Sembra una vita passata da quando, da bambino, l’unico scopo della giornata estiva era quella di poter dare due calci ad un pallone con gli amici. La mia infanzia, passata in un piccolo paese di confine con meno di 3000 anime, mi vedeva protagonista di interminabili partite rincorrendo un pallone su campi improvvisati e con la compagnia dei soliti noti che, come me, erano pazzi per questo sport.  

Facce sudate, gambe esauste e la consapevolezza di voler ricominciare nuovamente a giocare

Ogni sfida, sempre fra le stesse facce, sembrava la finale della “Coppa Campioni” con tanto di premiazione virtuale dei vincitori mentre si correva a dissetarsi dalla prima spina d’acqua che trovavamo in strada

Il pallone, in base alle occasioni, era il famigerato “Supertele” o il semi-pro “Tango" che ci permetteva di tirare delle punizioni con effetti miracolosi stile Roberto Carlos (nonostante non credo lui ancora fosse famoso) e palloni di cuoio duri e pesanti che potevano pesare oltre 10 Kg se si andava al campetto dopo un acquazzone.

Nelle giornate di sole, di pioggia e di vento (a Trieste arrivava anche a 130/orari) noi eravamo sempre lì pronti a darci battaglia prima di riprendere alla sera l’uscio di casa e subire la VAR da parte di mamma che raccoglieva fango dopo il nostro passaggio.  L’appuntamento era sempre al solito posto, un campetto di periferia in terra battuta e con le radici degli alberi che ci tenevano compagnia durante le nostre sgalloppate sulla fascia.

Quante cose son passate in oltre 30 anni ma una cosa, una sola non cambierà mai: le regole non scritte, ma sacre, del "calcio di strada".

#La scelta dei Capitani

I migliori diventavano i capitani della squadra  e decidevano le sorti della partita; un pari o dispari che poteva far pendere da una parte o dall’altra l’esito della giornata. Momenti di tensione e poi, uno a uno ci si accasava nei due team. La modalità di scelta erano molto semplici e si basavano sulla forza del giocatore ma soprattuto su due elementi cardine: il legame di simpatia fra il capitano e chi era in riga, come dovesse essere fucilato, e quando il prescelto dovesse lasciare il campetto creando un “effetto handicap” a tutta la formazione. 

Da questi momenti riuscivi a capire qual'era il tuo ruolo nel gruppo perché se venivi scelto per primo eri un leader mentre man mano che la fila si assottigliava venivi assalito dalla paura di essere l’ultima scelta che diventava subito fonte di scherno e di disagio. Ma in quei momenti tutto andava bene e si accettava, senza commentare ad alta voce, le scelte dei nostri due condottieri nonostante le poche ragazzine presenti segnavano sul taccuino lo “sfigato” di turno.

#Goal o NoGoal

Per chi ha vissuto in periferia e non solo si sa che non sempre ci sono delle vere o presunte porte di calcio da utilizzare e bisogna dar sfogo all'ingegno per iniziare a giocare. Abitualmente le contestazioni più feroci nascono sul "goal o no goal" per la mancanza della traversa; noi ci impegnavamo a mettere le cartelle o dei sassi a terra ma per la traversa non c’era alcuna soluzione. L'unica strada percorribile, seppur  primordiale, che abbiamo adottato è stata quella di considerare l’altezza massima della porta in base all’altezza del portiere con le braccia tese in alto. 

Sembra un paradosso ma avere un portiere basso in porta in molti casi aiutava la sua squadra a vincere.

#Mi restituisci la palla?

Molti giorni il campo dell’oratorio non era disponibile e ci si organizzava a giocare in “parchi giochi” in mezzo a scivoli ed altalene. Per le porte si usavano le panchine ma il vero problema era rappresentatao dalle case troppo vicine al campo che diventavano vittime dell’incontrollato uso della forza e della mira scadente di noi "fenomeni".

