeno nella sua valenza penale, rimanendo come fattispecie nell'ambito delle norme amministrative e, casualmente o in via residuale, in casi di ingiurie o lesive della reputazione di altri individui. Ma in questi casi, arrivare ad una sentenza di colpevolezza contempla tutta una serie di circostanze e di fatti che, praticamente, ne rendono difficile l'applicazione di una qualsiasi sanzione o pena accessoria. Personalmente, ritengo che oggi ci vorrebbe una interpretazione più draconiana della bestemmia, e citando Dracone, vorrei dire che invoco sia una severità maggiore, ma anche le eventuali attenuanti, sempre però alla ricerca di una funzione educativa, che non permetta ai nostri giovani, calciatori e non, di distribuire "moccoli" senza sapere neanche cosa dicono. E quando giocavo, mi ritrovai in una prima squadra dove ero il più giovane, e la maggior parte di loro bestemmiava, mentre io non dicevo nulla, ma quando un compagno mi disse: "Bestemmia, se vuoi farti rispettare!" Gli risposi che il rispetto lo guadagnavo in altro modo. E non continuavo, perché non credevo giusto avere scontri con i miei compagni, limitando a farmi i fatti miei. Però non portavo mai astio verso costoro, e questo mi portava simpatie, perché non giudicavo mai nessuno e l'incidente lo avevo liquidato subito sminuendo la situazione. Rimaneva comunque la consapevolezza che in campo la bestemmia ti portava all'espusione, e quindi quache deterrente c'era, come ancora oggi succede.

Prima di arrivare in quella squadra, avevo militato nelle giovanili di una società che portava il nome di un santo, ed eravamo sotto le ali della parrocchia di riferimento, quindi qualche volta alcuni miei compagni tiravano qualche bestemmia, e quasi subito il parroco, sempre molto attento, arrivava e li prendeva a calci nel sedere. A me non mi occorse mai, e ne ero orgoglioso. Mi dispiaceva per i miei amici, ma se lo meritavano, e poi era un fatto educativo. In quella società tornai anni dopo come calciatore, e poi come allenatore. Le regole continuavano ad essere quelle, ma, caduto poi il controllo del parroco, pensionato nel frattempo, qualche maglia si allargò. Tralascio quando giocavo, e parto subito dalla mia esperienza di allenatore. Naturalmente nelle regole avevo messo anche la non tolleranza di bestemmie ed improperi vari, ed all'uopo, organizzai la "bestemmia alternativa". Avevo suggerito metodi di imprecazione non offensivi della religione, con l'aggiunta di un po' di umorismo. Espressioni come "perdindirindina", "accipicchia" "per la barba di Giosafatte", e via dicendo, divertivano i ragazzi, e sdrammatizzavano le situazioni, oltre ad essere anche in questo caso un metodo educativo. Ma anche culturale, ad esempio "Ma chi era sto' Giosafatte?", pare un personaggio biblico, ma cosa facesse di preciso non lo approfondimmo mai. Ma ridurre l'espressione religiosa nel non bestemmiare, mi sembra riduttivo. Innanzitutto, essendo a contatto di adolescenti, offrivo loro cultura e pulizia. Cultura perchè li stimolavo allo studio, ma anche al rispetto dei loro impegni, anche con la famiglia, giocando con loro usando lingue straniere, oppure svolgere temi di cultura varia, insegnando  aspetti giuridici ed economici che potevano scaturire dalle loro attività, persino extrasportive. Avevo tra le mie file ragazzi extracomunitari, e vedendo la loro spiccata intelligenza, gli chiesi con forza di studiare. Uno di questi, Yassin, mi disse che voleva studiare da geometra, e la cosa si avverò, tanto che poi diventò imprenditore, rilevando l'azienda agricola dove suo padre lavorava come dipendente. Un altro, Idr, aveva una capacità linguistica notevole, tanto che quando mi parlava in inglese (lui era marocchino), io rimanevo a bocca aperta, visto che lo parlava meglio di me, che avevo anche dato un esame universitario, ed aveva solo 13 anni. Anni dopo incontrai la mamma, e mi disse che stava per laurearsi, e guardando in cielo ringraziai il Signore, che qualche volta esaudisce i miei desideri. Con altri ragazzi, anche italiani, ebbi atteggiamenti più duri. non sopportavo l'indolenza, l'incapacità di organizzarsi mentalmente anche solo nelle piccole cose che dovevano fare. E con uno sbottai diverse volte, sgridandolo severamente, cercando di scuoterlo. In una di queste mie sfuriate, alla fine lo vidi piangere, e mi sentii a disagio. Ma lui mi disse: "Grazie Mister, perché tu mi vuoi bene, i miei non mi sgridano mai, a volte è come se non esistessi neanche, non li vedo quasi mai!" Mi veniva da piangere, ma da allora cercai di aiutarlo, anche se non potevo fare molto, non era mio figlio ed io facevo l'allenatore, non l'assistente sociale. Lo rividi una quindicina d'anni dopo, mi abbracciò e mi disse che non mi aveva mai dimenticato, aveva una famiglia, e dava ai suoi figli l'amore che i suoi genitori non avevano saputo dare a lui. Ho citato pulizia, ebbene sì, quando si ha a che fare con adolescenti, bisogna stare molto attenti. Io ad esempio non mi feci mai vedere in mutande, o peggio ancora nudo, ero sempre in tuta, ed all'occorrenza, usavo uno spogliatoio privato e separato dalla squadra. Con le loro madri il mio atteggiamento era sempre di collaborazione, ma distante da ogni pretesa affettiva o sentimentale.

