Ricordiamo qui il grande allenatore magiaro di origine ebraica, morto nel campo di concentramento di Auschwitz.

Si avvicina la Giornata della Memoria, dedicata a riflessioni sull’Olocausto, e al ricordo delle vittime di quell’orrore. Riemergono così storie poco note, come quella dell’allenatore ebreo che diffuse in Italia il sistema di gioco della Nazionale Ungherese, all’epoca forse la più bella da vedere.
Parliamo di Árpád Weisz, la cui popolarità come allenatore non servì a salvarlo dalle limitazioni delle leggi razziali volute da Benito Mussolini e ratificate da re Vittorio Emanuele III. E nemmeno a scampare alla deportazione nel campo di concentramento di Auschwitz. Nonostante l’eccellenza sportiva di Weisz, la sua vicenda è stata ingiustamente dimenticata per circa 60 anni.

Andiamo con ordine.
Árpád Weisz, magiaro di origine ebraica, nasce a Solt, in Ungheria, il 16 aprile del 1896. È un ragazzo studioso, che si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Budapest. La Prima guerra mondiale però lo costringe ad abbandonare gli studi, perché viene arruolato nell’esercito austro-ungarico e spedito a combattere al confine col Regno d’Italia.
Viene fatto prigioniero, e recluso in Sicilia, dove studierà e imparerà l’italiano.
Al rientro in patria, inizia la sua carriera da giocatore. È un’ala sinistra, veloce, tecnico. Talmente bravo da essere convocato nella squadra olimpica ungherese. Già nel ’24 si manifestavano in Ungheria, e in particolare nell’ambiente calcistico, fermenti ultranazionalistici e antiebraici. I calciatori di origine ebraica erano parecchi in quella nazionale, e protestavano ferocemente per le angherie a cui erano sottoposti da parte di alcuni dirigenti. Questi erano uomini di fiducia dell’allora presidente ungherese, Miklós Horthy, un nazionalista decisamente antisemita. Dato che le loro ragioni non venivano ascoltate -anzi…- i giocatori decisero di mettere in piedi uno sciopero in piena regola. Così l’Ungheria, favorita per l’oro olimpico, si lasciò battere dal piccolo Egitto, per 0:3, in una partita nota ancor oggi come ‘l’ammutinamento del ‘24’.
I giocatori ebrei decisero tutti, per evitare rappresaglie al rientro in patria, di non tornare in Ungheria. 
Weisz trovò un contratto in Italia, all’Alessandria. In seguito, si trasferì in Uruguay, Paese considerato la culla del calcio di allora, e lì perfezionò la sua tecnica. Purtroppo, tutto il suo impegno è vano, non viene premiato. È sfortunato, smette di calcare i campi da gioco a soli 30 anni, a causa di un grave infortunio a un ginocchio.

Weisz allora si reinventa, intraprendendo il percorso da allenatore col Padova, nella stagione 1924/25. Fosse vissuto oggi, probabilmente sarebbe stato un modello/influencer/testimonial di marchi sportivi. Perché nelle foto e nei ricordi di chi lo aveva conosciuto appare bello, fisico aitante, snello. Ma non era solo immagine la sua, dietro c’era tanta sostanza. Infatti, Weisz ha vinto ben 3 scudetti in panchina, e detiene ancora il record di allenatore più giovane ad aver vinto il nostro campionato di Serie A.
Alla fine del torneo accetta le proposte dell’Inter, che nel frattempo, in ossequio alle leggi fasciste, aveva cambiato il suo nome in Ambrosiana. Anche Weisz dovette mutare il proprio cognome, nel più ‘nostrano’ Veisz. Le cose andavano a meraviglia; la squadra era un gruppo unito, attorno al giovane mister che si allenava con i calciatori, in pantaloncini e maglietta, in un’epoca in cui i tecnici restavano per lo più seduti in panca.
Veisz fu un innovatore sotto molti aspetti: fu il primo a proporre ed eseguire gli schemi, e fu anche un talent scout, antesignano degli osservatori a caccia di giovani promesse. Insomma, si potrebbe considerare l’antenato di illustri figure di allenatori/manager, come Sir Alex Ferguson, Pepe Guardiola, ecc.…
Fra i ragazzini, ne scovò uno appena sedicenne che sarebbe diventato un mito per Milano - e difatti la sua città gli ha intitolato lo stadio - e per l’Italia tutta: Giuseppe detto Peppino Meazza.
Nella stagione 1929/1930, il coach ungherese vince il suo primo scudetto. Di pari passo coi successi sportivi, anche la vita personale andava a gonfie vele: un matrimonio felice, allietato dalla nascita di 2 figli, con una ragazza d’origine ebrea anch’essa, Elena.
Nel frattempo, Veisz riusciva anche a studiare e a coltivare l’interesse per l’arte, la pittura soprattutto - adorava Gustav Klimt - e la psicoanalisi -  ammirava e leggeva le opere di Sigmund Freud - e frequentava i teatri. Persona colta e raffinata come poche nel mondo del calcio.

