Anche il calcio è un lavoro e, come tale, soggiace a tutte le regole, obblighi e guarentigie che regolano il mondo del lavoro e i suoi rapporti.

Oggi è la festa di lavoratori, oggi festeggiamo i diritti dei lavoratori e ricordiamo le le lotte che sono state combattute per affermarli. Mi pare perciò appropriato sottolineare come gli stessi calciatori spesso si siano ritrovati a dover lottare per i propri diritti; e il fatto che essi appartengano ad una categoria di privilegiati (almeno quelli delle serie maggiori) non vuol dire che quei diritti siano meno meritevoli di tutela; soprattutto perché ciò a cui il più delle volte essi debbono far fronte è, forse, la pratica di vessazione più riprovevole che un datore possa mettere in atto: il mobbing. Una delle principiali cause di lavoro intentate dai calciatori è infatti quella di mobbing. Esemplificando, con questo termine (dall’inglese “To mob”: “molestare”) s’intende la persecuzione del datore di lavoro ai danni del lavoratore.

Sì, il mobbing! I calciatori vengono spesso fatti oggetto di mobbing.

Come tutti gli ambienti lavorativi, ci sono stati moltissimi casi di mobbing, vero o presunto, alcuni dei quali hanno ovviamente avuto un’importante eco mediatica. In passato, si ricordano le vicende che hanno visto coinvolti Rodrigo Taddei ed il Siena, Fabio Rustico e l’Atalanta, Diego Zanin ed il Montichiari, Lorenzo Mattu e il Latina, Leo Criaco e il Benevento, per arrivare al famoso Antonio Cassano, prima contro la Roma poi contro la Sampdoria; e ancora, Vincenzo Iaquinta contro l’Udinese, Jimenez contro la Ternana, Davide Marchini e il portiere Marchetti contro il Cagliari, Pandev contro la Lazio. Casi in cui dei calciatori professionisti, più o meno famosi, hanno lamentato (a volte con successo, altre volte no) pressioni e altre condotte discriminatorie attuate dalle società, da dirigenti o dagli allenatori, per costringerli ad accettare trasferimenti o rinnovi di contratto a loro sgraditi.

Ebbene, vediamo quali sono, nello specifico, le condotte mobbizzanti nel calcio. Ma prima disegniamo, per sommi capi, il quadro normativo di riferimento. 
Il rapporto fra il calciatore professionista e la società rientra nella fattispecie dei rapporti di lavoro sportivo subordinato e viene quindi disciplinato dalla legge 91 del 1981 (e successive modifiche), nonché da tutte le fonti primarie che regolano il contratto di lavoro subordinato (codice civile e Statuto dei lavoratori, in primis), quando non dichiarate inapplicabili. Oltre a queste norme, il rapporto è anche disciplinato in base ai normali strumenti del diritto del lavoro, ossia i contratti collettivi di settore, che per quanto riguarda i calciatori vengono stipulati ogni tre anni fra l’Associazione Calciatori e la Lega di appartenenza, con la supervisione della FIGC. La FIGC ha una parte importante nella questione, dal momento che è fatto obbligo alle società di, cito testualmente, assicurare a ciascun tesserato lo svolgimento dell’attività sportiva con l’osservanza dei limiti e dei criteri previsti dalle norme federali per la categoria di appartenenza in conformità con il tipo di rapporto instaurato con il contratto o col tesseramento. Non solo, ma l’inosservanza da parte della società degli obblighi derivanti dalle norme regolamentari e da quelle contenute negli accordi collettivi e nei contratti tipo, comporta il deferimento di essa agli organi della giustizia sportiva per i relativi procedimenti disciplinari. Ciò vuol dire che, oltre alla giustizia sportiva, alcuni comportamenti possono anche essere rilevanti per la giustizia ordinaria, proprio come mobbing, quando la condotta illecita è inquadrata appunto in una strategia volta a costringere il giocatore ad accettare ob torto collo le scelte della società. In particolare, la società ha l’obbligo di fornire al calciatore le strutture idonee alla preparazione e mettere a sua disposizione un ambiente consono alla sua dignità professionale. In ogni caso il calciatore ha diritto a partecipare agli allenamenti ed alla preparazione precampionato con la prima squadra, salvo quanto disposto dall’art. 11 (che prevede, in alcuni casi, l’esclusione dall’allenamento come sanzione disciplinare limitata nel tempo). Di contro, il calciatore, salvo i casi di malattia e di infortunio accertati, deve partecipare a tutti gli allenamenti nelle ore e nei luoghi fissati dalla società, nonché a tutte le gare ufficiali o amichevoli che la stessa intenda disputare in Italia o all’estero; e di adempiere la propria prestazione sportiva nell’ambito dell’organizzazione predisposta dalla società e con l’osservanza delle istruzioni tecniche e delle altre prescrizioni impartite per il conseguimento degli scopi agonistici, nonché di osservare strettamente il dovere di fedeltà nei confronti della società ed evitare comportamenti che siano tali da arrecare pregiudizio all’immagine della società; cogenti infine sono per lui le prescrizioni attinenti al comportamento di vita del calciatore, che sono legittime e vincolanti, previa accettazione delle stesse da parte del calciatore, accettazione che non potrà essere irragionevolmente rifiutata, soltanto se giustificate da esigenze proprie dell’attività professionistica da svolgere, salvo in ogni caso il rispetto della dignità umana. Ancora, egli non ha diritto di interferire nelle scelte tecniche, gestionali e aziendali della Società.