Per chiudere, vorrei ricordare due episodi. Il primo riguardava Francesco, un ragazzo molto bravo sia come calciatore, sia  come ragazzo. Un giorno mentre si cambiava, eravamo rimasti praticamente solo io e lui nello spogliatoio, che poi avrei dovuto chiudere. Mentre si veste, vedo che nasconde qualcosa nel collo, Guardo e gli dico: "Ma cosa nascondi?" E lui con molto pudore, mi mostrò un TAO francescano, appeso al suo collo in segno di devozione. Lo guardai dolcemente e gli dissi:"Non ti vergognare mai di mostrare la tua devozione a Gesù". E con sua sorpresa gli mostrai il TAO che avevo al mio collo. Sorrise, ma quache tempo dopo lo persi, perchè aveva un'altra dote: correva i cento metri in 11 secondi netti. A quel punto, con la prospettiva della Nazionale di atletica, dove poi militò, contro un modesto campionato provinciale di calcio, onestamente lo dirottai nella giusta direzione, seppure con rimpianto. L'altro episodio invece, è triste. Allenavo una squadretta di esordienti (undici/dodici anni), ed avevo un ragazzo che mi piaceva veramente. Forte fisicamente, senso della posizione, piedi buoni. L'avevo piazzato in mediana, davanti alla difesa, e faceva la differenza, tanto che grazie a lui vincemmo un torneo ad inizio stagione. Ma la gioia finì presto, perchè le notizie che mi arrivarono sulla sua famiglia mi preoccuparono, e non poco. Suo fratello, con qualche anno più di lui, faceva lo spacciatore, e pareva che si servisse del ragazzo per collocare la "merce" per non farsi prendere dalle forze di polizia. Per qualche tempo il ragazzo venne a giocare, e pensai che forse erano solo cattive voci, ma un giorno non lo vidi più, dopo qualche tempo seppi che si drogava anche lui, e che lo avevano visto "fatto" perso, mi venne voglia di piantare tutto ed andare via. Un senso di impotenza mi pervadeva, ma mi feci forza e continuai, per amore degli altri. Quella volta il Signore non mi aveva esaudito, ma si sa, lui ha i suoi disegni e le sue squadre.

Non so quanto io sia stato bravo ad insegnare calcio, ma quando non sei in una squadra come la Juventus, l'Inter o altre società con grandi ambizioni, ed operi in zone socialmente depresse, e senza altra ambizione che quella di organizzare i giovani educandoli allo  sport, allora cerchi soprattutto di formare i ragazzi, sperando che diventino uomini, che sappiano dedicarsi al lavoro, alla famiglia, e magari entrino qualche volta in chiesa, a dire una preghiera, alla ricerca di una vita normale, senza restrizioni e tristezze. Se ci sono riuscito, allora si sono soddisfatto.