La domenica del 26 Febbraio sarà difficile da dimenticare, l'organizzazione del Torneo era curata in ogni minimo particolare, mai in precedenza si era vista tanta perfezione, ad incominciare dalla location, la splendida Piazza Venceslao, palcoscenico dei fatti più importanti della storia di quella che era stata la Cecoslovacchia ed ora è la Repubblica Ceka.
Giocare all'aperto era stata una scelta alquanto rischiosa se la temperatura fosse stata particolarmente fredda, ma, le splendide strutture in legno, tipo mercatino di Natale che erano state predisposte, con tanto di stufa a gas e la giornata di sole che si stava prospettando, allontanavano ogni preoccupazione. I trentadue campi da gioco erano posizionati a gruppi da quattro. Otto le postazioni predisposte, nella parte iniziale della Piazza, quella più lontana al Museo Nazionale. Quattro sul lato destro e quattro su quello sinistro della strada, che per questa occasione era stata chiusa al traffico. Le iscrizioni e relativo tavolo giuria erano collocate presso il luminoso negozio di calzature Bata, che aveva addobbato le ampie vetrine con i manifesti del torneo e le bandiere delle nazioni dei partecipanti.

Versata la quota, ritirato il cartoncino plastificato, riportante Nome e Nazionalità e preso il numero della postazione dove ero stato inserito per il primo turno, fui attratto da uno dei manifesti in bella mostra. Davide vi aveva fatto inserire una frase scritta in giallo, con bordature rosse, in Inglese e in Ceko, "The last match of a Mito" e "Posledni utkanì fotbalové legendy ". Non c'era il riferimento, aggiungerei non serviva, pur sapendo che non era vero,  un gesto da amico, che apprezzavo e mi inorgogliva. 

Ero inserito nel gruppo sette, numero fortunato che non poteva che riportarmi a Yul Brinner e a giorni felici. Nell'avviarmi verso la mia postazione per conoscere i miei avversari, constatavo l'eleganza e la cura con cui tutto era stato preparato. Essendo la piazza in leggera pendenza, anche il pavimento delle postazioni descritte era stato predisposto con delle pedane di legno, perfettamente livellate, mentre all'esterno, con il duplice effetto di abbellire e creare interesse, erano state posizionate delle bandierine raffiguranti tutte le nazioni del mondo, stile olimpiadi. All'interno di queste elegantissime postazioni i quattro campi da gioco, illuminati alla perfezione da lampade al neon, erano stati delimitati con quattro poltroncine e due divanetti, stile liberty, bianchi con seduta rossa.
Non bastasse tutto ciò, trentadue bellissime ragazze, una per campo di gioco, lasciavano spettatori e partecipanti a bocca aperta, increduli.  Erano vestite nel medesimo modo. Tute di pelle rossa, attillate, ad evidenziare fisici statutari, stivali e capellini neri, impugnavano con la mano destra un cartellone con i nominativi dei due giocatori che si sfidavano e relativo risultato, che dovevano tenere aggiornato. Una trovata pubblicitaria, graditissima a tutti, poiché la scritta di una nota ditta di birra nazionale, la Pilsner Urquel, recentemente passata di proprietà ai giapponesi, che era stampata sulla tuta e sul capellino, non passava sicuramente  inosservata ai tantissimi presenti, fra turisti stranieri e praghesi. Solo al Gran Premio di motociclismo di Brno, o alla televisione, avevo visto delle ragazze così belle.
Tanta bellezza non poteva ugualmente farmi dimenticare che eravamo vicinissimi al Monumento di San Venceslao, dove, nei tragici giorni dell'invasione Russa, nella primavera del 1968, Jan Palach uno studente di filosofia di ventuno anni volle, con un gesto estremo, gridare al mondo l'ingiustizia che un popolo stava subendo nell'immobilismo generale, dandosi fuoco. 

