Cos’era il calcio all’epoca della nazi-fascismo? Era passione, sport, riscatto, sofferenza e libertà. Erano ragazzi, erano atleti, erano eroi. Erano semplicemente persone che lottavano per la libertà e per quello in cui credevano. E giocavano al pallone, allora come oggi il gioco più bello del mondo. Lo sport che il fascismo mai soggiogò. Eppure, quando i fascisti decidevano d'intervenire nell’ambiente calcistico per allontanare gli addetti ai lavori sgraditi, per idee politiche o per razza, risultava assai difficile opporvisi. Ma per alcuni era molto più difficile, difficilissimo piegarsi. Alcuni calciatori decisero di entrare nelle brigate partigiane per combattere la dittatura, non sono pochi i calciatori passati direttamente dal rettangolo verde ai fronti di guerra.
Ecco le loro storie. Tante piccole storie dentro la grande storia.

La storia di Aldo Olivieri, il portiere della Nazionale campione del mondo nel 1938 e di Verona, Torino e Lucchese. Pur non essendo un antifascista d’azione, si mostrò più volte riottoso al saluto romano e una volta fu punito per questo direttamente dall’arbitro, il quale, in perfetto stile “Fuga per la vittoria", gliene comminò di tutti i colori. Lui stesso racconta inoltre che in nazionale il fascismo era ovviamente una componente ideologia molto presente, ma solo Monzeglio era un fanatico in camicia nera; mentre il grande Pozzo non confondeva la politica col calcio e faceva in modo che del Duce non si parlasse mai.

E a proposito di Fuga per la vittoria, in quegli anni ci fu un incontro di calcio che per undici uomini fu viatico di libertà.
Il primo aprile del 1944, a Sarnano (Macerata), si giocò una partita molto particolare. Un mese prima, proprio nel paese marchigiano, tre tedeschi erano stati uccisi da un partigiano, che poi si consegnò ai nazisti per evitare ulteriori rappresaglie e fu condannato a morte. I nazisti proposero allora di disputare una partita di calcio con partigiani e rifugiati: chi si fosse presentato al campo avrebbe avuto salva la vita, a partire dall’arbitro di serie A, Mario Maurelli, il cui fratello, Mimmo, si era unito ai partigiani. La partita ha dell’incredibile. La formazione partigiana passa subito in vantaggio. I tedeschi rischiano più volte di subire altre reti, fin quando, a cinque minuti dalla fine, il difensore Lucarini finge di scivolare lasciando così che il calciatore nazista raggiunga il pareggio. Vincere la partita sarebbe stato pericolosissimo per i partigiani, ma l’agonismo produce, proprio sul finire, un pericoloso contropiede della rappresentativa di Sarnano. Per evitare l'ira tedesca, pur trattandosi di un’azione ancora in pieno svolgimento, l’arbitro Maurelli fischia la fine.
Gli undici partigiani finiscono escono di corsa dalla stessa porticina da cui erano entrati e si arrampicano di nuovo sulle montagne, dopo essersi giocati sul campo la propria libertà.

Quella stessa libertà permetterà alla squadra dei Vigili del fuoco La Spezia di laurearsi campione d’Italia nel 1944, titolo tuttavia mai riconosciuto. Durante gli anni della guerra la squadra si era dissolta. La città subisce ripetuti bombardamenti, il presidente viene catturato dai nazisti e molti giocatori della squadra si danno alla macchia. Nonostante la guerra, la Federcalcio decide di non sospendere l’attività sportiva ed organizza dei gironi a carattere interregionale. Per non far sparire il calcio da La Spezia e per sottrarre alla leva i pochi calciatori rimasti, il comandante dei pompieri li fa arruolare nel Corpo dei Vigili del fuoco. Allenati dall'indimenticato Ottavio Barbieri i Vigili del fuoco si aggiudicano il campionato, ma solo nel 2004 la Federcalcio concederà a quella squadra il titolo di scudetto onorifico.