Il risultato più evidente si traduceva nella perdita di mille palloni che varcavano i giardini fioriti delle abitazioni con i rispettivi proprietari che, all’inizio, venivano disturbati ogni 10 minuti con il campanello di casa e poi, per non rincorrere in sanzioni quali le urla o il temutissimo “taglio del pallone” in diretta, venivano ignorati mandando in spedizione lo sventurato che aveva scagliato la palla a recuperarla scavalcando la rete. Una vera “Mission Impossible” fra filo spinato, cani in agguato e pantaloni disintegrati.

#Neymar non avrebbe potuto giocare

Quando eravamo al campetto il fallo era una parola da usare con il contagocce; quando si pratica il “calcio da strada” devi essere perfetto nel fisico, nello spirito e nella mente altrimenti vieni sopraffatto dai tuoi avversari. L’arbitro, nella nostra testa, era solo un essere mitologico e il fallo da fischiare era solamente quando il ragazzino di turno non perdeva almeno 3 litri di sangue. La simulazione non era contemplata e, nonostante degli stop al gioco per delle urla concitate dopo un contrasto, il tempo di gioco era effettivo e certificato da regolare orologio “Casio”. 

Data l’immensa classe dei giocatori in campo si perdeva più tempo al recupero dei palloni che al gioco vero e proprio ma questo era parte del nostro piccolo mondo e poi ogni volta che la palla usciva il ragazzino con il cronometro stoppava immediatamente.

#Non tirare forte

Non capitava molto spesso, ma in casi estremi, si finiva ai calci di rigore battuti a pochi metri dallo sfortunato portiere al quale non rimaneva che appellarsi, magari con insistenza, alla regola non scritta del “non tirare forte”. Il risultato ovviamente era contrario alle richieste e, dopo una “bomba” alla Carlos Dunga, il portiere che riusciva a parare il tiro, ancora con le lacrime soppresse per fierezza, mostrava i segni sui polsi malconci alludendo a qualsiasi sciagura mortale per questo prodigio di parata.

#Il portiere fisso

Il mito del portiere fisso rappresentava una chimera, nessuno voleva stare in porta e gli auspici iniziali erano sempre i soliti “ogni Goal si cambia” ma nel suo cuore lo sventurato sapeva che da quel momento e fino alla fine delle ostilità non si sarebbe mosso da lì sentendosi pure insultato dai compagni di squadra per ogni goal incassato.

#Var o Moviola in Campo

Il processo del lunedì con Aldo Biscardi, la “Moviola in campo” e la VAR penso che le abbiamo inventate noi in quel campetto. Quando la palla passava vicino al palo scattava la contestazione. In quel preciso momento si scatenavano decine di “moviole umane” che poi finivano puntualmente con qualcuno che si faceva male simulando una caduta, un tiro o altro.

#bianchi contro colorati

Fatte le squadre il problema era riconoscerci sul campo . L’unica soluzione era quella di scambiarsi la maglia (dalla seconda partita sudata) per stilare una visione cromatica decente. 

Il problema nasceva quando le squadre si preparavano sulla carta il giorno prima per non perdere tempo al mattino seguente e la mamma, all’ultimo minuto, prima di prendere la bicicletta ed andar al campetto, lavava la maglietta in lavatrice, mandando in tilt tutta l’organizzazione del gruppo.

#devo andare a casa

Ogni sera la tragedia era lì ad aspettarci: arrivava il temutissimo urlo della mamma: "è pronta la cena? Vieni a casa!"

Il bambino che aveva portato la palla veniva richiamato e si decretava con il "triplice fischio" la fine della partita. Nessun minuto di recupero veniva concesso per non incorrere in una sanzione a casa che poteva portare, in caso di ritardo, a venir squalificati per giorni dal campetto e a dover fare i compiti.  

Quanto mi mancano quei momenti, quanto mi mancano quei volti felici che inseguivano il pallone senza pensieri e con tanta voglia di divertirsi. Grazie mamma per avermi permesso di vivere in questo mondo.

Se qualcuno ha vissuto queste esperienze lasci nel commento una sua esperienza.

Vi saluto, vado a comprare un Tango per i miei figli.