Bene! Fissate, per grandi linee, diritti e doveri di datori e lavoratori, arriviamo al nocciolo della questione, che attiene proprio alle scelte tecniche, gestionali ed aziendali della società, che il giocatore non può contestare. La questione sorge, e le aule di tribunale si spalancano, quando la libera discrezionalità delle scelte tecniche oltrepassa il limite dei comportamenti legittimi e sconfina nella finalità discriminatoria. E quindi ci si chiede in concreto: quando quello specifico comportamento è frutto di una scelta tecnica, ed è perciò lecito, e quando invece ha un intento mobbizzante, ed è pertanto vietato? Impossibile dare a questa domanda una risposta generica e di principio, perché tanti sono i casi, tutti complessi e dai molteplici aspetti; dobbiamo quindi rifarci alla giurisprudenza, perché quel confine è spesso sottilissimo.

Analizziamo i tre casi più frequenti.
Anzitutto, impedire al calciatore di partecipare alle sedute di allenamento o alla preparazione precampionato: questo, secondo la giurisprudenza, potrebbe rappresentare una condotta mobbizzante, se reiterata con frequenza per un lungo periodo e senza una valida giustificazione tecnica.
Spesso, invece, la società agisce con più incisività, mettendo fuori rosa il giocatore e non inserendolo nelle lista dei 25 nomi per il campionato o anche, per le squadre che giocano in Europa, nella lista Uefa: ciò configura o no il mobbing? L’inserimento nelle liste campionato e Uefa è sempre presentato come frutto di una scelta tecnica e quindi può essere considerato una condotta mobbizzante solamente laddove non ci sia una valida giustificazione e sia provato lo scopo di isolare il calciatore per piegarne la volontà e fargli accettare il trasferimento, il prolungamento del contratto o la risoluzione consensuale del rapporto. Ma la giurisprudenza ha spesso chiesto di più, ad esempio forme di aggressione fisica da parte di dirigenti, ma anche di compagni di squadra o di tifosi, sempre che siano comunque riconducibili alla società.
Infine, il terzo caso, probabilmente quello di gran lunga più frequente: quando le scelte di escludere il giocatore dagli allenamenti, o di non mandarlo in campo, non sono della società (datore di lavoro), bensì dell’allenatore. Il mister, in virtù dell’Accordo collettivo allenatori di serie A, s'impegna a tutelare ed a valorizzare il potenziale atletico della società ed a predisporre ed attuare l’indirizzo tecnico, l’allenamento ed a assicurare l’assistenza nelle gare della o delle squadre a lui affidate di cui assume la responsabilità ed al rispetto delle istruzioni impartite dalla società; la società tuttavia, dal canto suo, non potrà, effettuare alcuna ingerenza nel campo delle competenze tecniche dell’allenatore, tale da non consentire allo stesso lo svolgimento utile del proprio lavoro o da apparire pregiudizievole per la stessa immagine dell’allenatore. Il confine tra l’obbligo al rispetto delle istruzioni impartite dalla società e il divieto d’ingerenza nel campo delle competenze tecniche dell’allenatore è anche in questo caso molto sottile. Giurisprudenza dice che l’allenatore ha diritto di scegliere chi far scendere in campo e che non esiste il diritto di essere titolari; anzi, qualora un giocatore rifiutasse la panchina si configurerebbe un suo inadempimento contrattuale. Tutto cambia, però, qualora si riesca a dimostrare, ed è successo, che la scelta sia stata effettuata in mala fede, cioè che l’allenatore abbia agito dietro precise indicazioni della società: in quel caso si configura il mobbing. Non a caso, molte delle vicende di mobbing nel calcio sono state riconosciute in seguito alla testimonianza dell’allenatore, che ha confermato che le sue scelte discriminatorie in realtà fossero state prese obbedendo ad una precisa strategia della società.

Ecco cos’è il mobbing nel calcio: uno stagno dalle acque torbide, dove si muovono pesci grossi e pesci piccoli.
Pesce grosso mangia sempre pesce piccolo. Per fortuna, esiste la giustizia e i diritti di lavoratori che, per quanto privilegiati, osannati e stra-pagati, sono lavoratori. Sono pesci piccoli alla mercé dei datori, quando questi decidono di trasformarsi in squali mangia-soldi... e mangia pesci piccoli.
Buon primo maggio, calciatori.
Buon primo maggio anche a voi.