C'è una squadra che invece incarna tutto lo spirito fascista e l'idea mussoliniana dello sport come forgia di un popolo sano e perfetto: è la Dominante, la squadra genovese nata, nel 1928, dalla unificazione dell'Andrea Doria con la Sampierdarenese. La Dominante giocava con una divisa completamente nera, lo stemma  era l'immancabile grifone accompagnato da un fascio littorio.
Mussolini stimolava la creazione di queste squadre nelle varie città italiane, proprio perchè vedeva nello sport in generale l'ncarnazione del principio mens sana in corpore sano, ma soprattutto perchè vedeva nel calcio uno dei principali possibili vettori di propaganda di regime. Ma questa è unìaltra storia, anzi è l'altra faccia della storia.

Torniamo alle nostre piccole storie di grandi uomini.    
La vittoria dei pompieri spezzini è solo una delle tante beffe subite dai fascisti per mano (o meglio, piedi) di calciatori. Ma non fu la peggiore per loro. Infatti, è grazie all’arma di un calciatore partigiano, Michele Moretti (alias il comandante Pietro Gatti) che fu fucilato Mussolini. Terzino destro, notato e convocato una volta da Pozzo in nazionale B, Moretti vive i suoi migliori anni calcistici tra il 1929 e il 1934, indossando la maglia della Comense, in prima divisione (la Lega pro di allora). Lavora come operaio, si iscrive al Partito comunista clandestino e, sfuggito alla deportazione in Germania, diventa commissario della brigata Garibaldi, quella che catturerà, a Dongo, Benito Mussolini. Partecipa alla fucilazione del Duce, pare per un caso fortuito: s’inceppa l’arma di uno dei tre partigiani preposti all’esecuzione e lui ne prende il posto.

C’è poi la storia di Bruno Neri, il mediano partigiano.
È il 1931 quando a Firenze viene inaugurato il nuovo stadio, intitolato a un gerarca fascista, Giovanni Berta, ucciso dieci anni prima. L’evento viene festeggiato con un’amichevole tra la Fiorentina e l’Admiral Vienna. Prima del fischio d’inizio, come avviene in occasione di ogni partita, i giocatori salutano i gerarchi seduti in tribuna con il braccio teso. Ma non lui. A 19 anni, Neri fu acquistato dalla Fiorentina del marchese fascista Ridolfi. Arriva in nazionale e in azzurro gioca insieme a campioni del calibro di Piola e Meazza, fino a quando non arriva l’interesse del Torino dell’allenatore ungherese Ernest Erbstein.
Anche quella dell'ebreo Erbstein è una storia tutta da raccontare: a seguito delle leggi razziali del ‘38, è costretto a lasciare l'Italia e a cambiare cognome nell’italiano Egri; finita la guerra, Erbstein allenerà prima la Lucchese e poi il Torino dei cinque scudetti consecutivi. Morirà nel tragico incidente aereo di Superga il 4 maggio 1949. Tornando a Neri, sia Firenze che a Torino partecipa con interesse alla vita civile cittadina. Si ritira a 30 anni, nel 1940, ed intensifica la sua attività partigiana. In questa veste, si dedica al recupero di armi e al trasporto di radio utili per i gruppi partigiani della sua zona. E in una di queste operazioni cade per mano dei tedeschi.

Altro calciatore ucciso dai nazisti, il 10 ottobre del 1943, è Armando Frigo. Aveva esordito nel Vicenza non ancora diciottenne, poi il grande salto in serie A con la maglia della Fiorentina. Il talentuoso giocatore veneto avrebbe probabilmente avuto una carriera di rilievo se, nel 1941, non avesse deciso di partire per il fronte. Catturato tra le montagne dai tedeschi, Frigo non nasconde i suoi gradi ai nazisti e, così facendo, salva la vita ai compagni della sua divisione. Viene fucilato. Nella sua tasca troveranno la tessera della Fiorentina. Il Comune di Roana (Vicenza) gli ha intitolato il campo sportivo.