Intanto il tempo passava, e il nostro uomo non dormiva certo sugli allori; cambiò più volte squadra - Bari, Novara - per accasarsi infine a Bologna. E qui creò il suo vero capolavoro, rilevando una squadra sull’orlo della retrocessione e trasformandola in quella che ‘tremare il mondo fa”.
Con gli emiliani vince 2 campionati di seguito, fra il 1935 e il 1937, e pure un trofeo internazionale legato all’Esposizone Universale di Parigi.
Insomma, un quadro perfetto, se non si fosse intromesso il fascismo, con quelle leggi a difesa della purezza di una razza inesistente, quella italiana.

Árpád, girando l’Europa per i suoi impegni calcistici, aveva fiutato una certa aria di pericolo portatrice di tormenti e disgrazie per quelli come lui, diversi, non goy, giudei come si diceva con disprezzo all’epoca. E sentiva dentro di sé che i trionfi sportivi non l’avrebbero salvato dal destino riservato da nazisti e fascisti a quelli come lui. Le sue paure, sempre più forti, erano rese visibili dagli occhi insonni e cerchiati, dallo sguardo un po’ perso.
Nonostante tutto, non si arrese nemmeno quando venne intimato a tutti gli ebrei italiani di lasciare il Paese nel giro di 6 mesi. Veisz partì solo nel 1939 alla volta prima di Parigi e poi dell’Olanda, portando con sé la famiglia. Nessuno spese una parola per lui, né i politici né gli atleti di grido o gli allenatori della concorrenza, o la federazione. Non sarebbe costato nulla fare almeno un tentativo, non ci fu coraggio nelle opinioni né riconoscenza per il suo lavoro, per il tempo speso a formare i giovani, per il suo contributo anche teorico.
Se qualcosa del genere accadesse a una star del calcio di oggi, ci sarebbero innumerevoli prese di posizione a suo favore sui social, specie da parte dei tifosi; anche qualche parte politica cavalcherebbe questa storia. Insomma, probabilmente l’esito non sarebbe quello scontato e tragico che è toccato a Veisz, e che egli stesso aveva previsto.
Purtroppo, infatti, il rifugio che aveva scelto per sé e i suoi non si rivelò sicuro. I Paesi Bassi vennero conquistati dalle truppe del Terzo Reich dopo una breve resistenza. Árpád continuò a lavorare finché poté, poi si persero le sue tracce fino al 1942, quando la Gestapo scoperse il nascondiglio della famiglia Veisz. 
Sua moglie Elena coi figli Roberto e Clara morirà di stenti su uno di quei vagoni piombati che portavano gli ebrei ai campi di concentramento.
Árpád sopravvisse, grazie al suo fisico da atleta, ma non abbastanza per salvarsi. La sua morte è datata gennaio del 1944.

Negli ultimi anni, la sua luminosa figura di allenatore e di martire è stata riscoperta grazie a libri e spettacoli teatrali. Però, nonostante la sua eccelsa competenza e i risultati brillanti, in Italia non gli è stato mai dedicato uno stadio, una via, una piazza.
Fa eccezione Bologna, dove una delle curve dell’impianto del Dall’Ara gli è stata intitolata. Episodicamente viene proposta una amichevole fra le due squadre a cui Veisz era più legato, Inter e appunto Bologna, che considerava ormai la sua città.
A pensarci, in questa storia sembra tutto così assurdo che si può credere che non sia vero...
Purtroppo, non è così; Árpád è andato incontro a morte certa, consapevole d’avere una colpa sola: quella di essere ebreo.