Erano state fin troppe le distrazioni, era il momento di giocare. Avrei affrontato nell'ordine Enio Stringari, Vaclav Havel, un Ceko dal nome famosissimo e per concludere Alessandro Mastropasqua. Fra i sessantaquattro iscritti gli Italiani erano sicuramente il gruppo più nutrito e fra questi molti erano del nostro Club, un gesto dovuto nei riguardi di Davide, l'organizzatore e nostro allenatore, da me paragonato a Tabarez. Solo i primi due sarebbero passati alla fase successiva. Mentre preparavo la mia formazione per il primo incontro, generalmente il più importante per il passaggio del turno, constatavo che i colori della mia Velox erano gli stessi di Praga, il giallo e il rosso. Segnali positivi, come l'acqua santa di Gesù Bambino di Praga, che mia nonna mi versava sulla fronte da bambino, ogni volta che la andavo a trovare, che mi aveva portato qui, prima a sposarmi ed ora a giocare il torneo che concludeva la mia carriera.                                      

Ore nove e trenta, un trombettiere in costume storico, diede lo squillo di inizio. 
Enio incominciò la partita giocando benissimo. Non sbagliava nulla, probabilmente aveva saputo del mio commento sulle sue manone, o non gli era piaciuto il paragone con Joe Jordan, centravanti del Milan, fatto sta che in pochi minuti si portava in vantaggio, gridandomi in faccia, tutta la sua soddisfazione. Non davo alcun segno di reazione chiudendo, il primo tempo, sotto di due gol. Unica nota positiva, il sorriso della ragazza che aggiornava i risultati e il succo di mela calda con strudel, che ci veniva offerto all'intervallo. Per quanto potessi essere ottimista la situazione volgeva al peggio, quando improvvisamente il cellulare di Enio squillò ed essendo in pausa, potè rispondere. Era la moglie, che gli chiedeva di rientrare immediatamente a casa. Dubito sapesse che il marito era a Praga, so solo che lui ripeteva, "dammi il tempo di fare la strada", si, pensavo io, ottocentocinquanta chilometri! Feci finta di non aver sentito nulla e appena terminata la telefonata, gli lanciai la battuta: "dai Enio, che adesso faccio la remuntada". Lui brontolò una mezza frase che non capii bene, tipo: "ma va a dar via e ciap..." in un dialetto lombardo che mai, in passato, gli avevo sentito pronunciare. Strinse la mano all'arbitro, diede due baci alle ragazze e, senza dirmi altro, abbandonò campo, torneo e Piazza.
La prima partita era vinta.
In perfetto orario alle dieci e quindici minuti, iniziava l'incontro contro il Ceko dal nome impegnativo, Vaclav Havel, come il Presidente della rivoluzione pacifica. 

Il mio avversario era un uomo distinto, alto, magro, capelli brizzolati, sulla sessantina, ma molto giovanile. Indossava una bellissima tuta ginnica con i colori della Società Sportiva Dukla Praga, pantaloni color cammello e felpa nera, con il classico stemma rosso con scritta oro. Portava occhiali scuri. Era stato un militare di carriera, in un reparto di elicotteristi, i gradi in bella mostra sulla spalla sinistra, credo da caporal maggiore a confermarne il valore. Dovevo quindi affrontare un eroe in pensione, ceco. No, non nel senso di nazionalità, ma non vedente.  Accompagnato da un bellissimo esemplare di cane lupo che, senza bisogno del guinzaglio, gli rimaneva al fianco dandogli con il solo tocco del muso sulla gamba, libera dall'ostacolo del tavolo e rispettoso dei movimenti, sempre appropriati del suo padrone, le indicazioni necessarie. Utilizzava il peso della sua zampa sul piede di Havel, per riuscire a segnalare perfettamente le distanze, per palla o marcatura. Insomma una simbiosi perfetta che mi teneva bloccato sullo zero a zero, fra gli applausi dei presenti all' elegantissimo militare ed al fratello del commissario Rex. Fu un evento esterno a venirmi in aiuto. Una signora molto elegante, dall'età indefinibile, come ormai accade con gran parte delle donne, che ricordo confusamente.
Altezza un metro e settantasei centimetri, capelli biondi ondulati, occhiali grandi rossi, giubbotto nero di pelle con inserti di pelliccia rossa, minigonna di pelle nera, con un pizzo nero trasparente che, fasciandola, faceva risaltare, le poco celate, sinuosità delle forme, le calze bianche a rete, di cotone a maglia larga, stivaletti neri con tacco dodici, profumo “J'adore”, di Cristian Dior. Passeggiava in compagnia di una splendida cagnolina, razza Dalmata, che teneva legata con un guinzaglio, allungabile, rosso e nero.
Probabilmente doveva scendere le scale della metropolitana, la cui via di accesso era vicinissima a noi, fatto sta che decidendo di fermarsi in prossimità del nostro campo di gioco, involontariamente, distraesse il validissimo quadrupede, in un momento tanto delicato, quanto decisivo.          Havel stava colpendo la pallina in prossimità della sua porta e per far ciò prese il portierino. Il lupo, nel girarsi verso la dalmata, che si era avvicinata a lui infilandosi fra il divano e una poltroncina, toccò la gamba del padrone inviando un messaggio sbagliato. Il mio avversario mancò la palla ed io segnai a porta vuota il più facile dei gol. Evitando ogni festeggiamento. La partita era vinta, non proprio in modo netto, passavo il turno e andavo avanti. 
Lo sport insegna che sono solo i risultati a restare indelebili, come vengono ottenuti viene dimenticato, così come il colpo di testa di Muntari e il gol non assegnato al Milan. Non avevo fatto nulla di male. Potevo guardare avanti tranquillo. 