Un altro Comune che ha dedicato lo stadio a un calciatore è quello di Sarzana: la dedica è al portiere Miro Luperi, medaglia d’oro al valore conferita nel 1950 dal Presidente della Repubblica Luigi Einaudi, per il suo ruolo di comandante di un distaccamento della brigata Garibaldi. Luperi cadde in battaglia, ucciso dai tedeschi.

Alla Nazionale era destinato anche Bruno Scher; alla nazionale e all’Ambrosiana Inter. Ma non ci arrivò mai, a causa della sua dichiarata fede comunista. Scher trova spazio a Lucca, nella squadra allenata da Ernest Erbstein, fin quando i fascisti non gl'imposero di modificare il cognome nell’italiano Scheri. Scher, istriano, allora decise di abbandonare la squadra rossonera senza cominciare nemmeno la stagione.

E poi c’è Arpad Weisz, allenatore ebreo ungherese che condusse il Bologna a due scudetti consecutivi. Weisz morì ad Auschwitz il 31 gennaio 1944: vi era stato deportato sedici mesi prima. La società felsinea lo aveva licenziato nel 1938 e lui si era trasferito con la famiglia in Olanda per sfuggire al fascismo. In Olanda, prima di essere deportato, il tecnico ebreo aveva allenato la squadra dilettantistica del Dordrecht, che con lui alla guida avrebbe battuto in più di una circostanza niente poco di meno che il Feyenoord.

Weisz non è l’unico a morire in un campo di concentramento: la stessa sorte tocca al calciatore empolese Carlo Castellani. Giocò anche in serie A, nel Livorno, ma con poca fortuna. Il fascismo impose all'Empoli di cambiare la propria denominazione in Associazione Sportiva Fascista Empoli, dove Castellani militò fino alla fine della sua carriera (la società comunque riuscirà a modificare di nuovo denominazione e si trasformerà in Dopolavoro Empolese). A seguito dello sciopero generale indetto dal Cln nel marzo 1944, i fascisti organizzarono un rastrellamento su larga scala. Loro cercavano David Castellani, il nonno del calciatore dichiaratamente socialista, ma fu Carlo a presentarsi di fronte alle brigate nere e ciò gli costò la deportazione a Mauthausen. A lui è intitolato lo stadio empolese.

E infine c’è la storia di Rino Della Negra, calciatore dilettante nato in Francia nel 1923 da genitori italiani. Rino, operaio, milita nella Red Star Olympique, formazione parigina di origine proletaria fondata nel 1897 da Jules Rimet, quello della Coppa del mondo. I Della Negra trovarono rifugio in Francia, ad Argenteuil, vicino Parigi, in fuga dal fascismo. Rino lavora in fabbrica, ma si dimostra un ottimo calciatore e così va a giocare alla Red Star, squadra nella quale militò anche Helenio Herrera. Dal 1942 il giovane calciatore entra in clandestinità e fa il suo ingresso in un movimento operaio di stampo partigiano, rendendosi protagonista di una serie di azioni eclatanti, tra le quali l’attacco alla sede parigina del Partito fascista italiano (era il 10 Giugno del 1943). La Gestapo batte le strade di Parigi per dare la caccia a lui e ai suoi compagni, fino a quando non viene arrestato e giustiziato.

Fine.
Fine di alcune delle tante piccole storie che hanno costellato il ventennio fascista e la seconda guerra mondiale. Storie di uomini e di squadre, i cui destini e quelli degli oppressori fatalmente s’intrecciarono, perché il calcio anche allora accomunava tutti, vincitori e vinti. Solo che le regole le scrivevano quest’ultimi e chi non vi si atteneva la pagava a caro prezzo.
Tutto questo fino alla liberazione.