Al terzo turno dovevo affrontare il validissimo Mastro,"Cassano" ma la sconfitta, cinque a zero, non comprometteva la qualificazione già raggiunta. Si doveva giocare ancora un turno, i sedicesimi e poi ci sarebbe stata la pausa per il pranzo.
Mi ero prefissato come obiettivo minimo di arrivare agli ottavi, un risultato decoroso, sufficiente per concludere in modo dignitoso la mia lunga carriera. Ero vicinissimo alla meta, oltretutto in un torneo Internazionale, importante e con moltissimi stranieri. 
Non potevo sperare in cornice migliore per inserire la fotografia finale.
Aspettavo, seduto comodamente in uno dei divanetti messi a disposizione, il mio nuovo avversario, Donald Mc Gregor, un pezzo d'uomo di almeno centotrenta chili, ma distribuiti bene. Era un ricco tenutario terriero scozzese, sulla cinquantina, di Glasgow. Giocava indossando la classica maglia a strisce orizzontali, bianche e verdi della squadra protestante per cui tifava, il Celtic ed il più classico dei gonnellini, con i colori della sua famiglia, verde e blu, che faceva finta di alzare dopo ogni tiro, volgendosi verso la bellissima ragazza messa a disposizione dall'organizzazione. Tutti i presenti, io compreso, eravamo convinti fosse privo di indumenti intimi. Rideva in modo spontaneo, coinvolgendo tutti gli spettatori. Era arrivato a Praga già da due settimane dovendo concludere l'acquisto di alcuni cavalli da corsa puro sangue e si dimostrava più interessato alla splendida ragazza dagli occhi azzurri, che mostrava i nostri nomi e il risultato, piuttosto che a vincere la partita che stava giocando. Ciò che invece stava notevolmente condizionando il suo modo di giocare era il fatto che, non avesse bevuto il succo di mele caldo che veniva offerto, ma del punch caldo al rum e dopo quattro partite incominciava a sentirne l'effetto. Vinsi due a zero, Donald era più felice di me e faceva il giro dei campi baciando tutte le donne presenti. La mia personalissima mission era stata raggiunta. Dopo la pausa, si sarebbe ripreso alle quattordici e trenta. Potevo giocare libero da ogni preoccupazione, solo per aggiungere gloria alla mia storia. 

Soddisfatto di ciò, mi rivolsi ai miei compagni di club, invitandoli a mangiare e bere da “Kolkovna”. Questo locale storico è ubicato poco lontano da dove eravamo. Arrivati alla piazza dell'orologio, Staromestske namésti, lasciandola sulla destra e proseguendo dritti per la via che condivideva il nome con la famosa birreria, si arrivava velocemente. Punto di incontro molto conosciuto, dagli eleganti interni in legno, è vicinissima al quartiere ebraico che con la sua sinagoga è un immancabile visita per i turisti di ogni nazionalità. Era stata gravemente danneggiata nel 2002 quando il fiume Moldava, che attraversa Praga, aveva straripato inondando moltissimi quartieri della capitale e infliggendo danni incalcolabili a tutto ciò che era sotto il livello del fiume, prima fra tutte la metropolitana. Con i soci del Circolo di Mestre avevamo fatto una colletta, un piccolo gesto per contribuire alla ripresa e sebbene 285 € non fossero una somma sostanziosa eravamo ugualmente contenti. Quel locale è garanzia di qualità, con i piatti della tradizione ceka e le migliori birre. Oltre che la dimostrazione che tutto è sempre superabile, anche i brutti imprevisti.  Quando stavamo entrando nel locale ci accorgemmo che Paolo, che come noi era passato agli ottavi, non si era aggregato e il non saperne il motivo creò una certa preoccupazione, ma la fame generale, allontanò ogni pensiero.

Quando ritornammo in Piazza Venceslao gli otto tavoli erano tutti posizionati nelle prime due postazioni ed ancora una volta incrociavo un mio compagno di squadra, quasi Praga fosse Mestre. Giocavo proprio contro Paolo Natale "Beccalossi", che non avevamo più visto e il motivo ci fu subito chiarito. Aveva battuto un tedesco, per sette a zero e allo sportivissimo gesto di tendergli la mano, per il saluto finale, aveva aggiunto la frase: "Otto, alla prossima". Alcuni presenti affermavano che avesse accompagnato il tutto da una risatina, ma in realtà, Paolo, sempre correttissimo, si riferiva solo al nome del suo avversario, Otto Muller e non vi era alcuna intenzione di sbeffeggiarlo. Fatto sta che la stretta di mano, del teutonico, fu talmente forte da procurargli la rottura di falange e falangetta, delle dita, indice e medio, dovendo ricorrere a cure mediche, con conseguente steccatura e fasciatura della mano destra. Il suo torneo finiva li e poco lo consolavano le scuse della Federazione Tedesca. Un altro turno superato. In attesa di conoscere l'avversario successivo, feci qualche tiro in porta sorridendo ai passanti.
Eravamo rimasti in otto ed ora dovevo affrontare Alberto La Rosa,"Rajkard", che aveva vinto il suo girone e le partite successive, giocando come non aveva mai fatto in passato. Si presentò al campo di gioco, mancava poco al fischio d'inizio e stavamo lucidando i basamenti quando mi si avvicinò dicendomi una frase che non potrò mai dimenticare: "Giorgio, non mi perdonerei mai di averti rovinato questa giornata, la vittoria è tua, tenta di arrivare in finale". Restai ammutolito e la prima cosa che mi passò per la mente fu che solo le grandi persone riescono a fare grandi gesti e sulla grandezza di Alberto non avevo mai avuto dubbi.
Cosa dovevo fare? Potevo forse rinunciare? Ed anche avessimo giocato ed io vinto, che valore avrebbe avuto quella vittoria? Quasi da offesa. Ero commosso, un gesto inaspettato, che non mi rendeva felice tanto dal fatto di arrivare in semifinale, quanto di averlo ricevuto, del suo significato. Qualcuno dei presenti fischiò, non capendo l'accaduto, io feci un gesto d'inchino, simulando di levarmi il cappello, come si vede in molti film di moschettieri, un gesto internazionale, che non aveva bisogno di parole e fu apprezzato dai numerosissimi spettatori che applaudirono, mentre sugli altri campi si continuava a giocare. Ero in semifinale e il mio avversario era uno dei favoriti per la vittoria finale, William Dotto, "Sheva".
Il mio torneo era già andato al di là di ogni più rosea aspettativa, non solo per merito mio, quindi avrei accettato serenamente il verdetto del campo ma, memore che nessuna partita è persa prima di essere giocata ed essendo molto superstizioso, decisi di attuare una "scaramanzia" nella speranza potesse  aiutarmi a superare anche questo difficile ostacolo. Presi dalla valigetta uno dei giocatori di riserva sostituendo il numero dieci della mia formazione, raffigurato da mio figlio, con un giocatore immaginario, probabilmente meno forte tecnicamente, ma del posto e dalle infinite potenzialità: Gesù Bambino di Praga. 
Solo due tavoli ora occupavano la prima struttura, sul tavolo numero uno, Eddy giocava contro Sotiris, mentre sul tavolo due eravamo  William ed io a giocarci l'accesso alla finale. Uno splendido quartetto, con l'elegante tuta del nostro Club, il Serenissima Mestre. Al fischio d'inizio si alzò un leggera brezza che non interferiva minimamente sull'altro campo, ma solo sul nostro, rendendo molto difficile il controllo della pallina e livellando notevolmente il gioco, avvantaggiandomi, anche perché giocavo in favore di vento. William era in constante possesso di palla. Certamente erano molte le stranezze, a partire dal vento che, regolarmente, gli impediva l'accesso all'area di tiro. All'intervallo eravamo zero a zero, mentre Eddy stava vincendo due a uno. Al cambio campo, la prima nota positiva fu che anche la brezza aveva invertito direzione continuando ad essere determinante e quando anche William si era arreso all'evidenza, accontentandosi di arrivare ai tiri piazzati, accadde un episodio che, non sapendo come descrivere userei il termine, irreale.
In una delle mie rarissime fasi di attacco avevo perso palla, non tanto per incapacità, quanto per le asfissianti e bellissime marcature che il mio rivale riusciva sempre a mettere in atto. La pallina era terminata sul dischetto del rigore, libera da ostacoli se non per un mio giocatore, ma posizionato lateralmente.
Un colpo privo di rischi, che il mio avversario si apprestò a fare levando il portiere dalla porta ed utilizzando il portierino. Cosa successe esattamente, non so dirlo come credo nessuno dei presenti, arbitro compreso. Tutti vedemmo chiaramente il giocatore lanciato dal dito indice del mio avversario colpire la palla che aveva campo libero, mentre non riuscimmo a capire come mai la pallina stava entrando lentamente nella propria rete. Solo il giocatore della mia squadra, avrebbe potuto ostacolando il tiro, realizzare il gol e portarmi in vantaggio, ma non era davanti alla pallina ed io non lo avevo certamente mosso, anche perché avrei commesso un'interferenza irregolare e l'arbitro avrebbe annullato il gol. Ecco spiegato il motivo per cui ho usato il termine “irreale”. William guardò me e l'arbitro, che posizionava la palla a centrocampo, senza emettere una parola e la splendida ragazza, come da rituale, aggiornò il risultato mettendo l'uno affianco al cognome Velli. Mentre posizionavo la squadra nella mia metà campo guardai chi era quel mio giocatore più vicino alla palla. Nel prendere in mano la piccola miniatura già il fatto che fosse bianco e biondo restringeva notevolmente la possibilità di chi avesse interferito sull'accaduto, ma nel girarlo vidi numero e una decalcomania che io, non avevo messo. Con l'otto orizzontale a simboleggiare l'infinito, Gesù Bambino Praga.  Sembrava un sogno. Dentro la struttura, ora piena di pubblico e con tutti i trofei da consegnare ai partecipanti in bella mostra, vi era ora solo un campo, pronto per l'ultima partita. La mia ultima partita, la finale. Sembrava un sogno. Lo Speaker annunciò i nomi dei due finalisti e noi entrammo dai due lati opposti, come fossimo, Rocky Balboa e Apollo Kid. I componenti dell'orchestrina dell'hotel Ambassador, vicinissimo alla nostra postazione, intonò, l'inno di Mameli. Finale, Eduardo Bellotto contro Giorgio Velli.  Nel guardarlo, così sempre uguale a quando era ragazzo, mai un chilo in più, con quel viso così sereno, mai imbronciato, che solo qualche ruga poteva scalfire, vedevo una vita, un Campione e un amico.  Non avrei potuto sperare in un finale migliore. Eddy mi si avvicinò dicendomi: "dai Giorgio facciamogli vedere come si gioca". Io, come lui, Rivera e Cruijff, come quel pomeriggio a Padova, di tantissimi anni prima. La stessa orchestrina intonò una bellissima canzone di Frank Sinatra, ”My Way”, la Mia Vita.

Tutto sembrava un sogno. Oltretutto a completare una giornata già di per sé incredibile, i moltissimi presenti, non so da chi diretti, incominciarono ad intonare un coro, all'unisono, facendomi venire la pelle d'oca :“ Ve- lox, Ve-lox, Ve-lox, ti alzi ?”  Come ti alzi ?  “Devi portare giù la Lilly, la nostra cagnolina”, esclamò indispettita mia moglie. “Non dovevi anche andare a giocare quel torneo? ”Veramente, risposi io assonnato, stavo giocando la finale...... “Ma, quale finale, se stavi russando !!”, abbozzando una mezza risatina, alquanto antipatica.   Era proprio un sogno, avrei dovuto capirlo fin dall'inizio, era impossibile essere sotto di due gol da Enio, lo squalo. Tutto era realistico, così perfetto. Non avevo più alcuna voglia di andare al torneo, questo era il finale che avrei voluto avere e così avrei concluso.                                                    

Molti anni prima, Nicola Di Lernia ci aveva realizzato un bellissimo filmato, ad alcuni di noi aveva posto la domanda: "Che cos'è il Subbuteo ?". Il Dottor Toschi aveva risposto in modo molto simpatico: "Ti fa sentire adulto da ragazzino e ragazzino da adulto". Io avevo commentato: "Un divertimento, una passione, un ritrovarsi fra vecchi amici".
Oggi avrei risposto semplicemente: "E' stato il più bel sogno della mia vita". 



Fine. THE END. Tre fischi